Oggi ci sentiamo più soli per la perdita di un grande studioso che ci è stato anche maestro ed amico. Il prof. Antonino Buttitta non è stato soltanto un grande studioso di antropologia culturale. Noi lo ricorderemo, sopratutto, come un uomo saggio e semplice, capace di ascoltare e parlare con tutti, come gli ha insegnato a fare suo padre Ignazio, u pueta di Bagheria. E' stato anche un grande animatore culturale che ha sempre sostenuto le iniziative culturali che faticosamente sono state portate avanti in tanti piccoli centri siciliani. Come, ad esempio, il suo appassionato intervento, nell' ottobre del 1980, al Convegno sui Beni Culturali di Marineo per sostenere l'istituzione di un Museo della civiltà contadina nel paese. Tornò a Marineo ancora tante altre volte; ma ci piace ricordare oggi la sua partecipazione al Convegno organizzato dal nostro Centro Studi nel 2005 su La Sicilia di Leonardo Sciascia e il sostegno dato alla rivista nuovabusambra.
Di seguito potete leggere una delle sue ultime interviste pubblicata da Dialoghi Mediterranei.
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Io e mio padre. Intervista ad Antonino Buttitta*
In più occasioni, in molti suoi
scritti, lei ha affermato che uno dei suoi maestri da cui ha imparato a
conoscere e ad amare la cultura siciliana e con essa lo studio delle
culture in senso lato, è stato suo padre. La figura del padre, oggi
“evaporata” e dissolta nella liquidità dei legami familiari del nostro
tempo, è stata per lei fondativa non solo come riferimento affettivo ma
anche come modello d’ispirazione etica, civile e culturale del suo
pensiero di studioso. È così?
Per quanto
riguarda l’identità intellettuale non v’ha dubbio che la mia formazione è
nata e maturata nel radicamento con la cultura siciliana che ho
esemplato da mio padre. Da mio padre ho anche ricevuto un’eredità morale
e politica, nel senso che ho appreso che un vero uomo di cultura deve
stare sempre dalla parte degli “scartati”, cioè dei vinti. Da mio padre
ho capito, attraverso un modo di dire, la concezione del mondo e della
vita dei Siciliani: Si u riccu non fussi foddi un campassi u puvireddu; come dire che l’unica possibilità che ha il povero, il debole per sopravvivere, sta nelle contraddizioni del potere, il suo cosmos è consentito soltanto dal caos del potente.
In un vecchio articolo pubblicato su L’Ora (21 novembre 1978) richiamando i versi “Cu camina calatu/ torci a schina/ s’è un populu torci a storia”, così scriveva: «Padre,
perdonaci se anche noi calando la schiena, abbiamo subito la
distorsione della storia. Solo i diversi come te non si fanno umiliare
dalla vita». Nel riconoscere il debito che ha contratto con suo
padre, quanto ingombrante è stata la forte personalità del poeta,
l’autorevolezza della sua esposizione pubblica, quanto dialetticamente
conflittuale è stato il rapporto privato con lui, e quanto, d’altra
parte, decisivo e fondamentale per la sua formazione umana e
intellettuale?
Non c’è dubbio che non in uno ma in più
momenti mi sono reso conto che il mio io, la mia identità assumeva senso
soltanto nel rapporto con mio padre. Quando in alcune occasioni per
divergenze politiche entravamo in conflitto, mi dispiaceva dover
constatare che la fede socialista ricevuta da mia madre differiva dalle
scelte comuniste di mio padre. Temevo di essere dalla parte del torto.
Mi convincevo – e ne sono ancora convinto – del fatto che la scelta
politica di mio padre era così vissuta, sentita, partecipata che la mia
posizione era fragile rispetto al suo impegno etico, oltre che
letterario. Al di là delle differenze politiche, peraltro oggi
assolutamente insignificanti, rispetto a lui, rispetto a quella speranza
nella quale lui credeva e della quale viveva, penso di non aver avuto
abbastanza fede. Ancora oggi sono convinto che dal punto di vista morale
mio padre fosse molto più nel giusto di me.
