Alle radici dell’imbecillità
È larga, diffusa, pienamente democratica. È origine e meta, passato, presente e futuro. Ed è irredimibile, inesauribile, strutturale. Come la scimmietta che dentro la testa di Homer Simpson non smette mai di suonare i piatti, l’imbecillità – quella cosa che perfettamente individuiamo nell’altro, dimenticandoci di essere, ognuno di noi, l’altro degli altri – è sempre al lavoro: diligente come un monaco certosino (eppure per nulla eremitica), instancabilmente operosa come un’ape nel suo alveare.
Se è vero che può essere ragione di tormento, è altrettanto vero che possiamo accostarci alla stupidità con un senso di curiosità, di passione se non di incanto, riconoscendo, come Flaubert nel descrivere le gesta di Bouvard e Pécuchet, che la bêtise è il «proprio altrove», ciò che pur appartenendoci come regola abbiamo bisogno di avvertire come eccezione. Uno stato di inadeguatezza (del resto, chiarisce l’etimo, in-baculum è colui il quale è privo di bastone) che, nel rimandare al denudamento e all’inermità, non è lo stigma che punisce uno su un milione (o – dipende – su mille, su cento, su dieci) bensì la condizione naturale di tutti, nessuno escluso: uno su uno.
È proprio la coscienza che siamo qualcosa di storto e manchevole ad aver spinto Maurizio Ferraris a considerare l’ottusità «come oscuro fondamento dell’umano e come motore (molto meno oscuro) della storia». Articolato in quattro parti, precedute da un prologo e sigillate da un epilogo, L’imbecillità è una cosa seria (il Mulino) è un pamphlet al medesimo tempo battagliero e pietoso, che trae il proprio combustibile dall’intuizione che «la misantropia, non la filantropia, è la chiave di comprensione dell’imbecillità come tratto esclusivo dell’umano», e che dunque al cospetto dello spettacolo permanente della stoltezza non si può che essere esasperati e ironici, sbalorditi e agonistici; solo così, facendo ognuno esperienza, fino al sedime, dei propri personali abissi potremo renderci conto che l’intelligenza non è altro che una fuga dalla nostra normale imbecillità (una fuga mai definitiva che va interpretata come libera uscita, ricreazione, ora d’aria: una pausa durante la quale «il vento dell’ala dell’imbecillità», di cui nel 1862 scriveva Baudelaire, per un momento si placa).
Tutto ciò, precisa Ferraris, assolve a un compito: «Conoscere l’attrito del reale, la difficoltà dei mutamenti, e soprattutto la strepitosa imbecillità umana, è la sola maniera per trasformare il mondo». In particolare torna utile se non necessario aver chiaro il nesso che lega imbecillità e tecnica: il vituperatissimo web non è in nessun modo la cosa maligna che inventa la nostra idiozia, o che a essa ci costringe; l’imbecillità umana preesiste a internet e semmai trova adesso nella rete un suo ottimo marcatore (qualcosa tra il bario e l’Uniposca), una minutissima quotidiana documentazione.
Leggendo di Bacone che «decide di pesare una vescica prima gonfia, poi sgonfia, e, notando che il peso della vescica non cambia, ne conclude che l’aria non pesa», torna in mente quello che possiamo considerare un esempio di come la nostra comune imbecillità possa manifestarsi. Anni ’90, Cinico Tv: la voce fuori campo di Franco Maresco chiede ai Fratelli Abbate se pesa di più un chilo di paglia o un chilo di ferro. All’inizio la risposta è immediata e categorica – «Di ferro!»; poi, seppure il tono rimanga tassativo, un dubbio comincia a trapelare, e gli Abbate ci riprovano: «Di paglia!» Quando la voce di Maresco rinnova la domanda, i fratelli tacciono e il loro silenzio non contiene nessun dilemma, nessuna elaborazione, né pensamento né ripensamento, e non è neppure espressione di una peculiare tara fraterna; quel silenzio – sospeso, lieve, molecolare, poroso – non è altro che il luogo in cui l’umano (quel povero glorioso imbecille!) rivela la propria sostanza più profonda.
Giorgio Vasta
4 gennaio 2017
Questo articolo è uscito sul Manifesto. Noi l'abbiamo preso da http://www.minimaetmoralia.it/wp/alle-radici-dellimbecillita/
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