Viaggio in California
24 novembre 2013 |
di Valerio Magrelli
[Questo diario di viaggio è uscito sul numero 16 (ottobre-dicembre 2013) di il Reportage].
Riporto a memoria un dialogo che
ascoltai molto tempo fa a teatro nel corso di una commedia, forse
tedesca. Ricordo bene la scambio di battute tra un commissario,
tempestivamente accorso sulla scena del crimine, e una testimone. La
donna, appartenente all’aristocrazia locale, gli offre gentile un drink,
per poi fermarsi di colpo imbarazzata: “Scusi, dimenticavo, mi perdoni:
so che per voi è vietato bere in servizio – No signora, al contrario,
la prego”, risponde rassicurante il poliziotto: “Noi beviamo soltanto in
servizio. Fuori, purtroppo, non possiamo permettercelo”.
Tenevo a ricordare questo aneddoto,
perché spiega perfettamente il senso dei miei viaggi professionali:
fuori del lavoro, purtroppo, non potrei permettermeli. Sono queste,
insomma, le premesse del mio recente soggiorno in California. Invitato
per quattro conferenze all’Università di San Francisco (Stanford) e
all’Ucla (University of California, Los Angeles), oltre che negli
Istituti di Cultura delle rispettive città, ho costruito attorno a
queste lezioni (parziali, seppure benemerite occasioni di rimborso) un
itinerario in auto durato all’incirca un paio di settimane. Di
spostamenti, del resto, posso dire di intendermene: non per altro, ho
compiuto venticinque anni di docenza fuori sede. Mi sono dunque recato
in California per festeggiare le mie nozze d’argento con il pendolarismo
e con le mie mansioni di “Vu ‘mparà” – la definizione più calzante
finora escogitata per indicare il professore fuori sede, che va portando
in giro, di cliente in cliente, mercanzia cognitiva a poco prezzo. Ma
eccoci al diario.
Mercoledì 15 maggio.
Arrivo, si fa per dire. All’aeroporto di san Francisco, infatti, io, mia
moglie e i nostri due figli maggiorenni dobbiamo affrontare un ritardo
di tre ore, una fila di un’ora alla dogana e un controllo di mezz’ora al
posto di polizia. Domando gentilmente a una guardia di indicarmi dove
si trovi la direzione della mia compagnia di viaggio, poiché intendo
protestare vibratamente. Per tutta risposta, l’antropoide mi chiede a
muso duro il passaporto. Capisco subito l‘aria che tira. Siamo o non
siamo italiani? Abbiamo o no, subito un millennio e mezzo di angherie?
(Anche se, per essere onesti, poco dopo che Roma le aveva a sua volta
inflitte ad altri popoli durante un periodo analogo…). Morale, davanti
alle sopraffazioni dell’autorità, davanti al disprezzo, al razzismo, al
“guantanamismo” dispiegati sul confine degli Usa (e a dire il vero
esercitati anche, mi è stato detto, verso gli stessi americanissimi
Wasp), mi limito a rassegnarmi. E sia, finalmente arriviamo.
Giovedì 16. In
mattinata, sotto una luce smagliante, passeggiata a Chinatown. Neanche a
farlo apposta, sbuchiamo davanti alla celeberrima libreria di Lawrence
Ferlinghetti, City Lights, tempio della beat generation e luogo di calda
accoglienza. Ma è gia tempo di muoversi. Ora la formazione familiare si
divide: io e mia figlia a Stanford, per la conferenza, mentre mia
moglie e mio figlio verso il complesso di Fishermanwharf, dove affittare
due biciclette. Cosi, se noi trascorreremo una giornata nel campus (e
non mi riferisco alle patetiche imitazioni italiane), ospiti prima del
Country Club universitario, poi di un ristorante persiano, in compagnia
di una ventina fra brillantissimi docenti e dottorandi, madre e figlio,
pedalando per quasi tre ore, attraverseranno il leggendario Golden Gate,
tra vento, vertigini, sole. Chi si è divertito di piu? Difficile
saperlo.
