Parla il giornalista
che per primo scoprì che il Che era stato assassinato dopo la
cattura e non ucciso in combattimento come sostenevano le autorità
boliviane.
Walter Operto
Hanno ucciso
Che Guevara
Scritto da
Filippo Fiorini,
In un giorno
qualsiasi della primavera argentina è arrivato a Buenos
Aires Walter Operto, un signore elegante e sereno, che gli
appassionati di teatro riconoscono per essere uno dei più
stimati drammaturghi di queste terre. Pochi però sanno che
quasi cinquant'anni fa, fu anche il giornalista che scoprì
e denunciò l'omicidio di Ernesto Che Guevara, smentendo la
versione ufficiale per cui il leggendario guerrigliero era
morto combattendo contro l'esercito boliviano.
Quanti anni ha, Walter?
76. Sono nato in
provincia di Rosario, da due contadini piemontesi.
Quando naque la sua passione per il giornalismo?
Fu più che
altro una necessità. Io scrivevo racconti, versi, cercavo
lavoro e nel '54 un gruppo di poeti mi fece entrare in un
quotidiano.
Quando arrivò alla rivista «Asì»?
Nel '62. A
Rosario non c'erano praticamente più giornali, erano
falliti tutti, allora mi trasferii a Buenos Aires.
Che taglio editoriale aveva la testata?
Era una rivista
popolare nel senso migliore del termine. All'epoca il
peronismo era proibito. Era una brutta parola dire «Peron»,
«Viva Peron», «peronista», potevi essere arrestato. La
rivista Asì si occupava di problemi sociali. Le proteste
dei lavoratori dello zucchero. Le lotte dei preti
terzomondisti e poi qualche notizia di cronaca. Era la più
letta del Paese.
Walter Operto |
Come
arrivò in redazione la notizia della morte di Ernesto Che
Guevara?
Nell'ottobre del
1967 stavamo seguendo con attenzione la Bolivia perché era
nata una guerriglia di tipo focolaista (Che Guevara teorizza
ne La Guerra di Guerriglia che sia possibile innescare una
rivoluzione anche partendo da un piccolo focolaio ribelle,
ndr) nel dipartimento del Beni, la zona contadina del Paese.
Sapevamo che erano braccati.
Sapevate anche che tra loro c'era Che Guevara?
No, non lo
sospettavamo neppure. Alla testa c'erano i fratelli Inti e
Coco Peredo del Partito Comunista Boliviano. Allora
l'ubicazione del Che era sconosciuta e causa di ipotesi di
ogni tipo, anche completamente inverosimili, come che Fidel
lo tenesse prigioniero o che fosse morto in Congo. La
notizia della sua presenza in Bolivia si apprese solo dopo
l'ultimo combattimento, l'8 ottobre, quando dissero che era
stato fatto prigioniero.
Quale fu la vostra reazione?
Il direttore mi
assegnò un fotografo, Hugo Lazaradis, e mi disse che dovevo
andare in Bolivia. Chiamò anche Miguel Fitzgerald, che
pilotava il piccolo Cessna del gruppo editoriale, e 5 ore
dopo volavamo verso la frontiera.
La Higuera. La casa dove fu ucciso il Che diventata un museo |
Vi ha
mandato perché diffidava della versione ufficiale?
No, per niente,
solo perché era una notizia rilevante. Arrivammo a Valle
Grande, in Bolivia, senza mappa, atterrammo in campetto da
calcio e apprendemmo che c'erano novità: Ernesto era morto.
Era il posto in cui l'Esercito boliviano aveva fatto base per dare la caccia al Che?
Sì. Il
comandante in capo era il colonnello Zenteno Anaya. Il
gruppo che alla mattina aveva combattuto nella Gola del Yuro
(dove cadde Guevara, ndr), era agli ordini del capitano Gary
Prado. Questi però erano ancora nella selva, inseguivano i
guerriglieri sopravvissuti.
Qual è stata la prima cosa che ha fatto, una volta arrivato?
Parlare con
Zenteno Anaya. Sono andato alla caserma, i Rangers erano un
corpo d'elité dell'Esercito boliviano, addestrati in Usa.
Avevano armi moderne, grande prestanza fisica.
E Zenteno Anaya che le disse?
Che Guevara si
era consegnato dopo essere stato ferito da una raffica di
mitra, alzando una bandiera bianca e gridando: «Non
uccidetemi, sono Ernesto Che Guevara e per voi valgo più da
vivo che da morto». Poi mi disse che alcuni dei suoi
soldati erano stati feriti e gli chiesi di poterli vedere,
ma negò che fossero ancora lì. Disse che erano tutti a La
Higuera, nella scuola in cui era stato esposto anche il
cadavere del Che.
C'erano altri giornalisti con voi?
C'era solo il
mio fotografo. Dopo aver parlato col colonnello, andammo a
cercare il medico che aveva fatto l'autopsia sul cadavere,
il dottor Martinez Caso. Volevo che mi descrivesse le
ferite. Mi raccontò che Ernesto era stato colpito a un
fianco, alle gambe, alla spalla, e all'altezza del capezzolo
sinistro.
Il cuore.
Si, il cuore. Il
foro era di un calibro diverso dagli altri. Quella era stata
la causa della morte. Come poteva aver detto «non
uccidetemi», con una ferita del genere? Lì nacque il
sospetto che non fosse morto in combattimento. E il dottore
mi diede l'informazione che poco prima mi aveva negato
Zenteno Anaya. Mi disse: non avete parlato con i soldati che
hanno combattuto nel Yuro? No, gli risposi io, dove sono? E
lui mi disse che i feriti erano all'ospedale Señor de
Malta, poco lontano da lì. A quel punto ci raggiunse
Chouzinho, un cameraman argentino corrispondente della
Columbia Television Color statunitense. Gli raccontai quello
che sapevo e decidemmo di andare all'ospedale. Per
convincere le guardie a lasciarci passare, fingemmo di
essere militari. Siamo arrivati con passo deciso e abbiamo
dato il buongiorno con tono marziale. I soldati si sono
aperti senza battere ciglio. Avevamo i nomi dei soldati
Choque, Taboada, Paco e Gimenez e appena entrati in cortile
dissi: «Infermiera! Dov'è il soldato Choque?». Lo
trovammo in una gran camerata, insieme agli altri feriti.
