Remo Remotti (Foto di Ilaria Scarpa)
Qualche giorno fa Remo Remotti ha compiuto ottantanove anni. Pubblichiamo la versione integrale e non censurata di un’intervista di Graziano Graziani uscita su Paese Sera.
Remo Remotti, genio e disciplina
Nell’immaginario collettivo Remo Remotti c’è entrato in molti modi. Come Siro Siri, l’istrionico vicino di casa di Nanni Moretti in «Bianca», o come l’autore di “Roma Addio”, geniale invettiva sulla Roma anni Cinquanta. Classe 1924, sulla soglia dei novant’anni Remotti si esibisce ancora in vari locali di Roma, come il Beba do Samba di San Lorenzo, e un pubblico di affezionati anche giovanissimi lo segue con affetto. L’anno scorso ha pubblicato una compilation – «Remo!» – che raccoglie i suoi recital più famosi e quattro brani inediti. Noi lo abbiamo incontrato nella sua casa di Roma, vicino piazza Bologna, piena fino all’inverosimile dei suoi quadri e dei dipinti di amici e colleghi pittori.
A quasi novant’anni vai ancora in scena. Di che parli?
Non ho capito la domanda. So’ mezzo rincojonito.
Dico… de che parli durante gli spettacoli?
Soprattutto di sorca. Poi ho un sacco di repertorio. Poesie, ma anche cose che ho scritto nei miei libri, ne ho scritti tanti, c’ho un sacco di materiale. Cose intelligenti, spiritose, e spesso parlo di sesso. Molto sesso prima del decesso.
“Molto sesso prima del decesso” è il tuo slogan?
Anche, sì. Ma la regola resta una: volemose bene, brutti stronzi!
Nei tuoi spettacoli reciti sempre anche il tuo pezzo più famoso, “Roma addio”.
Lì raccontavo una Roma anni Cinquanta, che non c’è più. Anche se la gente mi dice “è uguale, è uguale pure oggi”, ma non c’è paragone. Il mondo è cambiato dal giorno alla notte, dappertutto, come anche a Roma. Io poi che ti devo dire? Ora mi muovo poco, esco poco.
Ma che rapporto hai con Roma?
A Roma sono stato da dio. Però mi ha fatto pure schifo, perché io sono nato nel fascismo della chiesa cattolica e nel cuore della borghesia romana. Peggio de così… Però mi sono salvato. Sai come? Me so’ dato. Ho vissuto il fascismo, la guerra, il generale Graziani… li mortacci sua: gli hanno fatto una specie de monumento, adesso. A un delinquente come quello. Ha gasato la gente in Africa, ha mandato a morire un sacco di ragazzi. E tu fai un monumento a sta merda?
Ma di tutti i periodi di Roma che hai vissuto quale ti è piaciuto di più?
Gli anni Cinquanta, la Roma del Tevere. Facevo canottaggio sul Tevere, nuoto, avevo persino una specie di gondola che avevo ereditato da mio padre. E io col sole di Roma, il sudore, il canottaggio, ero felice. C’erano un sacco di ragazzi anche al circolo canottieri Aniene, stavamo lì, buttati sul galleggiante. Sotto i muraglioni del Tevere potevi stare nudo, giusto con un paio di calzoncini, pure d’inverno quando c’era il sole. Ho passato delle ore meravigliose, a ridere, a scherzare. È una fortuna. Oggi mi guardo intorno, vedo la vita dei giovani angosciati dalla mancanza di lavoro e mi dispiace. Quelli erano tempi più spensierati, ho passato una bella gioventù.
Però poi te ne sei andato.
So’ scappato nel Sud America, son stato sette anni in Perù. Ho avuto coraggio, ma sono stato ripagato perché in Perù ho ritrovato me stesso. Sono andato in una scuola d’arte e finalmente mi sono reso conto che ero un artista. Ho scoperto la pittura. E poi ho trovato anche dei maestri spirituali che mi sono serviti nella vita. Perché la spiritualità nella vita è fondamentale, non necessariamente quella cattolica. Io ho scritto un libro che attraversa un po’ tutte le religioni. Si chiama «Con Remottti alla ricerca di Dio», ma non si trova più.
