«È vicino il Signore
agli affranti di cuore» (Salmo 34,19) significa che la Shekinah
procede costantemente con colui che ha sempre il cuore spezzato, lo
spirito abbattuto ed è taciturno. E come se non bastasse, secondo la
Scrittura tutto ciò vale come se egli avesse costruito un altare nel
cuore, su cui ogni giorno offre sacrifici completi al cospetto del
Santo, sia Egli benedetto.» (Alfabeto di Rabbi 'Aqiva) .
Questo è
la Qabbalah. Una ricerca continua del senso profondo di un mondo che può
anche assumere l'aspetto terribile del male e della morte. Insomma un
grande sogno di speranza.
Susanna Nirenstein
La banalità del male
nella Qabbalah
Cercate un pensiero
teologico che non voglia definire il male, capire da dove venga e
perché esista. Non lo troverete. L’israeliano Moshe Idel, il più
grande studioso di mistica ebraica vivente, vede formulata la
ricerca, e la risposta, fin dai primi versi della Torah. Il percorso
di “Il male primordiale nella Qabbalah. Totalità, perfezionamento,
perfettibilità” (Adelphi, per l’amorevole cura di Elisabetta
Zevi) è complesso, multiplo, con centinaia di influenze di altre
culture (zoroastriana, neoplatonica, ovviamente rabbinica), in un
crescendo che a volte sembra
portarci sul limite di una spirale ascendente, oppure no,
discendente, verso gli abissi. Per non perderci negli inferi, ci
affidiamo a una guida sicura, Fabrizio Lelli, allievo, traduttore di
Idel e docente di Ebraistica all’Università di Lecce.
L’illustrazione di
copertina tratta dal manoscritto dell’Hagaddah di Sarajevo (XIV
sec.) ci racconta già qualcosa, la separazione della luce dalle
tenebre, della terra e delle acque dal magma: in una parola la
creazione. Era questo che i cabalisti (nati tra XII e XIII secolo in
Provenza e Catalogna) e prima ancora i maestri rabbinici
sottolineavano — mostra Idel nel libro — la compresenza di male e
bene, e infine l’azione divina che estrae la luce, come se le
tenebre, assumendo un ruolo positivo, la contenessero, la
salvaguardassero. Prima dunque le tenebre, e dalla rottura della loro
scorza, accettando la presenza della negatività necessaria, il
frutto succoso della luce che altrimenti si sarebbe dispersa. Quelle
tenebre sono il male primordiale, il primo male. Il male prima del
bene, così come poi ci sarà Caino prima di Abele e Ismaele prima di
Isacco. Una concezione diversa da quella cristiana che vede il male
come scaturito successivamente, perché se ammettesse che è
compresente, vorrebbe dire che Dio è anche male, mentre la
cristianità lo concepisce come bene assoluto.
Già negli ultimi testi
biblici (fino al II sec a.C.) è invece presente una visione ebraica
opposta, basta leggere, ci dice Lelli, Qohelet (IV-II sec. a.C),
citato da Idel, che oltre a giustapporre il tempo del bene e quello
del male, a un certo punto scrive: «Nel giorno lieto (del bene) stà
allegro, ma nel giorno triste (del male) rifletti: Dio ha fatto l’uno
e ha fatto l’altro ». C’è male anche in Dio, dunque. E se
questa visione è già presente nella letteratura rabbinica, nella
tradizione cabbalista diviene un leit motiv.
Ben Shahn. Menorah (1965)
Ma che stacco c’è tra
le due elaborazioni, la rabbinica e la cabbalistica? «Se per
Qabbalah s’intende una disciplina esoterica autonoma », risponde
Lelli, «di un gruppo ristretto che specula su aspetti segreti e
sapienziali, allora nasce verso il XII secolo, ma se significa
ricezione e speculazione sui testi, allora anche la letteratura
rabbinica è Qabbalah ». Insomma, tra i due generi ci sarebbero
molte analogie: anche nelle cerchie rabbiniche c’erano gruppi
esoterici. Prendiamo il Sefer Yetzirah (V sec. d.C.) di ambiente
rabbinico babilonese: oltre a parlare di dottrina degli abissi, del
bene e del male emanati da Dio, il trattato concepisce la creazione
come una combinazione delle lettere dell’alfabeto ebraico.
