MARIO PEZZELLA - W. BENJAMIN E LA TEOLOGIA DEL DENARO
1. In un frammento del 1921, Il capitalismo come religione[1], Walter Benjamin ha messo in rilievo in che misura il debito sia diventato l’oggetto di culto di una vera e propria teologia del danaro, che ha sostituito in larga misura la “teologia politica”. Benjamin radicalizza le idee di Weber sul rapporto tra modo di produzione capitalista e cristianesimo. Se per Weber il capitale nella sua forma moderna è stimolato dalla concezione calvinista della grazia e del peccato e poi procede alla sua secolarizzazione profana, per Benjamin è esso stesso religione: priva di dogmi, ma con un suo culto ineluttabile e continuo e un “dio minore” che ne perpetua il destino. “Il capitalismo -scrive Benjamin- è la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci. Non esistono “giorni feriali” non c’è alcun giorno che non sia festivo, nel senso terribile del dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estrema tensione che abita l’adoratore”[2]. Oggetto di questo rito è la merce, emanazione visibile della astrazione sovrasensibile e spirituale del danaro.
“Questo culto è colpevolizzante-indebitante”. Se il debito è il rapporto sociale che domina e sostituisce ogni altra forma di riconoscimento intersoggettivo tra gli uomini, esso stabilisce immediatamente anche un nesso di colpevolezza. Questa relazione è sottolineata dal termine tedesco Schuld, che significa allo stesso tempo debito e colpa, ed esprime con precisione la morale calvinista del lavoro: chi ha denaro, ed è dunque considerato solvibile, porta in tal modo un segno della Grazia ricevuta, mentre chi resta schiacciato dall’insolvenza e dal fallimento economico mostra di non poter superare lo stato di peccato. “Solvibilità” e redenzione da una parte; debito e colpevolezza dall’altra.
Tuttavia –a lungo termine- nessuno può evitare interamente di entrare nella parte del debitore inadempiente: quanto più procedono i processi di accumulazione e concentrazione del capitale, sempre più vaste masse vengono a trovarsi nella condizione di non poter restituire il danaro ricevuto a credito e gli individui cadono nella percezione reciproca della propria colpa. Durante una crisi economica (negli anni Venti ma anche in quella che ora viviamo) il debito sovrasta come destino a cui è impossibile sfuggire, vero stato di dannazione. Lo stesso imprenditore capitalista deve ricorrere inevitabilmente al prestito bancario, per poi poter riavviare il ciclo economico del suo capitale.
Il frammento di Benjamin illumina una soglia di rottura, liminare e utopica allo stesso tempo, in cui il succedersi delle crisi è così generalizzato e inevitabile che nessuno può interamente sottrarsi all’incombere della Schuld: giunti a questa linea nodale, il dio astratto del capitale domina col suo movimento impersonale ogni vivente, denunciando la sua debitorietà, la sua irredimibilità. L’uomo è allora dominato dalla Cura (Sorge), per il proprio essere insolvente, dal senso della sua mancanza e insufficienza, dall’impossibilità di trovare una “via d’uscita”; questa situazione non è però solo materiale ma diventa il suo abito sociale permanente, la Cura diviene angoscia come condizione eminentemente dotata di uno spirito oggettivo, benché malato: “Le ‘Cure’ nascono nell’angoscia per l’assenza di vie d’uscita che pertiene alla comunità, e non è individuale-materiale”(49).
Questo stadio utopico-distruttivo o terminale del capitalismo, è dominato da una ambiguità paradossale, perché comporta la colpevolizzazione-indebitamento di dio stesso e “il raggiungimento di una condizione di disperazione cosmica in cui proprio ancora si spera…L’estensione della disperazione a condizione religiosa cosmica dalla quale ci si attende la salvezza”(43). Di quale Dio stiamo parlando? Di un Dio che è divenuto interamente immanente al destino dell’uomo, che non ha più alcuna calvinistica trascendenza, ma si afferma nel centro stesso della storia.
Questa paradossale coincidenza di speranza e disperazione può intendersi in vari modi. Benjamin inizia con l’identificarne tre, in cui tuttavia non si riconosce e che considera significative ma inadeguate soluzioni: quelle offerte da Nietzsche, Marx e Freud, i quali non sono affatto –nella sua visione- “maestri del sospetto”, ma cercano invece di forgiare una soggettività superiore adeguata all’estremo corso del capitale. Essi non vogliono neppure sospenderne l’evoluzione destinale e catastrofica, ma si aspettano che proprio da questo estremo incremento distruttivo si apra la prospettiva del rivolgimento, l’affermazione e la forgia di un soggetto alla sua altezza. Il salto apocalittico del superuomo non costituisce un “rivolgimento-conversione” (Umkehr) del destino del capitale, ma un “potenziamento” (Steigerung) in apparenza continuo, ma che alla fine esplode in discontinuità”(45).