Quindi l’altro tema di Remotti, oltre alla sorca, è Dio?
Certo. Sono due temi connessi, perché l’importante è amare, fare tutte le cose con amore. Anche il sesso. Il sesso è stato condannato praticamente solo dal Cattolicesimo e dall’Islam, che io sappia. Ci sono decine di religioni che lo esaltano. Il Tao, ad esempio. Cosa c’è di più bello che fare l’amore con una compagna? Però le cose non vanno fatte a casaccio, ci vuole disciplina. Non necessariamente cattolica, ripeto: io me la sono creata attraverso i miei maestri spirituali.
Chi sono? E qual è la tua disciplina?
La mia disciplina si rifà a Gurdjieff. Sono partito da lui, quando ancora non c’erano in giro i suoi libri. Ho iniziato frequentando una scuola esoterica che si rifà ai suoi insegnamenti. E poi leggo con grande piacere Osho e la cabala ebraica. Le mie colonne sono: il lavoro, la spiritualità, lo sport nei limiti del possibile, e la disciplina. E tra tante cose belle, anche il sesso.
A quasi novant’anni si fa ancora?
Quando ho i soldi frequento le mie donne. Dare dei soldi a una donna è la cosa più bella del mondo. Perché azzeri Freud, azzeri qualsiasi problema tipo “mi vuol bene/non mi vuol bene”, “sta con me/non sta con me”. Non me frega un cazzo: je do i soldi! Basta. Dice: ma quella scopa con tutti! Mbeh, perché tu’ moglie che fa? Dice: ma quella te leva i soldi! Perché, tu’ moglie che fa di diverso? È un gioco generale, ci siamo dentro tutti. Io lo dico senza cattiveria, però viviamo proprio in un bel casino…
Dalla pittura al teatro come ci sei passato?
È stato per via di un amico carissimo, Renato Mambor, pittore e regista d’avanguardia. Un giorno, negli anni Settanta, mi disse “vieni a teatro”. Lui stava all’Alberico e mi dice “vieni a lavorare come attore”. Ma guarda, io non sono attore. “No, ma sei bravo, vieni”, mi fa lui. E siccome io non perdo le occasioni, sono fatto così, mi sono buttato sul palco dell’Alberico e dell’Alberichino. Ho improvvisato delle cose simpatiche, roba così. Ma che succede? Che una certa Lu Leone mi fa: “Tu sei bravo, ti porto da Marco Bellocchio”. E siccome sono piaciuto a Bellocchio ho preso parte al suo film, «Il gabbiano» di Checov. Ci recitavamo Laura Betti, Remo Girone… E allora che è successo? Che, tornato a Roma, mi sono montato la testa. So’ diventato un attore! Così ho aperto i giornali e ho visto che c’era un nuovo regista, Nanni Moretti, molto bravo, spiritoso. Mi sono presentato a casa sua e gli ho detto: sono un attore, ho lavorato con Bellocchio, ti volevo conoscere. Beh, lui non è uno che ti butta le braccia al collo e diventa subito amico tuo; però è venuto a vedermi a teatro. Poi ha fatto «Ecce Bombo» e non mi ha chiamato. Invece mi ha chiamato per «Sogni d’oro», dove facevo Freud: un sacco di libri per preparare il film glieli ho prestati io. E lui mi ha dato carta bianca. Così mi sono ritrovato a Cinecittà. Che poi il rapporto tra Freud e la madre era paro paro quello che avevo io con mia madre. Che è stata una gran donna e mi voleva bene, ma non mi ha mai capito. Per farti un esempio: siccome sono stato in manicomio tre volte lei pensava che ero pazzo. E invece io non sono pazzo, sono un genio, caro ciccio!
Già, il manicomio. Tu hai detto solo i grandi ci vanno, gli scemi no.
Certo. C’è stato Nietzsche, Dino Campana, Alda Merini, Van Gogh. Io un mesetto qua e uno là, niente di più. Però ho avuto questo onore.
E tu perché ci sei finito?
