DA " LI SCECCHI ISSALORI " DI VILLAFRATI ALLA STORIA DELLA SICILIA
Ho ancora vivo il ricordo degli asini di Villafrati che trasportavano il gesso a Marineo fino alla metà degli anni sessanta. Li chiamavamo SCECCHI ISSALORI!
Oggi che non circolano più, per le vie dei paesi, quegli asini, l'espressione verbale che resiste al tempo viene usata per indicare le persone sottomesse che hanno difficoltà a tenere alta la loro testa.
L'amico Pippo Oddo, noto per la sua straordinaria capacità di trasformare in storia anche i suoi ricordi, in questa pagina ci restituisce un pezzo di storia della nostra terra.
Pippo Oddo - L'asino e la Sicilia svelata
Piaccia o non piaccia, non c’è niente di male e men che meno
d’irrispettoso, ma il ridente paesino dove sono nato e cresciuto io è
tuttora noto nella zona come “paisi di li scecchi”, paese degli asini.
Il colorito blasone popolare gli fu appioppato non già per l'ottusità
dei suoi figli, ma perché una trentina di essi fino agli anni sessanta
del secolo scorso, e anche dopo, andavano a vendere gesso nei villaggi
vicini con branchi di sette o otto somari. Durante e subito dopo la
seconda guerra mondiale i “issalora” di Villafrati arrivavano con gli
asini addirittura nel centro di Palermo e s’incontravano in tutte le
principali fiere del bestiame della Sicilia, da San Cataldo a Sant’Agata
di Militello. Eppure l'asino non mi aveva dato mai da pensare prima di
un uggioso sabato mattina di una quarantina di anni fa. Di quel giorno
ricordo ogni minimo particolare.
Mentre respiravo polvere e muffa
del 1714 nella severa sala di studio dell'Archivio di Stato di Palermo,
intento a scavare con l'ansietà di un archeologo attorno al fittone
delle mie radici, mi trovai d'improvviso tra le mani un rivelo di anime e
beni contrassegnato dal rozzo segno di croce di un mio antenato allora
quarantenne. Non se la passava poi tanto male, la buonanima: possedeva
casa, stalla e pagliera, campi e vigna, una giumenta, due pariglie di
buoi, quattro vacche, una “inizia” e due “balduini”, di cui uno vecchio e
uno di quattro anni, zoppo. Ora, a parte il sudore versato per
interpretare la pessima grafia dell'oscuro prete che aveva compilato il
rivelo, non capivo che razza di bestie fossero i balduini. Consultai ben
quattro dizionari senza trovare nemmeno una traccia di quegli animali
misteriosi. M'informai con archivisti e studiosi. Niente, ne sapevano
meno di me. Per farla breve, la mia curiosità sarebbe rimasta inappagata
in eterno se ad un certo momento non si fosse profilato nella sala di
studio un inviato speciale della Divina Provvidenza camuffato da colto
padre gesuita. Mi rivolsi anche a lui, ovviamente.
E appresi che i
balduini o baldovini altro non erano che asini, «asini a tutti gli
effetti» celiò il sant’uomo, «capaci di ragliare e di cacciarsi le
mosche con la coda». Approfittando ancora della sua cortesia, gli chiesi
il significato etimologico di quello strano nome e lui mi spiegò che
baldovino deriva dal francese antico Bauduin, l'asino delle favole
d'oltralpe. Misi perciò a soqquadro tutti gli scaffali gravati da
dizionari stranieri alla ricerca dei possibili modi di chiamare l'asino,
saltando disinvoltamente dal baudet francese all'Esel tedesco, al
donkey inglese, al burro spagnolo, dal quale pare derivi l'epiteto
“burino” che i Romani tuttora riservano ai pronipoti di quanti un tempo
arrivavano nel centro nell'Urbe in groppa all'asino.
Esaurita la
consultazione dei vocabolari, passai mentalmente in rassegna i termini
dialettali della docile cavalcatura su cui il Messia entrò trionfalmente
a Gerusalemme. Me ne sovvennero pochini, a dire il vero: ciuccio,
sumeri, sumaru, ciucci e naturalmente, prima di ogni altro, sceccu. Ma
mi accontentai perché, statistiche alla mano, questi appellativi
coprivano più del sessanta per cento della popolazione asinina italiana.
E mi sentii riempire il petto dall’orgoglio pensando che si chiamava
sceccu un asino su quattro.
