23 novembre 2013

VIAGGIO IN CALIFORNIA



Viaggio in California

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di Valerio Magrelli

[Questo diario di viaggio è uscito sul numero 16 (ottobre-dicembre 2013) di il Reportage].

Riporto a memoria un dialogo che ascoltai molto tempo fa a teatro nel corso di una commedia, forse tedesca. Ricordo bene la scambio di battute tra un commissario, tempestivamente accorso sulla scena del crimine, e una testimone. La donna, appartenente all’aristocrazia locale, gli offre gentile un drink, per poi fermarsi di colpo imbarazzata: “Scusi, dimenticavo, mi perdoni: so che per voi è vietato bere in servizio – No signora, al contrario, la prego”, risponde rassicurante il poliziotto: “Noi beviamo soltanto in servizio. Fuori, purtroppo, non possiamo permettercelo”.
Tenevo a ricordare questo aneddoto, perché spiega perfettamente il senso dei miei viaggi professionali: fuori del lavoro, purtroppo, non potrei permettermeli. Sono queste, insomma, le premesse del mio recente soggiorno in California. Invitato per quattro conferenze all’Università di San Francisco (Stanford) e all’Ucla (University of California, Los Angeles), oltre che negli Istituti di Cultura delle rispettive città, ho costruito attorno a queste lezioni (parziali, seppure benemerite occasioni di rimborso) un itinerario in auto durato all’incirca un paio di settimane. Di spostamenti, del resto, posso dire di intendermene: non per altro, ho compiuto venticinque anni di docenza fuori sede. Mi sono dunque recato in California per festeggiare le mie nozze d’argento con il pendolarismo e con le mie mansioni di “Vu ‘mparà” – la definizione più calzante finora escogitata per indicare il professore fuori sede, che va portando in giro, di cliente in cliente, mercanzia cognitiva a poco prezzo. Ma eccoci al diario.
Mercoledì 15 maggio. Arrivo, si fa per dire. All’aeroporto di san Francisco, infatti, io, mia moglie e i nostri due figli maggiorenni dobbiamo affrontare un ritardo di tre ore, una fila di un’ora alla dogana e un controllo di mezz’ora al posto di polizia. Domando gentilmente a una guardia di indicarmi dove si trovi la direzione della mia compagnia di viaggio, poiché intendo protestare vibratamente. Per tutta risposta, l’antropoide mi chiede a muso duro il passaporto. Capisco subito l‘aria che tira. Siamo o non siamo italiani? Abbiamo o no, subito un millennio e mezzo di angherie? (Anche se, per essere onesti, poco dopo che Roma le aveva a sua volta inflitte ad altri popoli durante un periodo analogo…). Morale, davanti alle sopraffazioni dell’autorità, davanti al disprezzo, al razzismo, al “guantanamismo” dispiegati sul confine degli Usa (e a dire il vero esercitati anche, mi è stato detto, verso gli stessi americanissimi Wasp), mi limito a rassegnarmi. E sia, finalmente arriviamo.
Giovedì 16. In mattinata, sotto una luce smagliante, passeggiata a Chinatown. Neanche a farlo apposta, sbuchiamo davanti alla celeberrima libreria di Lawrence Ferlinghetti, City Lights, tempio della beat generation e luogo di calda accoglienza. Ma è gia tempo di muoversi. Ora la formazione familiare si divide: io e mia figlia a Stanford, per la conferenza, mentre mia moglie e mio figlio verso il complesso di Fishermanwharf, dove affittare due biciclette. Cosi, se noi trascorreremo una giornata nel campus (e non mi riferisco alle patetiche imitazioni italiane), ospiti prima del Country Club universitario, poi di un ristorante persiano, in compagnia di una ventina fra brillantissimi docenti e dottorandi, madre e figlio, pedalando per quasi tre ore, attraverseranno il leggendario Golden Gate, tra vento, vertigini, sole. Chi si è divertito di piu? Difficile saperlo.