Gli chiesi se fosse stato al Yuro e se avesse visto Ernesto.
Mi disse di averlo visto vivo e ferito e mi confermò che si
era arreso. «Quando l'hanno ucciso?», gli chiesi allora.
«Il giorno dopo, signore - mi rispose lui - gli hanno
sparato». Tutti gli altri tre soldati feriti ripeterono la
stessa versione.
I soldati dell'ospedale erano presenti quando lo uccisero?
No. Ma sapevano
che l'avevano giustiziato. Prima mi dissero che era stato un
sottufficiale e io attribuii il gesto a Gary Prado. Poi si
scoprì che era stato il tenente Mario Teran.
E poi cosa successe?
Entrò un
infermiere mentre Chouzinho filmava e Lazaradis faceva foto.
Si rese conto che c'era qualcosa che non andava e diede
l'allarme. Noi scappammo dalla porta sul retro e corremmo
fino al Cessna che ci aspettava sul campetto. Quando
Fitzgerald ci vide arrivare correndo, mise in moto e
fuggimmo.
Quanto tempo rimase in tutto a Valle Grande?
Non più di
quattro ore. Forse meno. Ho scritto il pezzo sull'aereo
mentre tornavamo a Buenos Aires. Avevo l'esclusiva
sull'omicidio del Che. Il giornale fece uscire un'edizione
straordinaria. Il presidente boliviano, il General
Barrientos, convocò una conferenza stampa per smentirci e
confermare la morte in combattimento. Disse che eravamo
giornalisti pagati dalla guerriglia. 72 ore dopo, i filmati
di Chouzinho stavano circolando sulle tv americane e non era
più possibile negare.
C'è una foto di Che Guevara in manette mentre lo portano dal Yuro a La Higuera. Chi la scattò? Quando comparve?
Credo uno dei
fotografi dell'Esercito boliviano. La foto comparve in
seguito, come parte di quella che potremmo chiamare
l'industria del Che. Quando noi arrivammo a Valle Grande, il
fotografo dei matrimoni della città stava già vendendo le
famose foto del cadavere con gli occhi aperti, esposto a La
Higuera.
Prima della morte del Che, il suo mito esisteva già?
No, fu una cosa
successiva. La bandiera di lotta nacque con la sua morte.
Quando la inviarono in Bolivia, lei ammirava Che Guevara?
Si, per me era
un esempio di lotta latinoamericana. Fu il primo a
riprendere il concetto di un'America Latina unita.
Perché crede che l'abbiano ucciso?
Ho una teoria
personale. Pochi giorni prima della sua caduta, furono
processati in Bolivia Ciro Bustos, il pittore argentino e
contatto in Europa dei guerriglieri, e Regis Debrais,
intellettuale francese e amico del Che (nonché autore di un
manuale di guerriglia). Il tribunale si riempì di
giornalisti e il governo boliviano subiva forti pressioni
internazionali, perciò fece liberare entrambi. Quando fu
catturato il Che chiese a Gary Prado se anche lui sarebbe
stato messo a processo. Il comandante gli disse di sì,
perché era convinto che quella fosse la decisione dei suoi
superiori. Poi, la Cia e i boliviani si resero conto che il
giudizio si sarebbe trasformato in uno spazio di propaganda
della Rivoluzione Cubana e delle idee guevariste. Per lo
stesso motivo, fecero sparire il cadavere.
Debray e Bustos in tribunale |
Perché
crede che la guerriglia del Che abbia avuto tante difficoltà
in Bolivia?
Il Che era stato
messo in guardia su questa possibilità. Prima di accendere
il focolaio ribelle lui e Fidel Castro ne parlarono con
Monje, il segretario del Pc Boliviano e questi disse che la
zona scelta era sbagliata. Che non c'era sufficiente
sviluppo politico affinché i valori della rivoluzione
potessero essere accolti. La zona giusta, secondo lui, era
quella delle miniere, dove però il Pc non aveva quadri, era
territorio del Mnr, il Movimento Nazionalista
Rivoluzionario. Ma il Che era un tipo ostinato e partì
comunque. Si scontrò con il rifiuto del contado.
Alcuni dei suoi compagni di lotta si sentirono abbandonati anche da Fidel Castro.
Questi discorsi
fanno parte della novellistica anti-cubana e anti-castrista,
non sono reali. Il Che e gli altri stavano cercando di
uscire della Bolivia con l'aiuto di Cuba. Comba, il suo
luogotenente, fuggi grazie a Fidel.
Ma Benigno si sentì offeso quando Ernesto gli chiese di morire per la Rivoluzione cubana nel Yuro. Credeva che li avessero traditi.
Questo è quello
che pensava lui. Ma con la sua richiesta Ernesto dimostrò
di essere convinto del contrario.
E lei come si sentì quando scoprì che l'avevano ucciso?
Triste e
arrabbiato. In uno degli articoli, scrissi: «E nonostante
questo la terra non ha tremato, il cielo non si è oscurato.
Nulla di quello che credevo sarebbe successo dopo la sua
morte è accaduto». Ma mi sbagliavo, il suo fu un
fallimento militare, ma un trionfo delle idee.
il manifesto |
26 Novembre 2013
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