In concreto, cosa crede di avere imparato da suo padre, quale eredità si sente di avere raccolto?
Credo che innanzitutto gli debbo la
varietà dei miei interessi. Mi colpiva e mi ha formato la sua grande
curiosità intellettuale. La sua biblioteca, da cui ricavai le mie prime
letture, era varia e rapsodica. Accanto alle opere di Pitrè, c’erano
testi di argomento politico e filosofico. La letteratura siciliana
(Martoglio, Verga, Capuana, Pirandello, Brancati, Vittorini) e la
italiana si alternavano a quella spagnola (Calderớn, Blasco Ibanẽz),
francese (Dumas, Hugo, Zola, Maupassant), russa (Gogol, Tolstoi,
Dostoievski, Gorki), ungherese (Körmedi, Molnár) e americana (Steinbeck,
Saroyan, Hemingway). C’erano molte raccolte di poesie in italiano, in
siciliano (Meli, Tempio, Di Giovanni, Ammannato) e anche in altre
parlate locali. I poeti stranieri erano Lorca e Neruda. Sono stati
questi gli scrittori della mia giovinezza e da questi ho imparato a
privilegiare la letteratura su ogni altro operare umano.
Avevo quattordici anni quando in un
quaderno dalla copertina nera, come allora usava, cominciai a
raccogliere proverbi e canti popolari. I primi me li riferiva mio padre,
i secondi me li cantava mia madre. Ricordo ancora il testo di un canto
che mia madre amava ripetermi: Giuvini siti beddu e
dilicatu/dilicateddu di megghiu misura/ lu giummu d’oru tiniti a latu/e
lu rulogiu cu la firmatura./ Nisciti un fazzulettu addamascatu/e vi
stuiati sta ianca sudura,/chiù vi stuiati chiù beddu pariti,/un ànciuli
di diu m’assimigghiati.
Debbo, senza dubbio, al particolare
interesse di mio padre per il patrimonio linguistico del popolo le mie
scelte di orientamento scientifico. Già questo è tanto. Ma mi sento in
maggior debito con lui per avermi educato al rifiuto delle
disuguaglianze fra gli uomini in qualunque forma praticate. Ho imparato
da lui che si debbono e si possono combattere contrapponendo loro la
forza di valori ideali anche quando mitici. Ho letto e riletto mille
volte una cartolina, attaccata al vetro della sua libreria, diffusa dai
socialisti dopo il delitto Matteotti. Recavano le ultime parole rivolte
dal deputato socialista ai suoi assassini: «Uccidete me ma le mie idee
non le ucciderete mai. I miei figli si glorieranno del loro padre. I
lavoratori benediranno il mio cadavere. Viva il socialismo». Queste
parole, probabilmente mai pronunciate, hanno avuto per me tanto valore
formativo quanto mai avrei potuto ricavarne, né ho ricavato, da
qualsiasi altra lettura. D’altra parte la scelta politica di mio padre
era implicita e consequenziale al suo impegno culturale. Il mito in cui
credeva e in cui io, seguendo il suo esempio, malgrado le mille smentite
quotidiane, insisto nel continuare a credere, se non altro per restare
fedele alla sua memoria, era quello che la cultura dei deboli potesse un
giorno sconfiggere l’impostura culturale dei potenti. Per lui questa
cultura si identificava con quella del popolo siciliano. Di esso si
sentiva mèntore e voce critica. Inascoltato profeta, consapevole di
essere fuori dal mondo, sapeva di vivere in una realtà altra da quella
da lui sognata e sorrideva con dolcezza quando quest’ultima agli altri
appariva follia. Cercava l’umano in tutti quelli che incontrava, sia
essi essi noti e ignoti, con tutti intratteneva rapporti estroversi e
generosi: che si trattasse di grandi intellettuali come Rafael Alberti e
Carlo Levi o di semplici contadini.
