E' in libreria “Quando
si pensava in grande” di Rossana Rossanda. Raccoglie 20 interviste
apparse sul Manifesto dal '68 alla fine degli anni '90. Trent'anni
nelle riflessioni degli esponenti di una sinistra che oggi non esiste
più. Da leggere.
Benedetto Vecchi
La lettura delle
interviste, ma il più delle volte sono incontri alla
pari tra una comunista «eretica» e protagonisti
del movimento operaio e comunista, costringe
a ripensare il lungo Novecento, un secolo aperto dalla
speranza e dalla prospettiva di un cambiamento
radicale e chiuso con la sconfitta di chi, in nome di
quel cambiamento, ha fatto scelte di vita all’insegna di
una militanza politica totalizzante. Non è certo
un caso che Rossana Rossanda abbia privilegiato
intellettuali, militanti e dirigenti non
italiani, quasi a suggellare la fine di
un’anomalia italiana, per molto tempo caratterizzata
da un dualismo tra sviluppo capitalista
intensivo e il permanere di caratteristiche
ottocententesche che aveva fatto scrivere di
una «maturità del comunismo» propedeutica
a saltare quella fase di transizione, chiamata
socialismo, dal capitalismo al «regno della
libertà».
Gli italiani
presenti in questo volume sono il sindacalista
consiliarista Bruno Trentini; il dirigente
del Pci Pietro Ingrao che ha appena assistito alla
liquidazione del suo partito; il cattolico
inquieto Giuseppe De Rita alle prese con una trasformazione
sociale italiana ancora da indagare; il segretario
della Cgil Sergio Cofferati attirato dalla
prospettiva di costruire una sinistra riformista
con connotati «socialisti»; Massimo
D’Alema, ultima incarnazione di quell’autonomia del
politico in salsa postsocialista allora in
ascesa; il segretario di Rifondazione
comunista Fausto Bertinotti alle prese con
un partito che non riesce a prendere una forma
innovativa e distinta da quelle che l’hanno
preceduta (il partito operaio a là Spd
o quello leninista). Il tono dominante che
emerge da questi incontri, nonostante Rossana
Rossanda incalzi i suoi interlocutori, è di
constatare che la fine del Novecento coincide
con l’archiviazione dell’«ipotesi comunista».
Ma qual è l’ipotesi
comunista che emerge da questa lunga carrellata
di uomini incontrati tra gli anni Sessanta e la fine
del Novecento? Superfluo ricordare la distanza di
Rossana Rossanda dal «socialismo reale» (è
stata per questo cacciata dal Pci, assieme al gruppo che
darà vita al «manifesto», anche se con cristallina
onestà intellettuale non omette mai di ricordare
che quell’esperienza aveva visto coinvolti uomini e donne
che, come lei, avevano scelto di essere comunista.
Quel che interessa Rossana Rossanda era di dare forma
politica a un’idea di rivoluzione, di
trasformazione radicale a partire
dall’imprevisto della Storia che è stato il
Sessantotto.
Tutto, allora,
diventava possibile. Tutto però diventava
difficile. Era la facilità difficile
a farsi annunciata da Bertolt Brecht. Il
partito non è la forma organizzativa che
può intercettare quegli «strani studenti» che
hanno preso la parola nelle metropoli europee
e statunitensi. Al suo posto, tuttavia,
non ha preso piede nessun valido sostitutivo. Anche
la classe operaia è cambiata. Non vuole solo più
salario, ma chiede di esercitare il suo potere
dentro la fabbrica e nella società. Per una
comunista come Rossana Rossanda questo
significa fare i conti con la critica dell’economia
politica marxiana, senza però andare oltre Marx. Non
a caso, viene ricordato un saggio, a suo modo
programmatico, dal titolo «Da Marx a Marx».
E programmatico è l’incontro con Louis
Althusser, dove il filosofo francese, quasi in un
monologo, evidenzia il fatto che l’opera marxiana
più che aperta è «finita», intendendo con ciò che è va
integrata laddove necessita.
Ma se il Sessantotto
è lo spartiacque per una rinnovata teoria
della rivoluzione, le pagine di questo libro sono
attraversate dalla sconfitta di tale scommessa
politica. È questa la parte più problematica,
almeno per chi scrive, del volume. Certo il movimento operaio
esce sconfitto dal lungo Novecento, ma ciò non significa
che non sia possibile riprendere le fila di una
prassi teorica e politica che «immaginava»
un altro tipo di trasformazione radicale. La
caduta del Muro di Berlino e l’implosione del
socialismo reale sono entrambi uno spartiacque,
anche se la controrivoluzione
neoliberale si era già dispiegata a livello
planetario. Da questo punto vista, l’Ottantanove
è la ratifica di un passaggio di fase. In altri
termini, il movimento operaio era già stato
sconfitto. E con esso il Sessantotto. Il nodo da
sciogliere allora non è quello della sconfitta, ma
dal dove e dal come ripartire. Fuori dai denti:
precondizione di tutto è innovare proprio
quella critica dell’economia politica a cui
Rossana Rossanda ha più volte invitato a tornare.
Il mondo uscito
dall’Ottantanove non è però un deserto da attraversare,
né una realtà a volte feroce che ha bisogno di una buona
amministrazione della cosa pubblica (come emerge
nelle parole di Giuseppe De Rita e Massimo D’Alema),
ma un modo di produzione che ha visto ridisegnare
i rapporti sociali di produzione sempre
all’insegna del lavoro salariato. Mutate sono le figure del
lavoro vivo, mutati sono i rapporti tra stato
e economia, mutate sono infine le soggettività
politiche. Anche qui, a scanso di equivoci: la
scomparsa della sinistra non è da salutare come
una vittoria, bensì un principio di realtà da
cui partire che dovrebbe mettere al riparo dal riflesso
pavloviano di guardare agli attuali partiti eredi
della sinistra politica novecentesca —
sia italiana che europea — come un contesto in
grado di poter garantire un timido riformismo che
contenga gli «spiriti animali» del capitalismo.
Semmai sono parte integrante di un sistema politico
funzionale al sistema di potere attuale.
Ovviamente, la
citazione del sorgere e dell’eclissi dei movimenti
sociali, le insorgenze sociali, financo le rivolte può essere
facilmente deriso se messo a paragone con il lungo
Novecento. Ma questa è la realtà in cui vivere
e agire politicamente. Altre strade conducono
in vicoli ciechi o nell’aderire al dominante
spirito del tempo.
Il volume di Rossana
Rossanda si chiude su questi nodi. È compito di
un altro ordine del discorso scioglierli. A lei il merito
di continuare a scavare.
(Da: Il Manifesto del 4
dicembre 2013)
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