Potevo riservare allo sceccu minori
riguardi di quanti ne avevo dedicati al balduino? Mai e poi mai! Avviai
immediatamente una ricerca anche sul significato etimologico di sceccu. E
m'impelagai in una ridda di ipotesi da cui non sono stato mai più
capace di uscire. Non mi convincono né le tesi del Dizionario
Etimologico Siciliano del Pasqualino che farebbero derivare sceccu
dall'ebraico scech, cioè quieto, oppure da sciak, dimesso, né i
compiaciuti arzigogoli di chi, all'indomani dell'unità d'Italia,
inseguiva l'improbabile deriva ciuco, ciuccio, sciuccu, sceccu, senza
dimostrare il resto di niente. Se poi abbia ragione il filologo tedesco
Gerhard Rohlfs, che non esclude una lontana parentela della parola
siciliana con la corrispondente turca esèk (che si pronuncia escek), è
questione, a detta degli esperti, tutta da dimostrare.
Ma, con
buona pace di tutti i dubbiosi di questo mondo, nel mio piccolo io
un’idea me la sono fatta nel primo pomeriggio di un bel giorno di
primavera dei primi anni Novanta quando, in occasione del congresso
regionale della Cia siciliana, ho avuto l’onore di fare da cicerone
nelle vie di Palermo nientedimeno al presidente della maggiore
organizzazione degli produttori agricoli turchi, che parlava bene
l’italiano essendosi laureato a Firenze. Usciti da un ristorante satolli
e quasi brilli, abbiamo fatto un po’ di strada insieme discutendo di
facezie colossali, tipo “Mamma li turchi”, “li turchi su arrivati a la
marina”, “cosi turchi”. Ad un certo momento, in un vicolo nei pressi del
Politeama vidi un asinello attaccato ad un carrettino carico di
broccoli e carciofi di Cerda. «Come si chiama in Turchia
quell’animale?», chiesi all’ospite. «Escek», fu la sua risposta. «Quasi
come da noi: sceccu!», spiegai convinto di chiudere così l’argomento. E
invece no, il turco aggiunse: «Forse i primi asini arrivarono in Sicilia
dalla Turchia».
“Sarà vero?”, mi chiesi mentalmente, ma sapevo bene
che di scontato non c'è nulla a proposito dell'asino, e continuo a
pensarla ancora oggi così. Ha limitate capacità intuitive e
intellettive, vuole un inveterato luogo comune. Ma era tanto stupido
quell'asino della favola di Esopo che, vistosi lì lì per essere sbranato
dal lupo, ideò uno stratagemma che gli consentì di rompere i denti alla
belva? Prendiamo poi la scenetta del Presepio: che ci faceva l'asino
nella grotta di Betlemme? Riscaldava forse Gesù Bambino, come ci hanno
insegnato al catechismo? Tutto il contrario: «Quell’asinaccio insolente –
sono parole di Giuseppe Pitrè –, agitando le lunghe orecchie e alitando
violentemente, raffreddava i pannolini del Bambino», facendo incavolare
di brutto il Padre Eterno che non perse tempo a maledirlo.
Ma forse
le cose andarono in modo un po' diverso, se c'è ancora chi giura e
spergiura che la maledizione gli fu data perché appena vide nascere
Gesù, quella bestia si mise a ragliare in modo così spaventevole che
giusto per miracolo non fece seccare il latte a Maria Santissima. Ad
ogni modo, quali che siano stati i motivi della grave decisione divina,
l'asino fu maledetto e perciò, a differenza di certi scomunicati della
Padania, nessun siciliano timorato di Dio (tranne uno di mia conoscenza
di cui mi occuperò quanto prima) ha mai mangiato carne asinina, a meno
che non gliela abbiano propinata a sua insaputa sotto forma di salumi.
L'asino aveva però una pessima reputazione ancor prima del fattaccio di
Betlemme: per i pelati sudditi del faraone l'asino rosso era una delle
entità più pericolose che l'anima incontrava dopo la morte. Aveva
qualcosa in comune con la «Bestia scarlatta» dell'Apocalisse? Forse. Ma
non è il caso di scommetterci, anche perché l'asino non era per tutti
creatura malefica. Anzi, a detta di Pindaro, aveva un ruolo importante
nei culti apollinei. Era addirittura considerato sacro in molte
tradizioni. Gli stessi Ebrei erano accusati di adorare l'asino. E la
calunnia di onolatria non risparmiava i Cristiani, a giudicare da un
graffito del Palatino, ritrovato nel 1857, raffigurante un Crocifisso
dalla testa asinina, un suo devoto e la scritta «Alessandro adora il suo
Dio». Ma, a prescindere da tali aberrazioni e dagli stessi onori
riservati agli asini in occasione della Festa dei folli di medievale
memoria, rimane il fatto che l'asino è talora assurto alla dignità di
cavalcatura privilegiata dei signori d'Egitto e degli stessi Immortali
cinesi, che si facevano trasportare da asini bianchi.