Nella vita quotidiana suo padre era
dunque un uomo che pare vivesse immerso in un altro mondo, nella
dimensione poetica di una realtà altra rispetto a quella comune. Come
conciliava questo suo mondo con la realtà di tutti i giorni, con gli
impegni familiari, con le “coincidenze, le prenotazioni, le trappole,
gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede”?
Mio padre è stato un acrobata che ha
camminato con la leggerezza del poeta su un filo sottile e tenace,
sospeso in un equilibrio mobile e precario. Amava la libertà e
rincorreva l’ispirazione. Capitava spesso che si allontanasse
improvvisamente da casa e restasse assente per lunghi periodi. Un
giorno, ricordo che per farsi perdonare da mia madre si presentò a casa
di notte con in braccio una grande oca bianca. In un’altra occasione,
uscito per comprare qualcosa, non rientrò e comunicò molto dopo con una
cartolina di essere felicemente a Mosca. Era così mio padre, ma solo
apparentemente disincantato e distratto. Non finiva di sorprendere per
la capacità immediata di cogliere in uno sguardo l’essenza dei tanti che
gli chiedevano una dedica in un suo libro di poesie. Un giorno trovò
una scritta anonima sul cancello di casa: «Comunisti cornuti morirete
tutti». Non si affrettò a cancellarla. Si limitò ad aggiungere in calce:
«Questa è la morale fascista». Immerso in un rapporto profondo con la
natura, mio padre parlava perfino con i pesci e con gli uccelli e
incredibilmente uccelli e pesci parlavano a lui. Teneva un gallo, che
amava e curava come una persona cara, con cui dialogava con naturale
disinvoltura. Ogni volta lo mostrava orgoglioso agli ospiti. In realtà
anche nel quotidiano mio padre era un poeta e si comportava come tale.
Invertendo il titolo di una sua poesia, si può affermare che non era un
uomo che faceva il poeta ma un poeta che faceva l’uomo.
Si deve sicuramente a questo il suo unico amore filosofico, per quel Platone di cui leggeva e annotava i Dialoghi.
Un fortunato caso ha fatto sì che io rientrassi in possesso dei due
volumi della copia da lui posseduta. Qualcuno degli innumerevoli suoi
ospiti, delle più diverse e incerte estrazioni sociali, politiche e
morali, in genere amiratori e poeti essi stessi, l’aveva sottratto alla
sua libreria. Li ho ritrovati in una bancarella di vecchi libri a
Palermo. Mi ha colpito e commosso, per il suo significato di spia di un
orizzonte ideologico senza perimetro, il fatto che a un certo punto
un’affermazione del Filosofo greco per bocca di Epicarmo, secondo la
testimonianza di Alcino, riferita da Diogene Laerzio, venga commentata
con un pensiero di Mao. Questo tracimare luoghi, tempi e persone,
trasferendole in una dimensione dove il divenire molteplice e diversificato della storia si permuta nella continuità omogenea e atemporale dell’essere, è proprio del pensiero mitico e della poesia che ne è il prodotto più nobile.
La casa di Aspra dove abitava suo
padre è stata sempre luogo di incontri, spazio di convivialità e di
intrattenimento amicale, punto di riferimento di intellettuali, artisti e
poeti. Cosa ricorda di quegli incontri, di quei festosi raduni?
Sì, è vero. La villa di Aspra era un
porto di mare. Io non ricordo mai mio padre solo, c’era sempre gente. Si
mangiava, si beveva e si recitavano poesie. Questa era la casa di
Aspra. Cosa che, a volte, faceva molto arrabbiare mia madre. A casa di
mio padre era familiare la presenza di Renato Guttuso, vi si radunavano
artisti destinati a diventare famosi come Cagli, Migneco, Treccani, il
cileno Sebastian Matta, pittori che aveva conosciuto a Milano. Era un
luogo di riferimento dell’intellighentia di sinistra, che era
allora di moda ed egemone nei costumi culturali. Sulla terrazza di Aspra
ho conosciuto Alberto Bevilacqua, Mario Soldati, Elio Vittorini, Enzo
Siciliano e numerosi altri, ma, a dir la verità, pur nel rispetto della
loro fama, l’impressione che ricavavo da loro non era del tutto
positiva. Intravedevo una certa finzione, una certa teatralità. Mi
parevano non del tutto autentici. Non mi convinceva il loro interesse di
classe. Il loro stare dalla parte del popolo era forse solo
letteratura, teatro. La conclamata militanza marxista di alcuni serviva
per conseguire fruttuose posizione di potere accademico e letterario.
