04 febbraio 2017

G. VASTA SU CINICO TV


Pubblichiamo la prima parte di un saggio scritto da Giorgio Vasta per il terzo cofanetto (uscito a dicembre) che raccoglie la produzione di Ciprì e Maresco, gli ideatori di Cinico Tv. Proprio pochi giorni fa è scomparso uno dei volti più simbolici del programma, Pietro Giordano, morto a 69 anni nella sua abitazione di Palermo.

Cinico mai più 

Italy Is Burning è un progetto musicale che nasce nel 2007. A idearlo è il dj lombardo Mario Fargetta. Su una base house, una voce sintetica pronuncia una sequenza di frasi. Ogni frase descrive abitudini, usi, costumi, consumi di una determinata comunità cittadina, soprattutto o soltanto composta da adolescenti. Per esempio: «Vivo a Bologna, Studio al Dams, Vivo vicino alle due torri, Abito appena fuori Porta Mascarella, Compro le bici in via Zamboni»; oppure, in Firenze Is Burning: «Vo a psicologia alla Torretta, Fo la ragazza immagine, Mi garba la Ducati Monster, Prima andavo al Mood, ora vado all’ex Mood, Andavo al Cabiria di piazza Santo Spirito, ora vado al Pop Cafè di piazza Santo Spirito»; e ancora, in Roma Is Burning: «’sto disco spigne una cifra, No, al mucca assassina no, è un posto de froci, Carlo Verdone me fa troppo sdraia’, Mangio i panini dallo Zozzone de corso Francia, La Tedesca se dovrebbe fa un po’ i cazzi sua, Roma de notte è da paura».
Ogni frammento di Italy Is Burning contribuisce a dare forma a un repertorio di situazioni tipiche e ricorrenti, tic, clichés, micro-orizzonti di riferimento più o meno consapevolmente condivisi che, nominati, diventano identitari; qualcosa di simile a quanto accade nei profili Facebook Sei di… se… – Sei di Belluno se…, Sei di Lecce se…, Sei di Frosinone se… –, nei quali a segnare un’appartenenza locale è ancora una volta il succedersi di circostanze riconosciute e riconoscibili che gli stessi utenti contribuiscono a dilatare: un’idea di identità – locale e in un certo senso personale – in forma di catalogo.
Quando qualche tempo fa ho scoperto l’esistenza di Italy Is Burning sono andato in rete a cercare la sua declinazione palermitana. Su YouTube, la versione principale è tarata su una costellazione di riferimenti e consumi della medio-piccola borghesia: «Vado al Clubino del Mare, Vivo in via Libertà, Faccio pilates, Faccio giurisprudenza, Faccio filosofia, Faccio lo Stams, Facevo teatro, Mi sono fatta le mani, Sei un piscio, Vado alle serate, Vado alla Cuba, Vado al Jamaica, Vado al Baretto, Andavo al Garibaldi, Sono accollativa, Stasera Birimbao, Festazze rum e pera». Diversamente da quanto in generale connota il progetto di Fargetta, in Palermo Is Burning la «voce recitante» non è sintetica ma è una voce femminile con una cadenza locale molto netta (vale a dire che in quella voce si avverte qualcosa di lasco, un’indolenza se non un’inerzia tipicamente palermitana, un vuoto di tensione da cui al limite a tratti trapela quel microscopico principio di stupore sempre riconducibile alla dimensione esclamativa tramite la quale a Palermo si fa esperienza delle cose).
In teoria Palermo Is Burning non dovrebbe essere altro che una specifica particella locale all’interno di un progetto più ampio descritto – così si legge in rete – come qualcosa che ha un’intenzione critica: inventariando, si mette alla berlina una vita regolata da comportamenti stereotipati. Il progetto di Mario Fargetta sarebbe allora assimilabile a quei cataloghi di convenzioni, comportamentali e linguistiche, che nel tempo hanno affascinato scrittori come Flaubert (nel suo Dizionario dei luoghi comuni) oppure Léon Bloy (in Esegesi dei luoghi comuni); al centro di tutto, come una persecuzione che è solo possibile a propria volta perseguitare, la bêtise.
In realtà, ascoltando la voce palermitana che passa in rassegna spazi atteggiamenti e standard espressivi del luogo in cui sono nato e cresciuto (e in cui, dopo vent’anni trascorsi altrove, sono per il momento tornato a vivere), mi sembra che questa intenzione sia fallace. L’impressione è che Palermo Is Burning lavori soprattutto sul ribadire un senso di appartenenza; su un’immedesimazione in cui, tutt’altro che percepire imbarazzo, a imporsi è una specie di soddisfazione se non di vero e proprio compiacimento. Ogni enunciato è del resto calibrato su un livello di genericità funzionale a questa identificazione: blandisce il bisogno di autoreferenzialità, gratifica il desiderio di appartenenza. Palermo Is Burning «suona» – è il caso di dire – come un inno, non nazionale bensì iperlocale, utile a una manutenzione ordinaria del noto. Come spesso accade in un certo comico di matrice televisiva che presume (o pretende) di essere abrasivo se non distruttivo (intercettando e rivelandoci proprio la nostra costitutiva bêtise), Palermo Is Burning è nei fatti complice e condiscendente, se non del tutto corrivo: non produce disagio ma consenso.
Per cercare di comprendere a che cosa in effetti serva Palermo Is Burning può essere utile concentrarsi sul titolo del progetto complessivo: l’Italia sta bruciando. Ogni brano in cui si struttura il progetto di Fargetta è un braciere, un’ara, un caminetto: c’è una città e c’è la sua arsione in forma musicale. Palermo Is Burning è allora il luogo in cui – come accade quando il fuoco agisce sulla materia – qualcosa si rapprende, è lo spazio in cui i margini si contraggono e l’articolazione interna si riduce; è dove ogni densità, ogni eventuale potenziale, viene estinto. È un fenomeno – minuto e laterale, sì, ma lo stesso significativo – che aderisce al bisogno di semplificare la percezione di Palermo. A un suo addomesticamento. Palermo Is Burning è oggi – a circa dieci anni dalla sua invenzione – uno tra i ritratti più credibili di una città euforicamente a suo agio. Di una città domestica. Un luogo immerso in una sua oscura felicità.

