02 febbraio 2017

ALLA RICERCA DELL' ALBERO GENEALOGICO

 
Paleoantropologia. Un libro e recenti lavori di scavo in Tanzania costringono a ripensare l’origine dell’Homo Sapiens. Bipedi che camminavano in posizione eretta, ma che vivevano gran parte della giornata sugli alberi. L’ipotesi da verificare è come le varie famiglie di ominidi evolute in maniera diversa si sono poi incontrate dando vita al processo che ha portato all'Homo Sapiens.

Andrea Capocci

Lucy era una migrante single

Laetoli, nel nord della Tanzania, è uno dei luoghi che più hanno influenzato il nostro senso dello stare al mondo. In quella zona di savana, già negli anni Trenta i paleontologi avevano trovato denti che erano appartenuti a ominidi allora sconosciuti. Sempre a Laetoli, nel 1978 la paleontologa Mary Leakey aveva dissotterrato alcune impronte risalenti a tre milioni e mezzo di anni fa. Datazione e morfologia coincidevano con un altro ritrovamento di quattro anni prima in Etiopia, lo scheletro quasi completo di Australopithecus afarensis (dalla regione della scoperta, l’Afar). Anche le impronte, dunque, erano state lasciate da individui della stessa specie di Lucy.

Per molto tempo si è pensato che si trattasse di un gruppo composto da due adulti e un cucciolo, una famiglia simile a quelle umane. Per preservarle dall’erosione, le impronte furono riseppellite di nuovo. Nel 2011 il governo tanzaniano aveva pensato di farne un museo per attrarre i turisti.

Di questi tempi, non è facile portare in un museo la paleoantropologia come se fosse una disciplina consolidata. La scoperta di nuovi fossili costringe i paleontologi a ridisegnare continuamente gli alberi genealogici degli ominidi, con rami sempre più fitti e intrecciati. Anche il sito di Laetoli si è ribellato alla musealizzazione: i lavori sono stati sospesi dopo il ritrovamento di nuove impronte risalenti anch’esse all’epoca di Lucy. Per analizzarle, nel 2015 i ricercatori locali hanno chiesto aiuto a un team italiano, guidato da Giorgio Manzi della Sapienza di Roma e da Marco Cherin, ricercatore all’università di Perugia. Le conclusioni dei ricercatori, pubblicate sulla rivista online e-Life a dicembre 2016, conducono ad una nuova, profonda revisione delle conoscenze su Lucy.

La lunghezza delle impronte fa ritenere i cinque individui avessero altezze comprese tra circa 110-120 e 160-170 centimetri. Si tratterebbe degli ominidi più grandi mai ritrovati, tanto che gli scienziati hanno soprannominato l’australopiteco più alto Chewie, come il grande ominide Chewbacca di Guerre Stellari. Ma ciò che colpisce maggiormente è la grande variabilità tra un individuo e l’altro. Simili differenze si osservano solo in specie caratterizzate da dimorfismo sessuale, in cui il corpo dei maschi è molto più grande di quello delle femmine.

Nei primati, il dimorfismo è associato solitamente a un’organizzazione sociale poligamica, con un maschio dominante su un harem di femmine. La selezione naturale, spiegano gli zoologi, premierebbe i maschi più robusti in grado di affermare il proprio status nella competizione con gli altri.
    Australopithecus gahri
Lucy, dunque, doveva vivere in gruppi più simili a quelli dei gorilla che alle nostre famiglie nucleari. Non è la prima ricerca che riavvicina Lucy al mondo delle scimmie più che a quello umano. Un altro studio recente dell’Università di Austin (Texas) ha dimostrato che il suo scheletro era particolarmente adatto ad arrampicarsi sugli alberi. A una Tac a raggi X ad alta risoluzione, infatti, le ossa degli arti superiori appaiono robuste come quelle degli scimpanzé, per la necessità di sollevarsi rapidamente. Nonostante l’andatura bipede, dunque, Lucy trascorreva almeno un terzo della sua giornata sugli alberi e la sua morte sarebbe dovuta proprio ad una rovinosa caduta da un ramo.

Devono essere dunque riviste molte opinioni diffuse su Lucy e la sua specie, che anche nell’iconografia scientifica ha spesso sembianze simili alle nostre.

