Paleoantropologia. Un
libro e recenti lavori di scavo in Tanzania costringono a ripensare
l’origine dell’Homo Sapiens. Bipedi che camminavano in posizione
eretta, ma che vivevano gran parte della giornata sugli alberi.
L’ipotesi da verificare è come le varie famiglie di ominidi
evolute in maniera diversa si sono poi incontrate dando vita al
processo che ha portato all'Homo Sapiens.
Andrea Capocci
Lucy era una migrante
single
Laetoli, nel nord della
Tanzania, è uno dei luoghi che più hanno influenzato il nostro
senso dello stare al mondo. In quella zona di savana, già negli anni
Trenta i paleontologi avevano trovato denti che erano appartenuti a
ominidi allora sconosciuti. Sempre a Laetoli, nel 1978 la
paleontologa Mary Leakey aveva dissotterrato alcune impronte
risalenti a tre milioni e mezzo di anni fa. Datazione e morfologia
coincidevano con un altro ritrovamento di quattro anni prima in
Etiopia, lo scheletro quasi completo di Australopithecus
afarensis (dalla regione della scoperta, l’Afar). Anche le
impronte, dunque, erano state lasciate da individui della stessa
specie di Lucy.
Per molto tempo si è
pensato che si trattasse di un gruppo composto da due adulti e un
cucciolo, una famiglia simile a quelle umane. Per preservarle
dall’erosione, le impronte furono riseppellite di nuovo. Nel 2011
il governo tanzaniano aveva pensato di farne un museo per attrarre i
turisti.
Di questi tempi, non è
facile portare in un museo la paleoantropologia come se fosse una
disciplina consolidata. La scoperta di nuovi fossili costringe i
paleontologi a ridisegnare continuamente gli alberi genealogici degli
ominidi, con rami sempre più fitti e intrecciati. Anche il sito di
Laetoli si è ribellato alla musealizzazione: i lavori sono stati
sospesi dopo il ritrovamento di nuove impronte risalenti anch’esse
all’epoca di Lucy. Per analizzarle, nel 2015 i ricercatori locali
hanno chiesto aiuto a un team italiano, guidato da Giorgio Manzi
della Sapienza di Roma e da Marco Cherin, ricercatore all’università
di Perugia. Le conclusioni dei ricercatori, pubblicate sulla rivista
online e-Life a dicembre 2016, conducono ad una nuova,
profonda revisione delle conoscenze su Lucy.
La lunghezza delle
impronte fa ritenere i cinque individui avessero altezze comprese tra
circa 110-120 e 160-170 centimetri. Si tratterebbe degli ominidi più
grandi mai ritrovati, tanto che gli scienziati hanno soprannominato
l’australopiteco più alto Chewie, come il grande ominide Chewbacca
di Guerre Stellari. Ma ciò che colpisce maggiormente è la grande
variabilità tra un individuo e l’altro. Simili differenze si
osservano solo in specie caratterizzate da dimorfismo sessuale, in
cui il corpo dei maschi è molto più grande di quello delle femmine.
Nei primati, il
dimorfismo è associato solitamente a un’organizzazione sociale
poligamica, con un maschio dominante su un harem di femmine. La
selezione naturale, spiegano gli zoologi, premierebbe i maschi più
robusti in grado di affermare il proprio status nella competizione
con gli altri.
Australopithecus gahri
Lucy, dunque, doveva
vivere in gruppi più simili a quelli dei gorilla che alle nostre
famiglie nucleari. Non è la prima ricerca che riavvicina Lucy al
mondo delle scimmie più che a quello umano. Un altro studio recente
dell’Università di Austin (Texas) ha dimostrato che il suo
scheletro era particolarmente adatto ad arrampicarsi sugli alberi. A
una Tac a raggi X ad alta risoluzione, infatti, le ossa degli arti
superiori appaiono robuste come quelle degli scimpanzé, per la
necessità di sollevarsi rapidamente. Nonostante l’andatura bipede,
dunque, Lucy trascorreva almeno un terzo della sua giornata sugli
alberi e la sua morte sarebbe dovuta proprio ad una rovinosa caduta
da un ramo.
Devono essere dunque
riviste molte opinioni diffuse su Lucy e la sua specie, che anche
nell’iconografia scientifica ha spesso sembianze simili alle
nostre.