Venerdì 17. Visitiamo
due magnifiche costruzioni, immerse nel parco urbano più grande del
mondo. Penso a un magistrale studio sul linguaggio della botanica di
Robert Harrison, che proprio a San Francisco vive e insegna. Ora siamo
di fronte alla pinacoteca de Young (una immensa torre tortile di metallo
disegnata dallo studio svizzero Herzog e De Meuron) e al prospicente
museo della Scienza, progettato da Renzo Piano. Nel pomeriggio, dopo un
sopralluogo al piccolo Moma, dedicato alla fotografia, che ospita una
notevole mostra di Garry Winograd, conferenza nel bell’Istituto italiano
di cultura, e cena al grande ristorante Brix. Noi quattro, come due
coppie di Totò e Peppino, restiamo senza parole davanti alla maestà
dell’ambiente: sale alte venti metri, illuminazione bassa, musica
suadente, cibo squisito. Colpiti e affondati.
Sabato 18. Partiamo
verso il grande Sud, ossia il Big Sur di scrittori, attori, hippy e
tycoon. La strada che costeggia il mare vuole però una deviazione per
visitare uno splendido, lussuosissimo promontorio, Pacific Grove con
l’attraversamento del “17 miles”, ossia un labirinto ombreggiato che
sbuca a Carmen, cittadina leccata e gradevole. Alla prima riga della
guida turistica sono già fuori di me (inciso: io potrei essere il
Copernico delle guide turistiche: resto sempre sbalordito dalla loro
inverosimile supponenza, ignoranza, incapacità. Pensavo fosse un
requisito dei designer, miei intimi nemici, ma ora ho trovato un campo
che non è da meno. Interessanti prospettive di futuro impiego). Ecco che
cosa leggo: “Big Sur è uno stato d’animo”. Quanti equivoci si celano
dietro la spiegazione di un viaggio! Caro autore della guida, sappi, una
volta per tutte, sappi che noi non vogliamo conoscere le tue emozioni.
Noi comperiamo baedeker solo per essere condotti nel paesaggio
straniero, non nei recessi dei tuoi sentimenti. Non ci serve melassa, ma
indicazioni stradali. Inutile aggiungere che l’ineffabile poeta nulla
ci dice di come visitare un faro intravisto da lontano, né perde tempo a
descrivere la meraviglia di Sycomore Canyon e Pfeiffer Beach al
tramonto, o lo splendore delle McWay Falls nel cuore di una azzurra
mattinata. Niente da segnalare, invece, a Monterey (bella cena sul molo
accanto all’inespugnabile ristorante Brophy Bros), tranne un acquario
che tuttavia saltiamo, per ripartire più in fretta.
Domenica 19. Ci aspetta
l’inverosimile Hearst Castle, prototipo del maniero Xanadu nel quale si
rinchiude il magnate Orson Welles nel suo film più celebre: qui tutto
parla di Citizen Kane (Quarto potere) e del suo
inarrivabile Kitsch, fra tavoli spagnoli del Seicento e colonne corinzie
in cemento armato, inginocchiatoi toscani del Trecento e piscine greche
(riconoscibili appunto dalle greche che le istoriano), affreschi
settecenteschi e fregi liberty. Il monumento troneggia immenso sopra una
collina, e un tempo era circondato da uno zoo. Peraltro scorgo ancora
qualche zebra, anche se il pezzo forte è l’improvvisa comparsa di una
spiaggia con centinaia di leoni marini a pochi metri dagli osservatori!
Regali e maleodoranti, maestosi e puteolenti, ci ricordano la buia
potenza mefitica di una Natura non domata dall’uomo. Poi una notte
qualsiasi a Santa Barbara, in uno dei motel visti in migliaia di film.