L’intensificazione estrema della colpa-debito, del movimento e dello sviluppo stesso del capitale, dovrebbe produrre la sua crisi terminale, da cui emergerebbe l’Uomo-Dio: non un uomo diverso, che abbia estinto le sue cure, ma anzi un soggetto eroico, che ha assunto positivamente e affermativamente il proprio destino tragico, sostiene con decisione la sua colpa. E’ il Superuomo di Nietzsche, ma forse ancor più di Dostoevskij, un Raskolnikov che accetta perfino il delitto come vocazione superiore: “Il superuomo… inizia coscientemente a realizzare la religione capitalista”. Non la liberazione-redenzione dal destino, ma l’intensificazione-accettazione dello stesso, e dunque l’affermazione del capitale come Essere assoluto. La religione demoniaca del capitale giunge all’autocoscienza dello Spirito, e –come nel Faust di Goethe- le basse arti di Mefistofele si trasfigurano nella volontà imperialista del Mago-Eroe. Secondo Benjamin, questa discontinuità superomistica è un’apparenza o una fantasmagoria e un’immagine di sogno[3], mentre in realtà la struttura dell’indebitamento resta inalterata. Nietzsche propone una soggettività che sembra superare la logica borghese-capitalista, ma in effetti si limita a una immedesimazione col suo spirito profondo.
Ciò vale anche per Marx, per quella parte della sua opera in cui il superamento del capitalismo sembra dipendere dall’incremento del suo stesso sviluppo e dalla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione (come se l’indebitamento generalizzato dovesse produrre –a interesse- il socialismo; un simile spirito riproduce spontaneamente una situazione debitoria tra l’elite capace di interpretare il mutamento e le masse che lo subiscono passivamente); e vale anche per Freud, riguardo a cui però il passo di Benjamin è davvero criptico e ci consente solo un’ipotesi vaga sul suo significato. Come afferma C. Salzani, “…soprattutto in Totem e tabù…e più precisamente nel mito dell’orda primigenia…Freud pone all’origine, non solo della religione, ma dell’organizzazione sociale tout court, la colpa originaria (Urschuld) per l’uccisione del padre. Questo è ‘il grande avvenimento da cui è iniziata la civilizzazione e che da allora non ha cessato di tormentare l’umanità’. Questa struttura è in fondo, per Freud, un modo più o meno razionale di gestire lo Schuldgefühl, che è e rimane ineliminabile”[4].
Il superuomo (Nietzsche), l’Uomo Nuovo (Marx), L’Io adulto (Freud), più che superare la logica debitoria, la sublimano in una assunzione immedesimante, che -nella terminologia del Passagenwerk- può essere definita come identificazione e interiorizzazione dell’essenza del credito. Volontà di potenza disperata, determinismo delle forze produttive, ribellione nevrotica degli impulsi inconsci, confermano –invece che sospendere- la percezione del mio essere in debito e in colpa. Anche se nel frammento Benjamin non lo dice espressamente, riconoscere in quelle tre forme soggettive il Dio nascosto, o finale, o in maturazione, della religione capitalista, significa in realtà trasfigurarlo in apparenza e fantasmagoria: perché il vero Dio di questo contesto resta il danaro e la sua logica creditizia-debitoria, che non viene scalfita. All’ambito “sacerdotale” del culto capitalista appartengono dunque in qualche modo anche Nietzsche, Marx, Freud. Tuttavia Benjamin pensa a partire dallo stesso limite tragico in cui si colloca il loro pensiero, nell’epoca del compimento del capitalismo, benché la sua risposta si voglia più radicale. Fra una teologia dis-torta e il suo “aggiustamento” messianico, come abbiamo visto a proposito del saggio su Kafka, esiste uno scarto minimo e insieme essenziale…
2. Pare che Benjamin, nel momento in cui scrive il frammento, avesse letto poco di Marx: eppure i passi marxiani che si riferiscono a una vera e propria “religione del capitale” sono numerosi. Una considerazione storica generale si trova nel I libro del Capitale: “Per una società di produttori di merci”, che giunge alla concezione del lavoro umano eguale e qualitativamente indifferente, “il cristianesimo con il suo culto dell’uomo astratto, e soprattutto nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo, deismo, ecc., è la forma di religione che più gli corrisponde”[5].
A questa anticipazione del pensiero di Weber seguono in capitoli successivi considerazioni sul debito e sul credito, assai vicine a quelle di Benjamin. A un certo grado di sviluppo della circolazione delle merci, il rapporto tra venditore e compratore muta carattere e una sottile disuguaglianza si instaura all’interno dello scambio: “Il venditore diviene creditore, l’acquirente diviene debitore”[6]. Questa discrasia poco appariscente si allarga però in una crepa minacciosa e costituisce ancor oggi un elemento drammatico delle crisi monetarie: “L’opposizione tra la merce e la sua figura di valore, il denaro, è spinta durante la crisi fino alla contraddizione assoluta”[7].
La contraddizione assoluta, già per Hegel, è quella che non consente né sintesi, né conciliazione, se si permane sul terreno dei due opposti in conflitto: essi collassano entrambi, esigendo un salto qualitativo, che sposta il punto di vista essenziale della coscienza (Hegel) o il principio costitutivo del modo di produzione (Marx). Gli opposti vanno entrambi a fondo, dissolvendo l’orizzonte epistemico di un’epoca e determinando il suo dissesto. La contraddizione è assoluta anche perché avviene tra due estremi che di per sé esigono una prossimità indissolubile, una consonanza nella dissonanza, e solo compenetrandosi sopravvivono: finchè il conflitto non ne impedisce comunque la compatibilità. Così si compongono e infine si distruggono, in Hegel, la legge divina che protegge i defunti, difesa da Antigone, e quella della Polis, imposta da Creonte; così si sostentano l’un con l’altro la merce e il denaro, in Marx, che però nelle crisi divorziano litigando l’una dall’altro: sicchè il denaro si svirilizza in un’animula priva di corpo e la merce marcisce, degradando rapidamente dall’organico all’inorganico, da lucente fantasmagoria a rifiuto tossico maleodorante.