Venerdì 17. Visitiamo due magnifiche costruzioni, immerse nel parco urbano più grande del mondo. Penso a un magistrale studio sul linguaggio della botanica di Robert Harrison, che proprio a San Francisco vive e insegna. Ora siamo di fronte alla pinacoteca de Young (una immensa torre tortile di metallo disegnata dallo studio svizzero Herzog e De Meuron) e al prospicente museo della Scienza, progettato da Renzo Piano. Nel pomeriggio, dopo un sopralluogo al piccolo Moma, dedicato alla fotografia, che ospita una notevole mostra di Garry Winograd, conferenza nel bell’Istituto italiano di cultura, e cena al grande ristorante Brix. Noi quattro, come due coppie di Totò e Peppino, restiamo senza parole davanti alla maestà dell’ambiente: sale alte venti metri, illuminazione bassa, musica suadente, cibo squisito. Colpiti e affondati.
Sabato 18. Partiamo verso il grande Sud, ossia il Big Sur di scrittori, attori, hippy e tycoon. La strada che costeggia il mare vuole però una deviazione per visitare uno splendido, lussuosissimo promontorio, Pacific Grove con l’attraversamento del “17 miles”, ossia un labirinto ombreggiato che sbuca a Carmen, cittadina leccata e gradevole. Alla prima riga della guida turistica sono già fuori di me (inciso: io potrei essere il Copernico delle guide turistiche: resto sempre sbalordito dalla loro inverosimile supponenza, ignoranza, incapacità. Pensavo fosse un requisito dei designer, miei intimi nemici, ma ora ho trovato un campo che non è da meno. Interessanti prospettive di futuro impiego). Ecco che cosa leggo: “Big Sur è uno stato d’animo”. Quanti equivoci si celano dietro la spiegazione di un viaggio! Caro autore della guida, sappi, una volta per tutte, sappi che noi non vogliamo conoscere le tue emozioni. Noi comperiamo baedeker solo per essere condotti nel paesaggio straniero, non nei recessi dei tuoi sentimenti. Non ci serve melassa, ma indicazioni stradali. Inutile aggiungere che l’ineffabile poeta nulla ci dice di come visitare un faro intravisto da lontano, né perde tempo a descrivere la meraviglia di Sycomore Canyon e Pfeiffer Beach al tramonto, o lo splendore delle McWay Falls nel cuore di una azzurra mattinata. Niente da segnalare, invece, a Monterey (bella cena sul molo accanto all’inespugnabile ristorante Brophy Bros), tranne un acquario che tuttavia saltiamo, per ripartire più in fretta.
Domenica 19. Ci aspetta l’inverosimile Hearst Castle, prototipo del maniero Xanadu nel quale si rinchiude il magnate Orson Welles nel suo film più celebre: qui tutto parla di Citizen Kane (Quarto potere) e del suo inarrivabile Kitsch, fra tavoli spagnoli del Seicento e colonne corinzie in cemento armato, inginocchiatoi toscani del Trecento e piscine greche (riconoscibili appunto dalle greche che le istoriano), affreschi settecenteschi e fregi liberty. Il monumento troneggia immenso sopra una collina, e un tempo era circondato da uno zoo. Peraltro scorgo ancora qualche zebra, anche se il pezzo forte è l’improvvisa comparsa di una spiaggia con centinaia di leoni marini a pochi metri dagli osservatori! Regali e maleodoranti, maestosi e puteolenti, ci ricordano la buia potenza mefitica di una Natura non domata dall’uomo. Poi una notte qualsiasi a Santa Barbara, in uno dei motel visti in migliaia di film.