Lunedì 20. Ultimo
tratto della Pacific Highway e tappa a Malibu, dove troviamo la
chiacchieratissima Getty Villa. Che dire? È la storia di un
collezionista d’arte antica che realizza il sogno di abitare nella sua
stessa collezione. Nasce così una finta villa romana, piena di cose
vere. Altre overdose di Kitsch, però gradevole, e tutto, sempre, sotto
un cielo terso e una brezza fatata. Neanche a farlo apposta, la mostra
temporanea riguarda la Sicilia, il che ci fa godere l’Auriga di Mozia in
trasferta. Ancora poche miglia e finalmente appare la sterminata Los
Angeles. Siamo in un bell’albergo di Down Town, e visitiamo a piedi (a
piedi a Los Angeles!), il piccolo ma toccante Moca (arte moderna su cui
regna Mark Rothko, edificio a firma del giapponese Arata Isozaki), lo
strepitoso Auditorium, luccicante e argenteo, che Frank Gehry ha
costruito per la Disneyland, nonché la Cattedrale di Nostra Signora
degli Angeli, di Rafael Moneo, altra archi-star, ma spagnola. La sera, The Great Gatsby. Incantato dal palazzo che ci ospita, passo più tempo a guardare la sala da cinema, che non la pellicola.
Martedì 21. Sveglia
all’alba, per perlustrare un altro tempio dell’arte, il Lacma,
nuovissimo, concepito come una costellazione di edifici. Poi la visita
al santuario di Mulholland Drive, quasi un’ora di lenta processione in
auto per setacciare la strada santificata dall’omonimo film di David
Lynch. La fame, però, cresce, ed è così che arriviamo a Sunset
Boulevard, dove ci imbattiamo in un accogliente ristorante di italiani,
Da Luca. Chi di Pisa, chi di Pescara, tutti, padroni e camerieri, ci si
fanno intorno curiosi e allegri. Una festa inattesa. Segue spedizione
lungo il breve e opulento Rodeo Drive (vetrine su vetrine, marche su
marche), quindi la visita a un altro spettacolare campus, quello della
già citata Ucla. Lezione, dibattito, ristorante con studenti e
dottorandi, in un clima oramai molto raro nelle università italiane. A
cena parliamo della città: vengo a scoprire che, in uno degli attuali
quartieri neri, sorgono due stupefacenti torri di materiale eterogeneo
che un manovale italiano eresse nel suo giardinetto, tutto da solo, nel
corso di quasi quarant’anni. Sono le Watts Towers, unico esempio di arte
autoctona, arte proletaria e immigrata, arte di un folle Gaudì operaio,
che non potrò visitare, ma di cui leggo un lungo, illuminante articolo
di Tom Harrison.
Mercoledì 22. Già
puntiamo su Venice, la spiaggia dove la folla fa palestra sotto il sole,
corre e fuma, gioca a tennis, scivola su pattini o skateboard, mangia,
ozia, fa il bagno massaggi cinesi. Poco dopo, noi, invece, puntiamo
verso il Getty Center, capolavoro ipertrofico di Richard Meyer, vasto e
solenne come una reggia, con fastosi giardini e pinacoteche, vera
Versailles californiana. Mangiamo al sole, in paradiso, poi raggiungiamo
l’Istituto italiano di Cultura per un dibattito sulla traduzione
poetica con Paul Evangelisti. Solita cena fervida, affettuosa, sonno
breve e profondo
Giovedì 23. Colazione
continentale (con evidente riferimento alla sua quantità), e prima sosta
davanti alla imponente insegna che spicca sulla collina. Ci troviamo,
si capisce, a Hollywood. L’auto fila, la benzina non costa nulla, ma
mentre traversiamo il deserto Mohave ci imbattiamo in un gigantesco
outlet. Non proviamo nemmeno a resistere. Quattro ore intere di
anestesia da shopping, in modo da arrivare troppo tardi per visitare
Calico, una “ghost town”. Ma di città fantasma possiamo farne a meno,
penso, mentre davanti a noi si spalanca Las Vegas. In mezzo al nulla,
sorge, in pieno deserto, un gruppo di grattacieli multicolori e
multiformi, sorti intorno a un’unica via, lo Strip. Aspettiamo la notte
per visitare la lunga serie dei casinò, con ettari e ettari di tavoli e
macchinette da gioco: l’elegante (termine un po’ fuori posto ma
efficace) Cosmopolitan, il Bellagio, con la sua strepitosa fontana (vedi
il film Ocean eleven), i fenicotteri nel giardino del
Flamingo, il vulcano artificiale del Mirage e la Roma imperiale del
Caesar’s Palace. Una menzione a parte merita il Venetian. Da fuori,
sopra l’acqua, il Ponte dei Sospiri e il Campanile di San Marco (anche
se rimpicciolito); dentro, in una rete di canali artificiali, con una
dozzina di gondole condotte da asiatici, sotto un cielo azzurro-alogeno
tipo Truman Show che riproduce, a mezzanotte in punto, un
tipico pomeriggio alla Serenissima. Superfluo precisare che mangiamo in
un ristorante puro Messico. Che c’è di strano? Semplice; la riproduzione
idrica di Venezia non è stata costruita al pian terreno, come chiunque
altro avrebbe fatto, bensì al primo piano dell’edificio! È sollevata da
terra, insomma, come fosse una città volante descritta da Italo Calvino.