Il denaro –anche per Marx- sembra richiedere un vero e proprio “culto” permanente e continuo[8], tanto che nel cap. 27 del primo libro del Capitale si configura un rapporto strutturale di ordini simbolici, fra la trinità cristiana e quella del capitale. Non è una formulazione ironica e tanto meno una battuta blasfema. Categorie teologiche –dis-tolte dal loro contesto originario ma non distrutte e cancellate dalla secolarizzazione- si sfigurano in fasi del movimento del capitale: così che la fede nel suo sviluppo e la sua creazione di ricchezza hanno buon gioco a occupare le primitive caselle simboliche della Grazia e della Redenzione, sostituendole nell’animo dei credenti, ma conservandone intatto il potenziale affettivo, emozionale, psichico.
Così il danaro è simile e insieme dissimile dall’immagine del dio cristiano: non è trascendente e pure è soprasensibile nel pieno e nel mezzo dell’immanenza. E’ forse questo paradosso a suggerire a Marx il paragone con l’alchimia, intesa come il rovesciamento simmetrico, ma non come la cancellazione dello spirito cristiano: “Tutto si può vendere o acquistare. La circolazione diviene la grande storta sociale dove tutto affluisce per uscirne di nuovo come cristallo di danaro. Nulla resiste a questa alchimia, neppure le ossa dei santi…”[9]. In effetti il capitale si appropria del patrimonio culturale di tutto il passato dell’umanità, reinterpretando dis-torcendo a sua giustificazione ogni simbolo e significato. L’ironia di Marx è una negazione della negazione, un détournement correttivo dello scherno effettivamente deformante che il capitale rivolge al passato: “La società moderna che appena nata tira giù pei capelli Plutone e lo trae fuori dalle viscere della terra, saluta nell’aureo Graal la meravigliosa personificazione del suo più alto principio vitale”[10].
Il capitale, pur affinandosi rarefatto nell’astrazione sovrasensibile del denaro e del credito, è dunque capace di un’immensa potenza di fascinazione, che giustifica la servitù volontaria a cui spinge i suoi sudditi. L’effetto fantasmagorico delle merci nel mercato e nel processo di circolazione è più rilucente ed esibito: ma lo stesso feticismo delle merci –per quanto decisivo- è per Marx una fantasmagoria di secondo grado, rispetto a quella che trasfigura la potenza del movimento del capitale in sé e per sé, il suo processo di produzione e l’apparenza della sua autogenerazione. L’identificazione e l’immedesimazione col danaro in sé, da parte degli adepti virtuosi del capitale, sono perfino più straripanti di quelle sollecitate dalle immagini della moda. Invece di rappresentare rapporti di merce –scrive Marx- il valore “si distingue, in quanto valore originario, da se stesso in quanto plusvalore, così come Dio Padre si distingue da se stesso come Dio Figlio, e ambedue sono coetanei e sono in effetti una sola persona, giacché le centodieci L.st. anticipate divengono capitale solo per mezzo del plusvalore di dieci L. st., e una volta divenute capitale, una volta generato il figlio e tramite esso il padre, la loro distinzione sparisce di nuovo ed entrambi sono uno, centodieci L.st.”[11]. Debito pubblico, saccheggio coloniale e pirateria, espropriazione dei beni comuni, sono la trinità demoniaca che permette l’accumulazione originaria del capitale, in una reciprocità persistente di indebitamento e di colpa.
Solo l’archetipo religioso, e la millenaria familiarità con esso, in cui l’economico precipita come in una forma cava, può rendere comprensibile l’altrimenti enigmatica sottomissione volontaria a ciò che è Spirito supremamente astratto: il danaro come segno e mezzo di misura dell’automovimento del capitale. Solo questo dio e la sua promessa di riportare il regno dei cieli in terra può permettere che il lavoro, la prassi sensibile-creativa dell’uomo, si dis-torca in fenomeno ed effetto derivato di una potenza sovrasensibile (il valore di scambio).
Una prospettiva simile –a testimoniare della sostanziale continuità del pensiero di Marx su questo punto- si trova nei manoscritti giovanili su J. Mill, dove compaiono in una prima formulazione alcuni temi poi sviluppati nelle opere mature, come l’essenza mediatrice del danaro e l’affinità tra la struttura trinitaria cristiana e quella del movimento del capitale[12]. Ma è soprattuto decisivo in questo scritto la connessione ineludibile stabilita fra debito economico e colpa morale, in una direzione sostanzialmente simile a quella di Benjamin e che aiuta a decifrarne i motivi: “Il credito è il giudizio economico sulla moralità di un uomo”. Il debitore ha fiducia nel suo debitore, se gli ha prestato denaro; ma già in questa relazione apparentemente innocua si occulta una forma distorta di riconoscimento. Su cosa si basa questa fiducia? Sul fatto che io lo ritenga onesto. E in cosa consiste l’onestà? Nella sua capacità di pagarmi: “Si pensi a tutta l’infamia che c’è nello stimare un uomo in danaro, come accade nel rapporto di credito…Non è già il denaro ad esser superato nell’uomo, nel rapporto di credito, ma è l’uomo stesso che viene mutato in denaro, ovvero è il denaro che si è incorporato in lui”; la mia intera esistenza, il mio corpo e la mia anima, sono divenuti fenomeni dello “spirito del denaro”[13].