La cenere e lo sciame
Cinico Tv ha origine dalla cenere. Nel momento in cui, a fine anni Ottanta, le primissime incursioni televisive di Ciprì e Maresco si manifestano su Tvm, a precedere la prima immagine compiuta c’è un formicolio grigionerobianco sul quale si materializza la scritta rossa cinico tv. È il caos della genesi, il rumore bianco da cui poco a poco tutto scaturisce (e che permane come struttura invisibile di ogni cosa). È quella caligine che per il Beckett di Mal visto mal detto è la sola evidenza: «Unica certezza la bruma. Quella di là dai campi. Già li invade. Invaderà la pietraia. E poi l’abituro penetrando attraverso ogni sua fessura. L’occhio potrà anche chiudersi. Non vedrà altro che bruma. Anzi neanche. Lui stesso non sarà altro che bruma».
Quando dunque l’occhio di Cinico Tv si apre per la prima volta, ciò che vede è indistinguibile da ciò che vedeva prima di aprirsi: il brusio della cenere fredda intorno al fuoco spento, l’indiscernibile, la nebbiolina in cui tutti stiamo.
Se l’origine di Cinico Tv è la cenere, la sua forma è quella dello sciame. Per una ventina d’anni, la televisione di Ciprì e Maresco si è fatta leggere come una propagazione di immagini microscopiche simili e diverse, come una massa pulviscolare in movimento. Qualcosa, cioè, che funziona come le api, le cavallette, le meteore, i terremoti. Una configurazione compatta e unitaria e al contempo un prisma, un brulicare di frammenti, uno scompiglio di particelle. Confrontarsi con Cinico Tv nel corso di due decenni vuol dire allora fare esperienza di una dispercezione. Come nel caso dell’esperimento della Gestalt – il «duck-rabbit illusion» –, al cospetto di Cinico Tv, attraverso uno scarto impercettibile della messa a fuoco, vediamo tanto l’anatra quanto il coniglio, la totalità e la scheggia, il senso inventato di colpo dalla forma e l’impossibilità del senso che la forma può solo giocare a mascherare ma non può (e non vuole) in nessun modo cancellare.
Sciame è un termine che esprime un moto. Lo sciamare. Delle api – quando gli insetti lasciano la vecchia colonia e, insieme alla regina, vanno a fondarne una nuova –, oppure il movimento dell’invasione – quando le cavallette attraversano un campo devastandolo –, o ciò che accade quando i detriti meteorici penetrano nell’atmosfera e l’attrito che si genera li fa bruciare, o ancora quando un pezzo di superficie terrestre è solcata da un succedersi di microsismi. In ognuno di questi casi lo sciame ha un riflesso visivo – le scie, tanto quelle animali quanto quelle siderali o sotterranee – e ne ha uno acustico – il fruscio, il brusio, il crepitare dei corpi celesti.
Cinico Tv è stato allora una coesa moltitudine in azione. Qualcosa che non se ne sta lì, fermo, a farsi contemplare, brillando di qualità estetiche che sollecitano il nostro apprezzamento; semmai l’equivalente di una mano che afferra, sposta, muove, separa.