La prima volta, in Perù, perché ho fatto un po’ di cavolate. Quando sei una persona sensibile capita che puoi soffrire per questo. Ne ho anche parlato nei miei spettacoli. Siccome sono uno sportivo non ho mai sofferto di depressione o cose così, perché la mancanza di un’identità mi metteva in crisi. Tuttavia al manicomio mi sono divertito. Ci trovi gente di gran valore, nelle cliniche psichiatriche: direttori d’orchestra, ingegneri, architetti… magari perché hanno l’esaurimento nervoso. Era il 1958, l’anno che poi sono tornato a Roma. In Perù ci sono stato dal ’50 al ’58.
Tornato in Italia, dopo un paio d’anni mi sono sposato con una brava ragazza, Maria Luisa, la sorella di Nanni Loy. Mi aiutò moltissimo, anche a liberarmi da mia madre che, poverina, mi rompeva le scatole. Però la vita non è facile, e men che meno le unioni. Nel 1968 stavo a Berlino e mi sono innamorato di una tedeschina di 28 anni, caruccia… sai com’è. Io con questa mia prima moglie, che aveva tante qualità, non riuscivo a farci l’amore. Con la tedesca ho avuto un rapporto d’amore e sesso breve ma bellissimo. Poi, preso dai sensi di colpa, mi spogliai nudo in mezzo alla strada, lì a Berlino. Mi presero i pompieri e mi portarono al manicomio. Il manicomio tedesco era molto bello, c’era addirittura un supermercato. Stavo bene, ma in Perù è stata la volta che mi sono divertito di più. Lì a Berlino la mattina mi veniva a trovare la fidanzatina tedesca, mentre il pomeriggio venivano mia moglie e mia madre, che nel frattempo erano arrivate da Roma. Vuoi sapere la novità? Ora so’ morte tutte e tre!
E il terzo manicomio?
A Quarto, dove è partito Garibaldi. M’è partita la brocca, e non lo so esattamente il perché. Il primo manicomio lo posso giustificare: con tutto il mazzo che m’ero fatto. E anche il secondo. Di base c’era sempre questo rapporto con mia madre. La mia vita è stata condizionata dal fatto che mio padre è morto giovane, quando avevo dodici anni. Mia madre, a 35, s’è ritrovata vedova e si è buttata su questo figlio con tutto l’amore possibile. È un difetto di quasi tutte le donne che diventano madri, ma nel mio caso… È stato un momento molto difficile per me. In questi rapporti troppo stretti con la madre c’è il rischio che il figlio diventi un frocio da pisciatoio. Lo ha scritto anche Jung, nel suo archetipo sulla madre: gli uomini narcisisti edipici, in una condizione simile, o diventano omosessuali o diventano dongiovanni. Che per lui è la stessa cosa.
Tu sei d’accordo?
Beh, insomma. Un conto è pijallo ar culo, un conto è scoparsi tutte le donne. Io preferisco Don Giovanni.
Torniamo all’arte. Ma preferisci il cinema o la pittura?
Al cinema ho lavorato con un sacco di gente, anche con Francis Ford Coppola e Woody Allen, e sono contento. Certo però il mio grande amore è stata la pittura. Ma poi a forza di lavorare sono arrivato alla scrittura, alla recitazione. Ho opere esposte nei musei, nelle gallerie, ho scritto libri per Einaudi, ho lavorato coi grandi registi americani. Io sono il più grande artista italiano. Dove lo trovi uno che fatto tutto quello che ho fatto io?
Ma la cosa più importante che hai fatto qual è?
Questa qua. (Tira fuori dei fumetti scarabocchiati col pennarello, ndr.) La mia arte più importante sono questi disegnetti, è un’arte che è nata con me. Ce ne ho un cassetto pieno. E ora sto preparando la storia della mia vita a fumetti. Questa è l’arte più genuina. Tu mi dirai: ma perché non l’hai fatto prima, allora? Perché ero uno stronzo. Amavo la pittura, e se ami la grande pittura come fai ad amare sti disegnetti? Invece, piano piano, ho capito che questa è la mia espressione più autentica.
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