In ultima analisi, l’instaurarsi del rapporto di credito distrugge la possibilità del riconoscimento paritario tra uomini ed è la sua diretta antitesi: l’esser riconosciuto viene distorto nell’esser solvibile e completamente sostituito da questo, in una dissimetria irrimediabile della parte creditrice e della parte debitrice; esse si pongono nella relazione del servo e del padrone di Hegel, trasposta da Marx nella sfera economica, ma sostanzialmente vigente nella sua struttura profonda. Ma cosa accade se –come abbiamo detto- il debito non può essere pagato mai, se questa condizione si generalizza indipendentemente dall’agire del singolo, entro una devastante crisi monetaria e finanziaria? Il non poter pagare il mio debito diviene allora immediatamente la mia colpa, la prova della mia scelleratezza o della mia incapacità. In una parola della mia dannazione. Così il senso economico e quello morale si fondono: “…Questa ipocrisia ed impostura reciproca viene spinta fino al paradosso che al semplice giudizio su chi è privo di credito, che cioè egli è povero, si aggiunge anche il giudizio scellerato che egli non è degno di fiducia né di riconoscimento e che, dunque, è un paria della società, è un uomo corrotto”[14]. Ma in questa degradazione, in questa discesa agli inferi, c’è ancora qualcosa di peggio e cioè il fatto che realmente il povero insolvente diviene ignobile ed è costretto a comportarsi come tale, se vuol sopravvivere, realmente egli diventa il servo nel suo stato di massima abiezione, cosalità indifferente: “…Egli stesso deve fare di sé una falsa moneta, deve carpire con inganno il credito, deve mentire, ecc. e questo rapporto di credito…diventa oggetto di commercio, oggetto di inganno e abuso reciproco”[15]. La conclusione è drastica ed esprime quella stessa condizione senza speranza, che il debito-colpa generalizza ad ogni livello della vita, secondo Benjamin: “La sua vita appare come sacrificio della sua vita, la realizzazione della sua essenza come vanificazione della sua vita”; “il culto del denaro diventa fine a se stesso”.
Nota. Il II Faust di Goethe[16] è una quasi inesauribile riserva di allegorie e simulacri, che rinviano alla divinità del danaro, alla magia demonica del credito, alla Cura e all’imperialismo finanziario. Se il I Faust descrive lo Streben, lo spirito soggettivo del nascente eroe borghese capitalista (e ne smaschera anche il posticcio romanticismo), la seconda parte dell’opera si disinteressa ormai della psicologia dei personaggi e procede spedita a descrivere lo spirito oggettivo del capitale e le sue apparenze. Goethe intuisce che il personaggio, l’individuo, diviene secondario e superfluo di fronte al procedere della gigantesca macchina allegorico-fantasmagorica, dinanzi a cui non c’è più bisogno di alcuna interiorità.
Nell’atto primo del II Faust, una progressione di fantasmi porta alla rivelazione-svelamento del danaro come ultima divinità. L’Impero si trova in una situazione di crisi economica così grave da sembrare irreversibile e preludere alla sua disgregazione: “L’Impero, quant’è grande, sembra un incubo, dove/l’informe genera l’informe,/lecitamente l’illecito comanda/e di errore tutto un mondo si dispiega”(443).
L’indebitamento generale, che avviene nella forma dell’usura bancaria, è talmente diffuso da essere insostenibile perfino per la Corte e l’élite dominante: “E a me tocca pagare e far tutti contenti:/con me l’Ebreo non farà complimenti,/lui anticipa versamenti/che un anno consumano prima dell’altro”(447). E’ come se nell’indebitamento scatenato gli anni si accorciassero fino a contrarsi, consumandosi con una velocità inusuale e imprevedibile: ogni attimo è sovrastato e dominato dall’imminente scadenza, sempre uguale presente di ciò che è dovuto. Ogni passato confluisce nel debito dell’ora, ogni presente vincola il futuro al debito contratto. Costituzione debitoria del tempo!
Faust e Mefistofele, al servizio dell’Imperatore, dovrebbero porre rimedio alla violenza e al caos che incombono: la prima soluzione offerta è il passaggio dalla tesaurizzazione alla circolazione. Grazie alla magia di Mefistofele, si tratta di rimettere in movimento tutto l’oro e i tesori sepolti senza frutto sotto la terra, trasformarli da beni immobili inattivi in capitale circolante e investito. Il luogo dove si trova l’oro è del resto sotterraneo e ctonio, e per trovarlo occorre abbandonare le regioni della vita organica e legarsi alla morte: “Laggiù c’è il morto; c’è là il tesoro!”(457). In questa sorta di alchimia invertita e rovesciata, la potenza spirituale si demonizza e si concretizza nel metallo prezioso, si condensa in una materia, che gli dèi onorano e celebrano. Certo anch’essi non sono più quel che erano una volta e si sono ridotti a ornamentali allegorie della ricchezza, come quelle che poi compiranno la loro ultima epifania nella cartamoneta del secondo Ottocento: “Perfino il Sole è di oro perfetto./Mercurio, il messo, lo serve, pagato e protetto, Madama Venere vi ha incantati tutti quanti,/ la casta luna ha lune e grilli per la testa…”(455).