Sorge allora
il sospetto che il paziente animale fosse considerato sacro o diabolico a
seconda del manto, con una scala di valori avente agli estremi il
bianco e il rosso. È poi fuor di dubbio che un certo peso l'abbia avuto
il sesso, penalizzante – contrariamente a quello umano – per gli
esemplari maschi. Asina era infatti la bestia con cui la Sacra Famiglia
fuggì in Egitto, asina quella montata dal Messia la Domenica delle
Palme, asina l'animale che avvertì Baalam della presenza di un angelo
mandato da Jahvè. Asine andò a cercare dopo averle perdute, Samuele. E
asine cavalcavano in Sicilia i curati di campagna, i questuanti, i
barbieri e gli altri artigiani rurali che nella stagione delle messi
giravano di aia in aia per riscuotere i crediti in natura che vantavano
nei riguardi dei contadini. Asinelle della razza sarda tiravano a
Palermo i carretti degli erbivendoli, degli acquaioli e dei gelatai.
Asine sono, naturalmente, le fattrici di asini e di muli, dispensatrici
del latte che più di ogni altro somiglia a quello umano, lo stesso con
cui si lavavano le matrone e gli effeminati damerini della Roma
imperiale.
Di ben più scarsa considerazione hanno goduto in tutti i
tempi gli asini maschi. Senza spingersi fino al Medioevo quando i vizi
degli uomini venivano rappresentati dai pittori con sembianze asinine, è
risaputo che, a parte i pochi esemplari destinati alla funzione
riproduttiva, quasi tutti gli altri asini venivano “sanati”, vale a dire
castrati. E l'ingenerosa sorte accomunava i rimanenti figli d'asina,
somarelli o muli che fossero, e i cugini cavalli e bardotti, che pure
avevano per madre la giumenta. È vero, in giro per l'Italia
preindustriale, qualche asino “nteru” si sentiva di quando in quando
ragliare, oltre a quelli da monta; ma, o apparteneva ad un padrone che
lo sottoponeva a fatiche da mulo, o veniva adibito a lavori ancora più
usuranti, come il trasporto di pietrame, gesso e calcina, oppure doveva
far girare norie, mulini, frantoi... gli occhi bendati come un
malfattore affidato alle cure del boia: era, insomma, asino con tanto di
attributi ma anche con qualche “custana”(guidalesco) di troppo. Custana
che non cicatrizzava certo con un semplice strofinamento di foglie
d'agave né tanto meno con applicazioni di rospi spaccati, come
suggerivano taluni maniscalchi sedicenti esperti di veterinaria
empirica. L’unico vero ma blando rimedio contro quelle brutte piaghe –
impacchi tiepidi di acqua ai fiori d'arancio – lo conosceva per conto
suo solo il villano. Era lui l'amico più sincero dell'asino.
Con
esso spesso condivideva una casetta di un solo vano, peraltro anche
ostello del maiale, del cane, della gatta, della tartaruga e delle
galline. Soltanto lui, il contadino, lo puliva e gli toglieva le cispe
dagli occhi. Lui vigilava per evitare che il basto non gli rovinasse la
schiena. «Ogni notte – scriveva nel 1884 il barone dei villani Serafino
Amabile Guastalla – si alza tre o quattro volte dal letto e con amorosa
insistenza osserva se non manchi di paglia, se sia sdraiato, se per caso
la cavezza non gli si attorcigli alla strozza. II giorno di San Vito fa
benedirlo dal prete, perché il Santo lo preservi dai morsi dei cani
idrofobi e fa benedirlo nel giorno di San Silvestro, perché il glorioso
pontefice lo difenda dai lupi. I figli spesso strillar! per fame, ma
all'asino non manca mai il manipoletto del fieno, un pugno d'orzo, o se
non altro, la paglia». Posto davanti al dilemma «di scegliere fra la
morte della moglie o del ciuco», il contadino «non sarebbe in forse un
minuto. Un'altra donna è presto trovata, ed egli ha il beneficio di
un'altra dote, e della carne fresca... ma invece a comprare un
altr'asino s'impantanerebbe nei debiti e a trarsene fuori ci vorrebbe
l'aiuto di Dio». Insomma, sapesse scolpire, il contadino farebbe
sicuramente una statua all'asino, prima di vederlo scomparire dalla
faccia della terra, come è già successo all'asino di Pantelleria (che a
fatica si è finalmente riusciti a riportare in purezza): l'ultimo
esemplare era morto annegato, malgrado lo speciale albo genealogico
ottenuto già negli anni Venti del secolo scorso, come l'altrettanto
celebre asino di Martina Franca.