Dunque Dio è imperfetto,
ci dice Idel, ma per i cabalisti è perfettibile. Un’operazione che
ha bisogno degli uomini. «Se l’uomo non pregasse, per i mistici
ebrei, Dio si sentirebbe meno attivo, non avrebbe il feed-back
necessario: è per questo che un vero credente deve adempiere alle
mitzvot, osservare il Sabato, rivolgersi a lui 24 ore su 24, perché
se tutto ciò che sono e mi circonda lo devo a Lui, devo mantenere un
contatto. Per un cabalista del XIII secolo esiste un serbatoio di
benedizioni che gli uomini devono alimentare in modo che il flusso
continui a irrigare noi, il giardino di Dio».
Un concetto, quello della
reciprocità del bisogno di preghiera, sempre più vivo dalla
distruzione del Tempio di Gerusalemme del 70 d.C., quando non ci fu
più né un luogo santo né i sacrifici: una specularità infinita
che vede anche Dio pregare quando l’ebreo lo fa. Lo stesso
principio speculare ci dice che anche il male si deve riflettere in
Dio.
Ma se il male viene prima
del bene, qual è il processo necessario per perfezionare il
perfettibile, chiediamo a Lelli? «Separare, discernere, raffinare: è
qui che arriva ad esempio il mito dei mondi distrutti, quelli che Dio
avrebbe creato prima del nostro. Ma non gli piacquero perché,
dissero i cabalisti, erano troppo perfetti appunto, troppo
spirituali, troppo divini per sussistere, mentre la terra, con la sua
componente di male e materialità, era in grado di farlo». Forse
questa complementarietà del male e del bene, pensiamo, fu un modo
anche di elaborare tutte le persecuzioni e gli esili subiti. Il male,
dicevano i cabalisti, non è così importante, ci si può convivere.
«In fondo», chiosa Lelli, «anche la “banalità del male” della
Arendt, rientra in questa tradizione giudaica».
Torniamo alle tenebre da
cui Dio crea la luce. È interessante notare come nella Bibbia «il
fu sera e fu mattina» corrisponda alla scansione temporale data dai
sacerdoti alla liturgia, alla preghiera della sera da cui infatti
inizia il giorno ebraico. Anche secondo alcuni mistici cristiani,
come San Giovanni della Croce, bisogna passare dalla notte per
arrivare alla luce, e del resto è un pensiero terribilmente
psicoanalitico, notiamo insieme a Lelli.
La Qabbalah è piena di
demoni, diavoli, diavolesse. Cos’è, politeismo? Ci sono tante
entità, risponde Lelli, fin dall’epoca rabbinica. C’è il mito
del figlio di Adamo, Agrimas, che, prima della creazione di Eva, si
unisce alla demonessa Lilit, e genera 100.000 figli diabolici
sterminati solo dalla spada magica di Matusalemme. Ci sono gli angeli
caduti. Altri angeli così luminosi da essere scambiati per il
Signore. È una sfida, su tutto e tutti va sempre riconosciuta
l’unicità e la trascendenza di Dio. Ma Idel li riporta perché gli
interessa mostrare come la Qabbalah, a differenza di quel che diceva
Scholem, non sia un movimento unitario, ma carico di scuole,
risposte, miti diversi.
Anche l’eros percorre
il libro di Idel e la Qabbalah. Per i cabalisti molto della Bibbia si
spiega con le pulsioni sessuali archetipiche nell’individuo che
devono rispondere al “crescete e moltiplicatevi” di Dio e non
disperdere il seme. Ma non astenersi. La castità non è mai
predicata nell’ebraismo. Non è mai santa. Ed è fantastico e
vitale, come i cabalisti trasferiscano anche al mondo divino un eros
necessario a creare, perché in Lui non esiste solo una polarità
bene/male, ma anche maschio/femmina, la cui finalità ultima, come
nell’uomo, è la riproduzione, la creazione. Tutto è eros per
i cabalisti, anche il giorno sacro del Sabato, nient’altro che il
rito di congiunzione tra Dio e il popolo di Israele.
La repubblica – 28
dicembre 2016
Moshe Idel
Il male primordiale
nella Qabbalah
Adelphi
Euro 32
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