Lucy non viveva in
famiglia, né marciava nella savana come siamo abituati a
raffigurarla. Anche l’idea che usasse primordiali strumenti in
pietra per macellare le prede è controversa. A dirla tutta,
probabilmente la specie di Lucy, l’Australopithecus afarensis non
è nemmeno un nostro progenitore. Semmai, un lontanissimo cugino
estinto circa 2,9 milioni di anni fa senza lasciare eredi.
Secondo le frammentarie
informazioni a disposizione degli antropologi, infatti, è più
probabile che i progenitori del genere Homo fossero
l’Australopithecus gahri (scoperto nel 1996 in Etiopia e
risalente a 2,5 milioni di anni fa) o l’Australopithecus sediba,
mezzo milione di anni più recente, riconosciuto in Sudafrica nel
2010.
Man mano che nuovi
fossili vengono scoperti, il quadro della nostra evoluzione si
complica. Secondo lo storico della biologia Telmo Pievani l’immagine
più efficace per descriverlo è il «mosaico»: l’andatura bipede,
il cervello di grandi dimensioni, la produzione di utensili, persino
il linguaggio potrebbero essere emersi in luoghi e tempi diversi. Le
caratteristiche specifiche del genere Homo, cioè, non si sono
aggiunte gradualmente su un’unica linea evolutiva fino a separare
nettamente noi dagli altri primati. Ogni specie potrebbe aver
rappresentato una diversa combinazione di queste caratteristiche. Il
ritrovamento più sensazionale del 2015, le migliaia di ossa di Homo
naledi ritrovate nella Rising Star Cave (Sudafrica), va nella stessa
direzione.
Homo naledi
Secondo il paleontologo
sudafricano Lee Berger che le ha studiate per primo. H. naledi
mescolava caratteristiche del genere Homo e dell’australopiteco.
Sulla sua datazione non c’è ancora consenso, né è chiaro se la
grotta sudafricana ospitasse davvero riti funebri, un comportamento
osservato in popolazioni assai recenti. Ma qualunque sarà la
risposta, la collocazione di H. naledi ingarbuglierà ulteriormente
le carte.
Quel che appare ormai
certo è che anche altre specie di Homo avevano una dotazione
genetica compatibile con la nostra. Le ricerche recenti, aiutate
dall’analisi del Dna residuo nei reperti, mostrano che negli ultimi
centomila anni almeno cinque specie distinte di Homo (tra cui
sapiens) hanno convissuto a turno e si sono ibridate mescolando i
loro geni.
L’attuale egemonia
dell’Homo sapiens è accidentale e provvisoria, se misurata
sulle ere geologiche: in futuro, la nostra specie potrebbe
estinguersi oppure, sotto la pressione di crisi climatiche e altre
catastrofi, separarsi in gruppi e differenziarsi dando vita a nuove
specie. Ricerche recenti, come quelle sulle orche riportate sul
mensile Le Scienze di questo mese dal biologo Rüdiger Riesch,
mostrano che nuove specie possono nascere per semplice segregazione
culturale, anche senza isolamento geografico.
Da Darwin in poi, le
scoperte sull’evoluzione consistono dunque in una progressiva
emancipazione dall’antropocentrismo. Le ricerche raccolte ne
L’origine delle specie avevano dato un colpo letale alla sua forma
più dogmatica, il Creazionismo in base al quale la Natura ci
apparteneva per diretta discendenza divina. Ma anche dopo l’avvento
del paradigma evoluzionista, la comparsa dell’uomo è stato a lungo
rappresentato come il compimento ultimo di un processo che ha
coinvolto l’intero ecosistema: la scalata di Homo verso la cima
dell’albero della vita.
Lucy ha avuto il pesante
incarico di rappresentare il primo ominide dotato delle
caratteristiche a noi peculiari, dall’andatura bipede
all’organizzazione sociale, da cui far discendere la nostra intera
vicenda: qualcosa di molto simile a Eva, in fondo.
Liberarsi da questo
antropocentrismo «soft» richiede anche agli scienziati uno sforzo
culturale. Qualcosa di paragonabile allo spaesamento provocato da
Darwin o, meglio ancora, allo stupore dopo un incontro ravvicinato
del terzo tipo. La paleoantropologia ci mostra infatti che
nell’universo sono esistite altre forme di vita intelligente, con
cui abbiamo avuto contatti prolungati e profondi. Invece di
incontrarle dalle parti di Marte o di Andromeda, le abbiamo trovate
sotto terra.
Il manifesto – 15
gennaio 2017
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