Lunedì 20. Ultimo tratto della Pacific Highway e tappa a Malibu, dove troviamo la chiacchieratissima Getty Villa. Che dire? È la storia di un collezionista d’arte antica che realizza il sogno di abitare nella sua stessa collezione. Nasce così una finta villa romana, piena di cose vere. Altre overdose di Kitsch, però gradevole, e tutto, sempre, sotto un cielo terso e una brezza fatata. Neanche a farlo apposta, la mostra temporanea riguarda la Sicilia, il che ci fa godere l’Auriga di Mozia in trasferta. Ancora poche miglia e finalmente appare la sterminata Los Angeles. Siamo in un bell’albergo di Down Town, e visitiamo a piedi (a piedi a Los Angeles!), il piccolo ma toccante Moca (arte moderna su cui regna Mark Rothko, edificio a firma del giapponese Arata Isozaki), lo strepitoso Auditorium, luccicante e argenteo, che Frank Gehry ha costruito per la Disneyland, nonché la Cattedrale di Nostra Signora degli Angeli, di Rafael Moneo, altra archi-star, ma spagnola. La sera, The Great Gatsby. Incantato dal palazzo che ci ospita, passo più tempo a guardare la sala da cinema, che non la pellicola.
Martedì 21. Sveglia all’alba, per perlustrare un altro tempio dell’arte, il Lacma, nuovissimo, concepito come una costellazione di edifici. Poi la visita al santuario di Mulholland Drive, quasi un’ora di lenta processione in auto per setacciare la strada santificata dall’omonimo film di David Lynch. La fame, però, cresce, ed è così che arriviamo a Sunset Boulevard, dove ci imbattiamo in un accogliente ristorante di italiani, Da Luca. Chi di Pisa, chi di Pescara, tutti, padroni e camerieri, ci si fanno intorno curiosi e allegri. Una festa inattesa. Segue spedizione lungo il breve e opulento Rodeo Drive (vetrine su vetrine, marche su marche), quindi la visita a un altro spettacolare campus, quello della già citata Ucla. Lezione, dibattito, ristorante con studenti e dottorandi, in un clima oramai molto raro nelle università italiane. A cena parliamo della città: vengo a scoprire che, in uno degli attuali quartieri neri, sorgono due stupefacenti torri di materiale eterogeneo che un manovale italiano eresse nel suo giardinetto, tutto da solo, nel corso di quasi quarant’anni. Sono le Watts Towers, unico esempio di arte autoctona, arte proletaria e immigrata, arte di un folle Gaudì operaio, che non potrò visitare, ma di cui leggo un lungo, illuminante articolo di Tom Harrison.
Mercoledì 22. Già puntiamo su Venice, la spiaggia dove la folla fa palestra sotto il sole, corre e fuma, gioca a tennis, scivola su pattini o skateboard, mangia, ozia, fa il bagno massaggi cinesi. Poco dopo, noi, invece, puntiamo verso il Getty Center, capolavoro ipertrofico di Richard Meyer, vasto e solenne come una reggia, con fastosi giardini e pinacoteche, vera Versailles californiana. Mangiamo al sole, in paradiso, poi raggiungiamo l’Istituto italiano di Cultura per un dibattito sulla traduzione poetica con Paul Evangelisti. Solita cena fervida, affettuosa, sonno breve e profondo
Giovedì 23. Colazione continentale (con evidente riferimento alla sua quantità), e prima sosta davanti alla imponente insegna che spicca sulla collina. Ci troviamo, si capisce, a Hollywood. L’auto fila, la benzina non costa nulla, ma mentre traversiamo il deserto Mohave ci imbattiamo in un gigantesco outlet. Non proviamo nemmeno a resistere. Quattro ore intere di anestesia da shopping, in modo da arrivare troppo tardi per visitare Calico, una “ghost town”. Ma di città fantasma possiamo farne a meno, penso, mentre davanti a noi si spalanca Las Vegas. In mezzo al nulla, sorge, in pieno deserto, un gruppo di grattacieli multicolori e multiformi, sorti intorno a un’unica via, lo Strip. Aspettiamo la notte per visitare la lunga serie