Lucy non viveva in famiglia, né marciava nella savana come siamo abituati a raffigurarla. Anche l’idea che usasse primordiali strumenti in pietra per macellare le prede è controversa. A dirla tutta, probabilmente la specie di Lucy, l’Australopithecus afarensis non è nemmeno un nostro progenitore. Semmai, un lontanissimo cugino estinto circa 2,9 milioni di anni fa senza lasciare eredi.

Secondo le frammentarie informazioni a disposizione degli antropologi, infatti, è più probabile che i progenitori del genere Homo fossero l’Australopithecus gahri (scoperto nel 1996 in Etiopia e risalente a 2,5 milioni di anni fa) o l’Australopithecus sediba, mezzo milione di anni più recente, riconosciuto in Sudafrica nel 2010.

Man mano che nuovi fossili vengono scoperti, il quadro della nostra evoluzione si complica. Secondo lo storico della biologia Telmo Pievani l’immagine più efficace per descriverlo è il «mosaico»: l’andatura bipede, il cervello di grandi dimensioni, la produzione di utensili, persino il linguaggio potrebbero essere emersi in luoghi e tempi diversi. Le caratteristiche specifiche del genere Homo, cioè, non si sono aggiunte gradualmente su un’unica linea evolutiva fino a separare nettamente noi dagli altri primati. Ogni specie potrebbe aver rappresentato una diversa combinazione di queste caratteristiche. Il ritrovamento più sensazionale del 2015, le migliaia di ossa di Homo naledi ritrovate nella Rising Star Cave (Sudafrica), va nella stessa direzione.

   Homo naledi

Secondo il paleontologo sudafricano Lee Berger che le ha studiate per primo. H. naledi mescolava caratteristiche del genere Homo e dell’australopiteco. Sulla sua datazione non c’è ancora consenso, né è chiaro se la grotta sudafricana ospitasse davvero riti funebri, un comportamento osservato in popolazioni assai recenti. Ma qualunque sarà la risposta, la collocazione di H. naledi ingarbuglierà ulteriormente le carte.

Quel che appare ormai certo è che anche altre specie di Homo avevano una dotazione genetica compatibile con la nostra. Le ricerche recenti, aiutate dall’analisi del Dna residuo nei reperti, mostrano che negli ultimi centomila anni almeno cinque specie distinte di Homo (tra cui sapiens) hanno convissuto a turno e si sono ibridate mescolando i loro geni.

L’attuale egemonia dell’Homo sapiens è accidentale e provvisoria, se misurata sulle ere geologiche: in futuro, la nostra specie potrebbe estinguersi oppure, sotto la pressione di crisi climatiche e altre catastrofi, separarsi in gruppi e differenziarsi dando vita a nuove specie. Ricerche recenti, come quelle sulle orche riportate sul mensile Le Scienze di questo mese dal biologo Rüdiger Riesch, mostrano che nuove specie possono nascere per semplice segregazione culturale, anche senza isolamento geografico.

Da Darwin in poi, le scoperte sull’evoluzione consistono dunque in una progressiva emancipazione dall’antropocentrismo. Le ricerche raccolte ne L’origine delle specie avevano dato un colpo letale alla sua forma più dogmatica, il Creazionismo in base al quale la Natura ci apparteneva per diretta discendenza divina. Ma anche dopo l’avvento del paradigma evoluzionista, la comparsa dell’uomo è stato a lungo rappresentato come il compimento ultimo di un processo che ha coinvolto l’intero ecosistema: la scalata di Homo verso la cima dell’albero della vita.

Lucy ha avuto il pesante incarico di rappresentare il primo ominide dotato delle caratteristiche a noi peculiari, dall’andatura bipede all’organizzazione sociale, da cui far discendere la nostra intera vicenda: qualcosa di molto simile a Eva, in fondo.

Liberarsi da questo antropocentrismo «soft» richiede anche agli scienziati uno sforzo culturale. Qualcosa di paragonabile allo spaesamento provocato da Darwin o, meglio ancora, allo stupore dopo un incontro ravvicinato del terzo tipo. La paleoantropologia ci mostra infatti che nell’universo sono esistite altre forme di vita intelligente, con cui abbiamo avuto contatti prolungati e profondi. Invece di incontrarle dalle parti di Marte o di Andromeda, le abbiamo trovate sotto terra.

Il manifesto – 15 gennaio 2017

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