Notte,
Venerdì 24. Ci aspetta
un piccolo aereo per il Grand Canyon. Giornata “turisticissima”, in
quanto organizzata nei minimi dettagli. All’arrivo, pullman e gita su
due Belvedere indimenticabil. Pranzo al sacco e ritorno a Las Vegas su
un biplano ballerino. L’impressionante panorama è dominato dalla diga di
Hoover, datata 1935, che viene definita come “l’oggetto più pesante del
mondo”.
Sabato 25. Commovente
visita alla Death Valley, dove troviamo luoghi quali Dante’s View o
Zabriskie Point. La nostra macchina tiene bene, in una fra le più vaste
depressioni del pianeta. Caldo sopportabile, mentre quando arrivai, nel
remoto 1977, in pieno agosto, rischiai lo svenimento. È una visione
talmente commovente che, per dare una giusta idea del paesaggio
stellare, potrei dire soltanto dire: “La valle della morte è uno stato
d’animo…”. Uscendo da questo parco nazionale, troviamo un’altra città,
sul punto di diventare fantasma: Trona. Se non è una “ghost town”, poco
ci manca. Fascino dei residui, potenza della dismissione, rovine
moderne, ossi di seppia della tecnologia. Ahimè, dobbiamo rinunciare a
vedere delle strane formazioni rocciose, tipo meteore greche, dove
girano film di fantascienza, perché ci aspetta una tappa intermedia,
Bakersfield, nota soprattutto per la sua musica country.
Domenica 26. L’anello
si chiude a San Francisco, raggiunta attraverso l’Oakland Bridge. È
proprio vero: gli idioti non hanno patria. Anche qui, uno della Grande
Famiglia degli Umanoidi ha colpito, pensando bene di far pagare un
pedaggio. Risultato: un’ora e mezzo di coda. Non sarebbe stato meglio
rapinarci armi in pugno? Almeno non avremmo perso tanto tempo. Ma ci
rifacciamo varcando il gratuito Golden Gate, per un pranzo nella
penisola di Sauselito, incantevole versione californiana della costa
amalfitana. Passaggio inevitabile per Lombard Street, la breve e vezzosa
strada-aiuola, poi la cena finale in un chiassoso piano-bar di stile
interamente pallacanestristico (cucinano una carne massiccia,
primordiale e preziosa come un antico reperto).
Lunedì 27. La mattina
libera permette almeno uno sguardo all’Asian Museum, e un altro, ben piu
attento, al Legion of Honour Museum. Immersa nella nebbia, questa
architettura tardo Ottocento deve il suo raro fascino alle scene di Vertigo,
in cui Hitchcock seppe tessere un magistrale corteggiamento davanti ai
quadri, con ampie sale vuote e risuonanti di misteriosi passi. Lasciamo
l’auto con 1.600 miglia all’attivo, pari cioe a 2.560 km; lasciamo gli
Stati Uniti. Ci aspetta Letta, il Pd-G (Partito dei Giuda), il
“berlusconismo come malattia senile/servile del comunismo”. Insomma,
prepariamoci alle Larghe Offese.
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