Non si può dire la stessa cosa per il poeta e patriota greco Alexandros
Panagulis, che mio padre aiutò e ospitò per mesi in questa casa di
Aspra, quando era perseguitato dai colonnelli. Credo che sia stato nel
1969, in occasione della prima fuga di Panagulis dal carcere in cui era
stato rinchiuso. Attraverso Panagulis mio padre conobbe il noto poeta
Ritsos che poi si adoperò per tradurre in neogreco e pubblicare il Lamento per la morte di Salvatore Carnevale. Panagulis non era soltanto un politico rivoluzionario, ma anche un apprezzato poeta, un vero intellettuale.
A ripensare a quella stagione, quel che
più mi ha impressionato è stato scoprire ciò che mio padre mi aveva
insegnato e più volte ripetuto e in cui ha creduto fino agli ultimi
giorni della sua vita: non è vero che a sinistra ci sono tutti i buoni,
gli onesti e gli intelligenti e a destra gli altri. Per me scoprire
questo fatto ha avuto un effetto fortemente traumatico, soprattutto
quando ho constatato che in alcuni settori scientifici, come in quello
degli studi storico-religiosi, i maggiori studiosi erano di destra, anzi
di estrema destra. Tuttavia, aggiungo subito che questa scoperta non mi
ha fatto perdere la fede negli ideali illuministi di libertà,
solidarietà ed eguaglianza che alimentano la cultura di sinistra.
Quale peso sulla sua formazione
intellettuale hanno avuto comunque gli studi meridionalistici degli anni
Sessanta, figure come quelle di Danilo Dolci, di Carlo Levi o di
Scotellaro?
L’interesse per questi autori in me
c’era, perché ovviamente lo esemplavo da mio padre. Ma era più di tipo
politico e umano che scientifico. Non c’è dubbio che Dolci è stata una
figura che, al di là delle diversità di opinioni, ha svolto un ruolo
fondamentale per la riscoperta del mondo popolare. Il caso Scotellaro
non è meno significativo perché, non diversamente da Dolci, al suo
interesse per la civiltà contadina ha associato un impegno politico, che
ha saputo esprimere nella sua produzione artistica. Mio padre era molto
vicino a Carlo Levi, che tra l’altro condusse a casa della mamma di
Carnevale, fornendogli suggerimenti per descrivere quasi in termini
mitici la sua figura di madre addolorata. A guardar bene, la matrice del
pensiero di Levi è riconducibile all’Illuminismo più che al
Romanticismo. Nella grazia del suo “guardare” va ricercata la dote che
gli consentì, meglio di sociologi e antropologi, di cogliere l’ordito
invisibile in cui consisteva il lato segreto e dolente degli uomini che
ha incontrato e raccontato.
C’è un episodio che ritiene possa
aver rappresentato una svolta, una illuminazione nella scoperta di un
padre che da quel momento non era più solo suo padre ma anche suo
maestro?
