L'ultimo libro di Camilleri racconta una storia di banditismo nella
Sicilia del
primo Novecento e (parola di un grande storico come De Luna)
mostra che talvolta i romanzieri possono ricostruire il passato meglio
degli storici.
Giovanni De
Luna
La storia
secondo Camilleri
Una famiglia
contadina che diventa una banda, cinque fratelli che
diventano fuorilegge. La storia dei Sacco, raccontata
nell'ultimo romanzo di Andrea Camilleri ha le cadenze di un
western. I fratelli Sacco some Frank e Jesse James, le
campagne di Raffadali, provincia di Agrigento, tra la fine
dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, come il
tormentato Missouri dopo il sanguinoso epilogo della guerra
civile americana; gli ammazzamenti e le sparatorie come
rivolta armata contro un potere istituzionale (il Nord
unionista da un lato, lo Stato italiano dall'altra) vissuto
come pura sopraffazione e comunque nemico.
Non sono paragoni azzardati. Con una variante, però, tutta italiana. I Sacco non combattono soltanto contro l'apparato repressivo dello Stato. C'è la mafia di mezzo ed è un nemico molto più insidioso dei carabinieri. Tutto comincia, («la vita dei Sacco cangia nei primi misi del 1920»), infatti, con la richiesta del "pizzo" che arriva al padre, Luigi. La lettera viene bruciata nel camino. Luigi ha faticato troppo per avere quello che ha e non ha nessuna intenzione di dividerlo con gli estorsori. I suoi figli hanno alle spalle le due grandi esperienze formative delle classi subalterne italiane all'inizio del Novecento: l'emigrazione transoceanica e la guerra 1915-1918. In quel contesto hanno maturato idee socialiste, imparando a coltivare progetti per il futuro improntati all'onestà e al lavoro.
La loro reazione
alla minaccia mafiosa sottolinea proprio questa complessiva
estraneità alla tradizionale "rassegnazione" del
mondo rurale; denunciano il fatto ai carabinieri. E non
ottengono nulla. Lo Stato assente spalanca un vuoto di
potere fisiologicamente colmato dall'intimidazione mafiosa.
Contro l'alleanza tra Stato e mafia i Sacco si ribellano
impugnando le armi. Mai era successo niente di simile: una
sfida di contadini alla mafia, attaccata sul terreno per lei
strategico del monopolio della violenza. I nemici della
mafia diventato fuorilegge per lo Stato italiano. Il
racconto di Camilleri ne segue le gesta fino a un epilogo in
puro stile western («Pari in tutto e per tutto una scena di
pillicula western»): oltre duecento agenti di polizia
circondano la casa in cui sono asserragliati i Sacco e li
catturano dopo una furibonda sparatoria. All'arresto
seguirono il processo, (1928), la condanna (tre ergastoli) e
lunghe vicissitudini carcerarie.
Campagne di Raffadali |
Quella dei
Sacco è una storia vera. Per scriverla Camilleri si è
documentato consultando soprattutto le carte dei processi e
l'archivio familiare avuto da un discendente dei Sacco. Non
è una novità; i romanzi di ispirazione storica
accompagnano la sua Vigata in un arco di tempo che va dalla
fine del Seicento almeno fino agli anni del fascismo e della
seconda guerra mondiale trascinando il lettore in un serrato
intreccio tra gli eventi locali e i grandi scenari delle
vicende nazionali. Ma tutto questo non deve ingannare;
Camilleri diffida della storia, non la ama, ne riconosce
l'importanza ma preferisce tenerla a distanza. Troppo spesso
gli storici di professione hanno dimenticato "la gente
grama", la loro fatica di vivere, i loro saperi , la
loro sensualità, i loro corpi. E così Camilleri li sfida.
Non solo su piano della narrazione, dove non c'è partita,
ma spingendosi fino ad attaccare i fondamenti della loro
disciplina. Se la grande storia parla soprattutto dei
vincitori e dei potenti, non è colpa solo degli storici; è
che le tracce del passato su cui lavorano, "i
documenti", sono quelli lasciati da chi aveva già
l'intenzione di condizionare i posteri, costruendo in
anticipo i propri "monumenti": in buona fede sono
vittime di un'impostura ordita dal passato per imporre la
sua immagine al futuro. Camilleri si ribella a questa
impostura, costruendone un'altra, più raffinata e
irridente.
L'intero abito
professionale degli storici si è costruito sulla
distinzione tra il vero e il falso, sull'esercizio
preliminare della verifica dell'autenticità e
dell'esattezza dei documenti. Camilleri smonta questa
operazione rimanendole però vicino, attento a non
allontanarsene troppo per dare più spessore al suo attacco,
più sapore alla sua beffa. Così, all'inizio di un romanzo
c'è spesso un documento vero (un volantino del 1919 come in
Un filo di fumo, gli atti parlamentari dell'Inchiesta sulle
condizioni sociali ed economiche della Sicilia1875-1876 come
in La stagione della caccia, ecc...) che serve però a
costruire il falso più pericoloso per lo storico, quello
verosimile.
Con La banda Sacco la sfida si fa più sottile. Anche in questo caso si parte dalle "fonti", quelle giudiziarie, tra le più frequentate dagli storici di professione. Sulla base di questi documenti Camilleri organizza il suo racconto. Dividendo il libro in due parti. La prima, intitolata "I fatti come avvennero", è una vera provocazione. Nessuno storico oserebbe scrivere una cosa del genere. La storia non conosce fatti certificati; propone la conoscenza dei fatti, ma questa conoscenza non è un dogma, può cambiare se si scoprono nuove fonti e nuovi documenti.
La seconda parte
è intitolata "Considerazioni sui capitoli" e
allude alla soggettività dell'autore, alle sue personali
riflessioni e interpretazioni. I fatti separati dalle
opinioni? Sì, con un piccolo trucco: la parte "oggettiva",
quella dei "fatti" è scritta nella lingua di
Montalbano e dei romanzi, quella "soggettiva" è
scritta rigorosamente in italiano, la lingua dell'accademia.
Così il capovolgimento è completo. Il romanzo, ci dice
Camilleri, è proprio quello che "sembra" storia.
E la storia, ancora una volta, ne esce beffata.
la Repubblica | 06
Dicembre 2013
Andrea Camilleri
La banda Sacco
Sellerio, 2013
euro 13
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