Qui sembra già dispiegarsi quella fantasmagoria antiquaria e arcaicizzante che si sovrapporrà come una prima forma di giustificazione pubblicitaria alle merci esposte, nei Passages studiati da Benjamin. In particolare l’elogio e l’apologia dell’oro si fonda sulla sua capacità di garantire l’assoluto trionfo del possibile, oltre ogni condizione fisica e materiale, materialità preziosa che garantisce una onnipotenza sovrasensibile: “Si può avere ogni altra cosa,/palazzi, parchi, piccoli seni, gote di rosa;/tutto il molto sapiente uomo vi trova/che fa quanto fra di noi nessuno può”(455).
Il possesso dell’oro, scavato nelle miniere e sottratto a chi lo possedeva in forma di tesoro, come bene immobile, è in effetti un momento importante dell’accumulazione originaria del capitale e della sua espansione coloniale dopo la scoperta delle Americhe. A preparare l’introduzione della moneta da parte dei due demonici compari, si dispiega fastoso e iridescente il mondo carnevalesco delle merci e della Moda. La festa nell’ Ampia sala è in, prima che qualsiasi altra cosa, una sfilata in cui si dichiara e si annuncia il trionfo della Moda, fin dal primo gruppo allegorico, quello delle Giardiniere, che celebra così la propria acconciatura o cappellino: “Sono ritagli colorati/messi in giusta simmetria:/ogni parte, in sé, è risibile/ma l’insieme piacerà…/perché in donna è la natura/molto prossima ad un’arte”(465).
L’Araldo è l’imbonitore che presiede all’esposizione: “Venditrici e merci meritano/che si faccia cerchio intorno…”(466), le corone e le ghirlande di fiori artificialmente prodotti parlano esse stesse, come se l’anima della merce acquisisse il dono della parola: “Inconsueti alla natura/è la moda che li crea”(467), frase che già sembra un motto esposto in una vetrina a rendere appetibile il cartellino del prezzo. Segue una lunghissima sfilata di merci e allegorie antichiste, che riassumono l’intero passato culturale, culminando in una sorta di Trionfo di Pluto, che è allo stesso tempo la versione grottesca e profana di un mistero dionisiaco.
Perché tutto questo funzioni occorre però l’ultimo atto di mefistofelica magia e cioè la creazione del danaro e del suo sistema creditizio: “Tutti i conti son saldati/le grinfie degli strozzini ammansite…udite dunque la fatidica carta/che ha tramutato ogni dolore in gioia”(532-533). E’ la nuova legge dell’Impero: “Fermare quei fogli è impossibile./Si sono dispersi in un lampo./Le banche stanno sempre aperte:/ là te lo onorano ogni biglietto/-certo, con uno sconto- in oro e argento”(537); “Ma spiriti degni di guardare in profondo confidano/illimitatamente in quel che è senza limiti”(539). Solo che a un certo punto la catena dell’indebitamento porta alla liquefazione della sua base aurea, all’eccesso del segno sul corrispettivo metallico, e a una crisi ancor più devastante di quella iniziale. La “magia” si conclude nella guerra e nella necessità dell’espansione coloniale a cui si dedica infine il Faust-imprenditore: ma il suo successo è devastato da quella stessa frenetica inquietudine e dal deprimente spleen, che caratterizzano la Cura, ricordata da Benjamin. Prima della fine appaiono a Faust le quattro donne grigie, le spettrali annunciatrici di una crisi irrimediabile: Mancanza, Insolvenza, Distretta, Cura, e infine la più cupa sorella, la Morte.
Nell’aria “densa di fantasmi”, domina la Cura: “Sotto parvenza mutevole/la mia potenza è feroce: “Quando ho qualcuno in mio potere/il mondo gli diventa inutile./Su lui cala buio eterno/sole non si alza né tramonta./Ha perfetti i sensi esterni/ma tenebre intime lo abitano/; e di tutti i tesori non sa /come prendere possesso./Fortuna e Sfortuna divengono/fantasie per lui, lo rode/nell’abbondanza l’inedia/e, sia delizia sia tormento,/qualunque cosa rimanda a domani,/sempre è in attesa del futuro/e mai gli riesce di concludere”(1008-1009). Questo è lo stato dell’indebitamento-colpevolizzazione universale di cui parla anche il frammento di Benjamin.