Mio padre è un grande poeta: se la
poesia è manifestazione di sentimenti umani e non immagini di
donzellette. In nome dell’utopia di un mondo di liberi e di eguali i
suoi versi sono diretti a risvegliare i «dannati della terra» dalle
sabbie del sonno e dell’oblio, cui secoli di ingiustizie li hanno
destinati. Vogliono essere e sono la loro voce. Non condizionato dagli
schemi retorici della scuola italiana (per fortuna aveva frequentato
solo le elementari), mio padre non distingueva tra il letterario e
l´umano, tra poesia e politica. A differenza degli accademici medagliati
la gente lo amava e lo ama ancora per la virtù, che solo ai poeti è
data, di volgere in infinito il finito dell’umano. Una volta ne ho avuto
una prova sorprendente. Mi trovavo a New York in difficoltà con un
biglietto per Caracas, pasticciato dall’agenzia e per mia
approssimazione. Intervenne un funzionario della compagnia aerea, come
appresi dopo figlio di un emigrante di Riesi, che leggendo il nome nel
biglietto mi chiese: «Lei ha qualcosa a che fare con Ignazio Buttitta?».
Avendogli detto che ero il figlio, in pochi minuti risolse il mio
problema. Lo ringraziai ma mi rispose: «Sono io che ringrazio lei per
avermi dato l´occasione di dare una mano al figlio di chi ha dato una
mano a tutti noi: il compagno – così disse – Ignazio Buttitta». Per
parte mia, di mio padre questo mi basta e mi avanza.
Quando andai a trovare mio padre,
due-tre giorni prima che spirasse, giaceva a occhi chiusi nel suo letto
di ospedale. Quando avvertì la mia presenza si rianimò e prese a
recitare i primi versi del Lamento per la morte di Salvatore Carnevale.
Era questo mio padre. Un angelo senza ali, un santo fuori dal Paradiso.
Sapeva rendere possibile l’impossibile miracolo di trasformare il
poetico in vissuto, le nebbie del quotidiano nelle voci stellate della
poesia. Per essere nato e vissuto da e accanto ad un poeta posso
testimoniare della capacità dei poeti di vedere la sostanza invisibile
dell’animo umano, di saper guardare oltre l’apparenza effimera del divenire alla permanenza eterna per quanto inattingibile dell’essere.
A lei si deve l’istituzione della
Fondazione Ignazio Buttitta. Quali ne sono state le motivazioni, quali
gli scopi e quali i progetti? A quasi dieci anni dalla sua costituzione
quale bilancio può trarre e quali prospettive può ipotizzare?
La Fondazione è stata istituita nel 2005
con il patrocinio dell’Università degli studi di Palermo e con il
riconoscimento come ente pubblico da parte dell’Assemblea Regionale
Siciliana. Ha come obiettivi la tutela, lo studio e lo sviluppo della
cultura siciliana in tutti i suoi aspetti storici, sociali e artistici. È
dotata di un proprio patrimonio artistico e librario e svolge intensa
attività di promozione e di produzione intellettuale. Ho creato la
Fondazione non per innalzare un monumento a mio padre. Mi sono
preoccupato di conservarne la memoria attraverso la costituzione di un
ricchissimo archivio di materiali documentari cui hanno concorso
numerosissimi privati. Tra gli altri, ultimamente, Sergio Flaccovio ha
donato alla Fondazione tutto il patrimonio grafico e fotografico della
storica casa editrice. Nell’archivio della Fondazione si conservano
anche i preziosi nastri registrati di canti e musiche popolari raccolti
in tanti anni dal Folk Studio. La sede naturale della Fondazione, quella
a cui avevo pensato in origine, era la vecchia casa paterna di
Bagheria, abitata dagli spiriti nella inesauribile immaginazione dei
locali, ma dove in realtà si aggirano ancora le ombre dei miei avi.
Debbo dire purtroppo che mi è mancata la collaborazione del Comune.
Bernardo Puleio: A quel convegno del 2005, come relatore c'ero pure io. Me lo ricordo, moderava da gran signore e da persona super competente. Me lo ricordo altre due volte al mio liceo: in occasione della presentazione di uno dei vincitori del premio Mondello e in occ
RispondiEliminaFrancesco Virga: Ricordo perfettamente, caro Bernardo, anche il tuo bell'intervento!
Silvana Locci: Tristezza infinita per la sua cara famiglia e per la mia cara amica Elsa Guggino alla quale mi stringo con affetto.