Nella seconda metà
del Quattrocento Antonello da Messina incarna l’incontro-scontro
tra la scuola fiamminga e quella italiana. Il Mart di Rovereto dedica
un’ampia esposizione al grande pittore del Rinascimento e ai suoi
contemporanei.
Valerio Magrelli
Antonello da Messina
Ero arrivato per contemplare un sorriso ambiguo, riparto avendo negli occhi un atroce spasimo. Due sono i sorrisi che hanno segnato la storia dell’arte, entrambi composti da italiani. Se il più celebre e quello femminile della Gioconda leonardesca, il piu beffardo e forse quello maschile dell’Ignoto marinaio, dipinto da Antonello da Messina tra il 1460 e il 1470. Stando a un poeta come Paul Valéry, nel primo quadro il pittore di Vinci, fisico e “idraulico”, metteva a frutto lo studio sui mulinelli delle acque, per cogliere il segreto dell’espressione umana: il gorgo come la linea di un sorriso, appunto. Nel caso di Antonello, la cui vita resta al contrario assai lacunosa, è probabile invece che l’artista abbia lasciato il compito di studiare il moto dei liquidi al suo soggetto, certo più adatto di lui…
Ma torniamo
all’affermazione iniziale. Ero dunque partito per la mostra su
Antonello da Messina organizzata dal Mart di Rovereto, dalla
Regione Siciliana e dalla casa editrice Electa. Il progetto
espositivo, a cura di Ferdinando Bologna e Federico De Melis (con
la collaborazione di Maria Calì e Simone Facchinetti, catalogo
Electa), indaga la figura del sommo pittore all’interno del suo
tempo. La mostra nasce dai prestiti di alcune fra le più
importanti istituzioni culturali italiane e straniere. Eppure,
malgrado il dispiego di forze, a un simile tesoro manca proprio il
Ritratto dell’Ignoto marinaio. Esso fornì titolo e tema a uno
dei migliori romanzi di Vincenzo Consolo, il narratore siciliano
spentosi l’anno scorso. L’opera, uscita nel 1976, ha alcune
toccanti pagine sul dipinto: «Tutta l’espressione di quel volto
era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile,
fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli
esseri intelligenti coprono la pietà».
Ecco cosa aspettavo di
vedere. E invece, niente. Deluso come solo un dilettante che si
trovi senza più punti di riferimento (sebbene ovviamente
abbagliato da capolavori vertiginosi come l’impressionante,
leggendaria Annunciata), mi chiedevo che fare, finché ho scelto di
affidarmi alla mostra. Ed e così che sono giunto a accettare
l’inatteso passaggio dal sorriso assente (a causa di complessi
problemi amministrativi) allo spasimo presente. Ma andiamo con
ordine.
Il percorso parte
dalla formazione di Antonello, avvenuta, dopo Messina e Palermo,
nella Napoli di Alfonso d’Aragona, tra esperienze
provenzali-borgognone e fiamminghe. Qui il giovane svolse il suo
apprendistato presso il pittore partenopeo Colantonio, entrando in
contatto con le ricerche del grande pittore e miniatore francese
Jean Fouquet. A metà Quattrocento, la pittura europea è
costituita da un crogiolo di scuole, che si influenzano fra di loro
grazie all’ininterrotto viaggiare di opere e artisti.
In tale fervore di
scambi e ibridazioni (nota Federico De Melis nel ricco dialogo fra
i curatori che apre il catalogo), «Antonello si fa interprete di
un fermento creativo mediterraneo ed europeo incentrato
sull’incontro-scontro tra la civiltà fiamminga e quella
italiana». Se quasi certamente non si spinse fino nelle Fiandre,
come voleva Vasari, il pittore siciliano trascorse più di un anno
a Venezia, dove conobbe Bellini.
Ad ogni modo, spiega un decano della critica quale Bologna, l’incontro che più marcò il suo sviluppo rimane quello con Piero della Francesca.
Il valore di Antonello, insomma, nacque dalla capacità di armonizzare la costruzione prospettica degli italiani, con gli effetti cromatici e micrografici dei fiamminghi (si pensi alla loro ossessiva cura del dettaglio). Ultima tappa del suo itinerario fu la Milano sforzesca, in cui si andavano affermando le nuove ricerche di tipo spaziale condotte dal giovane Bramante. Ed è stato proprio qui, nella parte finale, davanti al Cristo alla colonna, che il sorriso inutilmente cercato si è trasformato nell’inatteso, stupefacente spasimo di cui dicevo (e che porta infine, sia pure abusivamente, a un altro libro di Consolo,Lo spasimo di Palermo).
Secondo Bologna, la
tavoletta si differenzia radicalmente dalle precedenti opere
dell’autore. «Anzi, rappresenta una svolta: non è più
l’Antonello à plomb; e un Antonello pienamente ruotante». Qui
davvero il dolore si fa forma, pura torsione volumetrica,
elicoidale. Le gocce di sangue e le lacrime, lo sguardo sofferente
e il volto alzato, già annunciano una nuova stagione cui la
prematura morte, nel 1479, impedirà al maestro di Messina di
partecipare.
Rispetto alle tre precedenti mostre antonelliane (Messina 1953 e 1981, Roma 2006), i punti di forza del nuovo allestimento sono dunque da un lato l’accento posto sulla produzione giovanile,dall’altro l’ipotesi di una profonda influenza esercitata sull’artista da Piero della Francesca. Non si può tacere, però, dello stupore che l’iniziativa ha sollevato per via del museo che l’accoglie. Per alcuni, cioè, sarebbe incongruo che il Mart, delegato a indagare l’arte moderna, si occupi di arte quattrocentesca. “Invasione di campo”? Ben venga ogni invasione del genere, se preparata con una tale cura, visto che, accanto all’esposizione di Antonello, la stessa direttrice del Mart, Cristiana Collu, ne ha ideata una seconda, L’altro ritratto,curata dal filosofo francese Jean-Luc Nancy (autore, nel 2000, del saggio Il ritratto e lo sguardo).
Sempre
nell’allestimento di Giovanni Maria Filindeu, scorrono tele, foto
e sculture di alcuni fra i più noti autori contemporanei. Niente,
però, fa effetto quanto i severi video in bianco e nero,
incorniciati come fossero quadri, di Fiona Tan. Infatti, ancora
intrisi dei timbri antonelliani, restiamo stupiti a osservare
l’uomo che taglia una mela. E davanti alla luce radente di questo
ritratto filmato, ci ritroviamo a chiederci quanto possa avere
influito sull’autrice la lezione fiamminga di un van Eyck.
(Da: La Repubblica 11
ottobre 2013)
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