Immotivata e immeritata come la Grazia dei calvinisti appare la redenzione –nonostante tutto- dell’ ”eletto” Faust nel finale dell’opera. “Ogni cosa che passa/è solo una figura./Quello che è inattingibile/qui diviene evidenza”(1055). Siamo qui di fronte –nei termini di Benjamin- a una conversione e remissione del peccato (Umkehr) o a una “intensificazione”(Steigerung) quasi nietzscheana del superuomo Faust, che al vertice della colpa assume il suo destino tragico? Vera salvazione o ironico Puppenspiel? Più probabile che “l’immortalità cui i Beati Infanti accompagnano Faust sia una straziante mascherata, un’altra fra le molte della tragedia”(Fortini, p. XXIV) oppure la fantasmagorica trasfigurazione della religione del capitale, a cui Faust si è così radicalmente votato…
….6. Nella XI tesi sul concetto di storia, Benjamin modifica la posizione espressa in Esperienza e povertà e distingue radicalmente due forme di tecnica: all’idea di un illimitato sfruttamento della natura, che si ritorce contro la sopravvivenza dell’umano, si oppone l’immagine di una techne che, invece di distruggere il cosmo o trattarlo quale inerte materiale di dominio, lo considera come un grembo in cui sono in germe inedite creazioni. Fra la tecnica capitalista e quella “nuova” non c’è continuità alcuna, sia pure nella modalità del rovesciamento, ma un salto discontinuo e qualitativo, che può essere prodotto solo dall’azione politica. Non è più lo sviluppo della forza produttiva a fornire il fondamento per una forma di vita liberata dal dominio, ma è la costituzione di un essere-in-comune rivoluzionario a determinare le condizioni di possibilità in cui diviene pensabile un uso liberatorio della scienza.
Alla tecnica come sfruttamento se ne oppone un’altra, tesa alla liberazione di forze latenti, che attendono l’intervento dell’essere-in-comune per nascere e dispiegarsi. E` questa una versione materialistica della cooperazione tra umanità e natura, che negli scritti giovanili veniva attribuita al rapporto linguistico tra di esse. Nominando la natura, l’uomo le permetteva di uscire dal suo doloroso mutismo, ne liberava l’anima interna e cooperava alla sua redenzione: questa non poteva che coinvolgere allo stesso tempo l’essere umano e il cosmo[17]. In senso analogo, nella tesi XI, Benjamin parla di un lavoro capace di sgravare la natura delle creazioni in essa latenti, senza esaurirne le risorse in modo estremo e distruttivo. Questa concezione, disattesa dal marxismo tecnocratico, era invece presente nel socialismo utopistico e soprattutto nel suo massimo rappresentante, Fourier.
Nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin distingue due forme di tecnica: una è dominata da un’intenzione arcaica, simile a quella della magia, diretta al dominio della physis e all’affermazione della volontà di potenza[18]. Essa poteva pure essere inevitabile fin quando la natura era percepita come una forza ostile, sovrastante e invincibile; diviene tuttavia sempre più unilaterale e rischia di esaurire le risorse elementari della vita. Esiste invece una seconda forma di tecnica, che tende a sviluppare un legame armonico tra l’umanità e il cosmo; essa mira – come si dice nell’edizione francese dell’opera –ad un “jeu armonien”[19], che riguarda anche il rapporto reciproco degli uomini, e questo termine è ispirato direttamente dalle utopie di Fourier.
Tale relazione si oppone a quella del lavoro e dello sfruttamento: essa non implica affatto un salto nell’arbitrio o nell’irrazionalità. Il gioco indica lo spazio aperto dell’intersoggettività non più dominata in modo esclusivo dal rapporto mezzo-fine; esso è però articolato da regole reciproche e condivise, da un assenso comune, che richiede l’accettazione di un limite alle mie possibilità di azione e di espressione. Tale misura non è tuttavia imposta da un’autorità superiore, gerarchica o paterna, ma dal “pensare in comune”, dalla persuasione in atto del “pensiero ampliato”, come diceva Arendt. Essa è determinata dal rispetto per la presenza e la differenza dell’altro e dalla reciprocità che ogni azione possiede. Il gioco implica la possibilità di un accordo tra pari, che convengono su un limite accettato in comune ed elaborano questa intesa in un sistema simbolico.
Il conflitto stesso – per non divenire guerra – è trasferito entro un codice linguistico. Il gioco è perciò fondato su un principio di eguaglianza che si oppone a quello asimmetrico del lavoro sfruttato, dominato dalla relazione servo-padrone; su un criterio di riconoscimento, che sospende e disattiva l’astrazione capitalista. Esso arresta dunque l’intenzione magica della volontà di potenza, caratteristica della “prima tecnica” e si realizza grazie a una “seconda tecnica”, non più finalizzata necessariamente allo sviluppo e all’incremento delle quantità prodotte, ma alla qualità delle relazioni umane fra produttori. Questa è fondata su un limite accettato nel rapporto con la natura, che non viene cancellata, ma intensificata, rispettandone le energie primarie ed elementari. Di qui le conseguenze fantastiche che Fourier attribuiva a questo tipo di tecnica: “Tutto ciò illustra un lavoro che, ben lontano dallo sfruttare la natura, è in grado di sgravarla delle creazioni, che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo”[20].
Già nell’ultimo aforisma di A senso unico, Benjamin metteva in rilievo il pericolo estremo che l’umanità corre restando legata alla “prima tecnica”[21]. La logica dello sviluppo e dell’incremento illimitato di potenza conduce alla guerra, che di essa rappresenta l’intensificazione inevitabile. La storia della techne è segnata da snodi discontinui e decisivi, in cui viene operata una decisione a favore dell’una o dell’altra delle due forme. In effetti il passaggio dalla “prima” alla “seconda” tecnica, dalla necessità al gioco, non ha in se stesso nulla di necessario; e anzi le due concezioni possono allontanarsi in modo irrimediabile l’una dall’altra. L’opzione per la “seconda” tecnica è compito proprio della decisione politica, ed essa dipende dai rapporti di forza, dallo stato della lotta di classe, e dal prevalere – o meno – del principio d’uguaglianza su quello di dissimmetria e di padronanza.