dei casinò, con ettari e ettari di tavoli e macchinette da gioco: l’elegante (termine un po’ fuori posto ma efficace) Cosmopolitan, il Bellagio, con la sua strepitosa fontana (vedi il film Ocean eleven), i fenicotteri nel giardino del Flamingo, il vulcano artificiale del Mirage e la Roma imperiale del Caesar’s Palace. Una menzione a parte merita il Venetian. Da fuori, sopra l’acqua, il Ponte dei Sospiri e il Campanile di San Marco (anche se rimpicciolito); dentro, in una rete di canali artificiali, con una dozzina di gondole condotte da asiatici, sotto un cielo azzurro-alogeno tipo Truman Show che riproduce, a mezzanotte in punto, un tipico pomeriggio alla Serenissima. Superfluo precisare che mangiamo in un ristorante puro Messico. Che c’è di strano? Semplice; la riproduzione idrica di Venezia non è stata costruita al pian terreno, come chiunque altro avrebbe fatto, bensì al primo piano dell’edificio! È sollevata da terra, insomma, come fosse una città volante descritta da Italo Calvino. Notte,
Venerdì 24. Ci aspetta un piccolo aereo per il Grand Canyon. Giornata “turisticissima”, in quanto organizzata nei minimi dettagli. All’arrivo, pullman e gita su due Belvedere indimenticabil. Pranzo al sacco e ritorno a Las Vegas su un biplano ballerino. L’impressionante panorama è dominato dalla diga di Hoover, datata 1935, che viene definita come “l’oggetto più pesante del mondo”.
Sabato 25. Commovente visita alla Death Valley, dove troviamo luoghi quali Dante’s View o Zabriskie Point. La nostra macchina tiene bene, in una fra le più vaste depressioni del pianeta. Caldo sopportabile, mentre quando arrivai, nel remoto 1977, in pieno agosto, rischiai lo svenimento. È una visione talmente commovente che, per dare una giusta idea del paesaggio stellare, potrei dire soltanto dire: “La valle della morte è uno stato d’animo…”. Uscendo da questo parco nazionale, troviamo un’altra città, sul punto di diventare fantasma: Trona. Se non è una “ghost town”, poco ci manca. Fascino dei residui, potenza della dismissione, rovine moderne, ossi di seppia della tecnologia. Ahimè, dobbiamo rinunciare a vedere delle strane formazioni rocciose, tipo meteore greche, dove girano film di fantascienza, perché ci aspetta una tappa intermedia, Bakersfield, nota soprattutto per la sua musica country.
Domenica 26. L’anello si chiude a San Francisco, raggiunta attraverso l’Oakland Bridge. È proprio vero: gli idioti non hanno patria. Anche qui, uno della Grande Famiglia degli Umanoidi ha colpito, pensando bene di far pagare un pedaggio. Risultato: un’ora e mezzo di coda. Non sarebbe stato meglio rapinarci armi in pugno? Almeno non avremmo perso tanto tempo. Ma ci rifacciamo varcando il gratuito Golden Gate, per un pranzo nella penisola di Sauselito, incantevole versione californiana della costa amalfitana. Passaggio inevitabile per Lombard Street, la breve e vezzosa strada-aiuola, poi la cena finale in un chiassoso piano-bar di stile interamente pallacanestristico (cucinano una carne massiccia, primordiale e preziosa come un antico reperto).
Lunedì 27. La mattina libera permette almeno uno sguardo all’Asian Museum, e un altro, ben piu attento, al Legion of Honour Museum. Immersa nella nebbia, questa architettura tardo Ottocento deve il suo raro fascino alle scene di Vertigo, in cui Hitchcock seppe tessere un magistrale corteggiamento davanti ai quadri, con ampie sale vuote e risuonanti di misteriosi passi. Lasciamo l’auto con 1.600 miglia all’attivo, pari cioe a 2.560 km; lasciamo gli Stati Uniti. Ci aspetta Letta, il Pd-G (Partito dei Giuda), il “berlusconismo come malattia senile/servile del comunismo”. Insomma, prepariamoci alle Larghe Offese.

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