Ma chi gliela fa la statua
all'asino, se lo sfortunato animale è stato snobbato perfino dallo
scultore Pietro Giambelluca il quale, pur animato dal nobile proposito
di recuperare l'identità culturale della sua gente, ha scolpito la Madre
Madonita in groppa a una mula, per collocarla all'ingresso di un
paesino, il suo, che fra i nomi passati ha avuto anche Asinello e Rocca
d'Asino? Non è tuttavia il caso di volergliene, all'artista, dato che lo
stesso sant'Eligio, protettore degli asini, non ha mai fatto una grinza
nel vedersi raffigurato dall'iconografia devota siciliana nell'atto di
benedire un cavallo mutilato. È già tanto che la bistrattata bestia sia
stata oggetto d'attenzione della pittura paesistica di fine Ottocento
che (ad onta delle critiche di cui è stata a suo tempo oggetto da parte
dei futuristi) adesso svela una Sicilia dimenticata, paesaggi ancora
integri, valori e rapporti d'armonia non più esistenti.
Ad ogni
buon conto, non di statue o di benedizioni formali ha bisogno al giorno
d’oggi l’asino, ma di protezione vera; e non solo perché per la sua
leggerezza il latte d’asina può sostituire degnamente quello umano
nell’allattamento di neonati con problemi intestinali; ma anche perché
da qualche tempo è tornato ad avere un ruolo nella cosmesi. A detta
degli esperti, il latte d’asina è infatti ben tollerato da qualsiasi
tipo di pelle. Ricco com’è di nutrienti (vitamine A, B1, B2, B6, C, D,
E), minerali ed oligoelementi (calcio, magnesio, fosforo, ferro, zinco),
acidi grassi polinsaturi (omega 3 e omega 6), proteine e aminoacidi,
permette un ottimale trattamento cosmetico «con proprietà idratanti,
rigeneranti e nutrienti». L'asino può ancora assolvere ad un ruolo
importante per la carne che dà, ma soprattutto come testimone di
millenni di storia e di civiltà contadina da recuperare all'interno
delle iniziative di sviluppo rurale e dei programmi di animazione
didattica e educazione ambientale. Nelle isole minori e nelle aziende
agrituristiche la mansueta cavalcatura della Sacra Famiglia può
diventare uno dei mezzi di locomozione ricreativa e culturale, a tutto
vantaggio della riscoperta del bello della campagna e dei segni di ciò
che per lungo tempo è stata.
E bisogna riconoscere che questa
consapevolezza nella nostra isola comincia a crescere. «Ad oggi – si
legge sul Portale dell’innovazione della Regione Siciliana –, secondo
dati forniti dall’Istituto per l’Incremento Ippico Regionale la
consistenza degli animali si aggira sui 500 capi, di cui 350 fattrici.
Gli allevamenti sono ubicati prevalentemente nella provincia di Ragusa
dove si concentra il 95% del patrimonio asinino siciliano. Questa
presenza significativa nelle campagne iblee ha portato alla costituzione
del registro anagrafico dell’Asino Ragusano. Nel resto del territorio
isolano ed in particolare in provincia di Agrigento e Catania si contano
allevamenti di recente costituzione specializzati nella produzione di
latte. Esiste infatti, a livello regionale, una crescente richiesta di
latte di asina, ricercato in modo particolare, per le sue proprietà
(contenuto medio di caseina ed albumine assai prossimo a quello
ritrovato nel latte umano e basso potere allergenico) che ne consentono
l’utilizzo, con effetti positivi, a neonati affetti da allergie
multiple. Per far fronte alla perdita del patrimonio genetico asinino e
contemporaneamente alle richieste del mercato, sono stati realizzati
degli allevamenti sperimentali di asini per la produzione ed il
confezionamento del latte, la cui utilizzazione potrà trovare diffusione
al di fuori dei tradizionali mercati del consumo del latte».
Ma
già nel 1999 alle pendici del Pizzo Vuturo, a pochi passi dalle dismesse
“pirrere” di gesso di Villafrati (nell’hinterland palermitano), aveva
cominciato ad operare Asinalat, un’azienda che adesso alleva più di
ottanta asine fattrici, che producono latte biologico. Per la mungitura
l’azienda si avvale di un moderno impianto meccanico appositamente
ideato per assicurare la totale salubrità del prodotto. È un esempio,
questo, per molti aspetti vincente, soprattutto perché il terreno dove
vengono coltivati i prodotti biologici di cui si nutrono le asine è
stato per diversi secoli calpestato e concimato dagli asini dei gessai
che trasportavano il materiale gessoso estratto dalle “pirrere” fino
alle “carcare” (fornaci), dove veniva preparato il gesso da muro che poi
gli stessi asini portavano ovunque ce ne fosse bisogno.
Pippo Oddo
Palermo, lì 07 dicembre 2013
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