Per queste ragioni, Benjamin descrive l’accettazione dello sfruttamento della natura da parte della socialdemocrazia e del marxismo staliniano come un tradimento (tesi X) e come la premessa per la tecnicizzazione e la burocratizzazione della società. Il dominio della “prima tecnica” porta infatti alla trasformazione in macchina funzionale e burocratica del corpo sociale, alla costituzione di un “apparato incontrollabile”[22], che prolifera in entrambe le forme di totalitarismo. E’ la presa di coscienza del formarsi di questa nuova forma di potere che induce Benjamin ad allontanarsi dall’entusiasmo tecnologico di Esperienza e povertà e a riproporre il problema della tecnica nel senso di una decisione politica radicale, che non scaturisce automaticamente dal suo sviluppo stesso, ma si pone nei termini di un conflitto insanabile col suo modello astratto capitalistico. Il carattere distruttivo resta indispensabile al pensiero critico: ora però in primo piano non c’è la distruzione dell’esperienza ad opera della tecnica, ma l’annientamento di quella tecnica, che impedisce l’utopia realizzabile come “gioco armonico”, capace di realizzare la Umkher dalla logica del capitale.
La “seconda tecnica” tende a sospendere l’immediatezza del dominio e dell’asservimento del corpo umano e a sgravarlo delle funzioni del lavoro; l’archetipo della “prima tecnica”, conforme alla sua radice nella magia, è invece il sacrificio[23]. Nell’omicidio del capro espiatorio la comunità rituale rinsalda la propria coesione, di fronte alla violenza che cova al suo interno e nella natura; nel capitalismo moderno, il principio sacrificale si realizza nello sfruttamento di ogni singolarità, sottomessa alla macchina e al processo produttivo. La qualità irripetibile è sacrificata alla quantità e all’incremento illimitato della produzione.
Per inciso si può osservare che il passaggio dal lavoro materiale a quello immateriale non cambia di per sé questa intenzione di fondo, ma la traspone dal piano del corpo a quello della mente. Se l’orientamento al dominio e allo sfruttamento resta immutato, la mente può essere ora sacrificata e utilizzata in modo quantitativo, come prima la corporeità. Il passaggio dal lavoro al gioco non può che essere effetto di un giudizio politico.
Sia pure con molte incertezze e esitazioni[24], nell’Opera d’arte Benjamin si allontana da una concezione per cui nella tecnica in quanto tale sarebbe custodito un intelletto oggettivato, che eccede i limiti del capitale. Certo, essa contiene in sé una possibilità di liberazione della percezione e delle facoltà umane, purché si operi il salto e la discontinuità tra la sua prima e la seconda forma. Tale salto non è esso stesso tecnicamente precostituito, ma dipende da una Comune di uomini che si riconoscano reciprocamente. Nessuna negatività estrema e necessaria porta dallo sviluppo delle forze produttive, quali sono attualmente, alla liberazione dal lavoro e dallo sfruttamento, neppure nell’ipotesi di un regime che abolisca la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Il cambiamento dell’intenzione direttiva della tecnica costituisce per Benjamin un fine rivoluzionario. Fino agli inizi degli anni Trenta, egli ha creduto che la rivoluzione bolscevica avesse almeno in parte realizzato un tale obiettivo e un mutamento del rapporto uomo-natura; quando invece scrive le Tesi, non nutre più una simile illusione. Il marxismo dopo Marx ha piuttosto accettato – sia nella sua versione riformista, sia in quella totalitaria – il sacrificio della singolarità umana e della natura, di fronte al feticcio del piano, dello sviluppo e dell’incremento quantitativo delle forze. L’intenzione magica della volontà di potenza ha continuato a prevalere sulla possibilità del “gioco”, preconizzata da Fourier…
[1] Ho fatto ricorso prevalentemente alla traduzione di C. Salzani, in W. Benjamin, Capitalismo come religione, Il Melangolo, Genova 2013. L’introduzione di C. Salzani “Politica profana, o dell’attualità di Capitalismo come religione”
è consigliabile per chiarezza e documentazione bibliografica. Rinvio
anche all’introduzione “Le metamorfosi della divinità e le figure del
capitale” di S. Franchini, in Il capitalismo divino. Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione, Mimesis, Milano 2011; e al commento di E. Stimilli, ne Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo,
Quodlibet, Macerata 2011, p.176 e sgg. In questi ultimi due libri si
trova pure una traduzione del frammento. Fondamentale è il libro
collettivo curato da D. Baecker, Kapitalismus als Religion,
Kulturverlag Kadmos, Berlin 2009, in cui va segnalato per la sua
particolare importanza il saggio di W. Hamacher “Schuldgeschichte.
Benjamins Skizze Kapitalismus und Religion”. Altri saggi
importanti per l’interpretazione del frammento: M. Löwy, “Le capitalisme
comme religion: Walter Benjamin et Max Weber”, in Raisons politiques 23, 2006; B. Lindner, “Der 11-09-2001 oder Kapitalismus und Religion”, in Ereignis. Eine fundamentale Kategorie der Zeiterpharung. Anspruch und Aporien,
transcript Verlag, Bielefeld 2003; U. Steiner, “Kapitalismus als
Religion. Anmerkungen zu einem fragment Walter Benjamins”, in Deutsche Vierteljahrsschrift fur Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, 72.1 (1998); U. Steiner, “Der wahre Politiker. Walter Benjamins Begriff des Politischen”, in Internationales Archiv fur Sozialgeschichte der Literatur, 25 (2000), pp. 48-92.
[2] Capitalismo come religione, cit. p.43. D’ora innanzi numero di pagina nel testo.
[3] Vedi infra, pp. xxx, per i concetti di fantasmagoria e immagine di sogno.
[4] C. Salzani, Politica profana…, cit. pp. 25-26.
[5] K. Marx, Il Capitale, Newton Compton, Roma 2011, p. 81.
[6] Ivi, 117.
[7] Ivi, 119-120.
[8] Cfr. nei Grundrisse:
“Il culto del danaro ha il suo ascetismo, la sua rinuncia e suoi
sacrifici: la parsimonia e la frugalità, il disprezzo per i godimenti
terreni, temporali e transitori: la caccia al tesoro eterno. Di qui la connessione tra il puritanesimo inglese o anche il protestantesimo olandese e il far denaro”(K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica,
Einaudi, Torino 1976, p. 173).* Il tema della condotta di vita ascetica
dei primi imprenditori capitalisti sarà sicuramente un tema weberiano.
Cfr. La tesi di dottorato di G. Ferraro, Economia del disincanto,
Dipartimento di filosofia e scienze sociali dell’Università del
Salento. In questo passo tuttavia è da notare l’associazione tra “culto”
e circolazione del danaro”.
[9] K. Marx, Il capitale, cit. p. 115.
[10] Ivi, p. 116.
[11] Ivi, p. 131. Cfr. il saggio di W. Hamacher, “Schuldgeschichte”, in Kapitalismus als Religion, cit., in particolare p. 94 e sgg.
[12] Sul denaro come dio e intermediario (K. Marx, Opere,
vol. III, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 230)*: “Attraverso questo
intermediario estraneo [il denaro] –mentre è l’uomo stesso che dovrebbe
essere l’intermediario per l’uomo- l’uomo vede la sua volontà, la sua
attività ed il suo rapporto con altri come una potenza indipendente da
lui e dagli altri. La sua schiavitù giunge dunque al culmine. Che adesso
questo intermediario divenga il Dio reale è chiaro, infatti l’intermediario è il potere reale su ciò con cui esso mi media. Il suo culto diventa fine a se stesso”. Sulla struttura trinitaria: “Ma Cristo è il dio alienato e l’uomo alienato.
Dio ha ormai valore soltanto in quanto rappresenta Cristo, e l’uomo ha
valore in quanto rappresenta Cristo. La stessa cosa vale per il
danaro”(Ivi, p. 231). Cfr. B. P. Priddat, “Deus creditor: Walter
Benjamins ‘Kapitalismus und Religion’ “, in Kapitalismus als Religion, cit. pp. 218 e sgg.
[13] K. Marx, Opere, vol.III, cit. pp. 233-234.
[14] Ivi, p. 234.
[15] Ibidem.
[16] Cit. in seguito con numero di pagina nel testo, dalla trad. di F. Fortini, Mondadori, Milano 2001.
[17] Cfr. W. Benjamin, “Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo”, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pp. 53 e sgg.
[18]
“Tuttavia va qui osservato che il ‘dominio della natura’ definisce
l’obiettivo della seconda tecnica solo in modo estremamente discutibile;
esso lo definisce dal punto di vista della prima tecnica. La prima ha
realmente l’intenzione di dominare la natura; la seconda, invece, mira
piuttosto a un’interazione tra natura e umanità”. (W. Benjamin, Opere complete,
vol. VI, Einaudi, Torino 2004, p. 280). Si tratta della prima stesura
del saggio (almeno nella numerazione seguita dall’edizione italiana),
che è alla base della versione francese, l’unica pubblicata in vita da
Benjamin. Per la complessa vicenda dell’opera, cfr. pp. 571ss.
[19] Ivi, nota 3, p. 532.
[20] W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit. p. 41.
[21]
“Ma poiché l’avidita` di profitti della classe dominante contava di
soddisfarsi a spese di essa, la tecnica ha tradito l’umanità e ha
trasformato il letto nuziale in un mare di sangue”; invece essa dovrebbe
essere “non dominio della natura, dominio del rapporto tra natura e
umanita”. W. Benjamin, Opere complete, vol. II, Einaudi, Torino 2001, p. 462.
[22] W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit. p. 39.
[23] “Per la prima tecnica, l’impresa più grande è in un certo senso costituita dal sacrificio umano”, W. Benjamin, Opere complete, vol. VI, cit., p. 279. Il tema sarà poi ampiamente sviluppato da Adorno-Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997.
[24]
Innanzittutto la distinzione tra le due tecniche si trova in forma
esplicita solo nella versione tedesca, contemporanea o quasi alla
versione francese pubblicata. Scompare nella versione ulteriore,
pubblicata postuma e considerata un tempo canonica. D’altra parte,
esistono nel testo passi che possono far pensare a una continuità
progressiva nello sviluppo dall’una tecnica all’altra, quasi fossero due
stadi successivi, piuttosto che due forme contrapposte.
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