Breve storia della cenere e dello sciame
A partire da fine anni Ottanta, dalla cenere di Cinico Tv affiorano figure strutture masse e masserelle, complessioni rovinate, rigide o molli, rigide e molli, un retablo di sagome implose, nella maggior parte dei casi filmate frontalmente, a volte osservate mentre scorrono sul filo dell’orizzonte (qualcosa che fa pensare ai corpi, sempre scoordinati, sempre in eccesso o in difetto, del cinema di Augusto Tretti), e trapela lo spazio fisico palermitano, un succedersi di spianate e macerie, moncherini di vecchie fabbriche di laterizi, la foce di cemento di un fiume vuoto, le ciminiere e il cielo bianco, qualche interno senza intonaco che allo sguardo si dischiude come una Wunderkammer di tenebra, luoghi minimi di una meraviglia ancora cinerea (si percepisce a volte quel senso di immagine-fossile, da presepe extratemporale, che è il lineamento della fotografia di Joel Peter Witkin), e in questo propagarsi di materia compare a tratti anche una specie di linguaggio, un codice sconnesso e incalcolabile (in Ciprì e Maresco i conti della lingua non tornano mai), locuzioni reiterate, olofrasi magiche – il «Certamente» di Giuseppe Paviglianiti, che con il «Siamo davvero pietosi» di Francesco Tirone vale da chiave di volta di un discorso laconico –, i tormentoni, il tormento (il tormento dentro i tormentoni), e ancora, negli anni – quando dopo Tvm il trabiccolo di Cinico Tv si conficca, come il missile-navicella di Méliès nell’occhio (ancora lui) di una Luna di cartapesta, dentro il palinsesto della tv nazionale –, dagli schermi emerge (sempre più preciso, sempre più consapevole) il prolasso degli organismi, l’inerzia, scorie di gesti, fantasmi di movimenti, l’ebetudine e l’ebefrenia di Rocco Cane, l’agitazione locutoria dei Fratelli Abbate, invano concentrati – e con loro una città intera – nel tentativo di dirimere dilemmi (Pesa di più un chilo di ferro o un chilo di paglia?, Con chi è sposato il toro?), e poi nello sciame si materializza il movimento di macchina continuo che in Keller vale da catalogo-riepilogo-rilancio (è il 1992) di quello a cui già da qualche anno Ciprì e Maresco stanno dando forma, un carrello orbitale che, come lo sguardo assoluto di La Région Centrale di Michael Snow, fa del mondo elenco e via crucis circolare, le immagini che nel delimitare un’area (l’accampamento di fortuna in cui si cerca riparo durante l’assalto nemico) si accerchiano da sole, allo stesso tempo assediate e assedianti, e, ancora, dallo sciame viene su un altro relitto, quel frantume di cinema (di cinema in tv) autolesionista che in Il corridore della paura (è ancora il 1992, quando a Palermo spazio e tempo esplodono) si esprime attraverso l’impulso dell’immagine a sporcarsi, a obliterarsi, Tirone e Miranda che spazzano la scena fino a corroderla, a imploderla, facendo il fotogramma abraso, lacerocontuso, e intanto nello sciame gravitano il corpo e la voce di Ignazio Trevi, una caverna di suoni – il balbettio, il farfugliamento, finché, nel canto, l’anatroccolo non si trasforma in cigno (nel suo eterno immacolato indistruttibile vulnerabile canto), e gravitano il corpo e la voce di Giuseppe Paviglianiti, il suo corpo assoluto – paradossalmente lievissimo, etereo, pieno d’aria, pieno di grazia: una nube di carne e candore – e a un certo punto, è il 1996, compare quello che per me vale come un personale trittico del congedo, tre corti – Il manocchio, dove un occhio si dimette (si dismette) rendendo inequivocabile quella che da lì a poco sarà – nell’apparenza del contrario – la nuova irrilevanza dello sguardo; Ritorno alla vecchia casa, dove un corpo in mutande e calzini se ne sta al cospetto di un edificio in macerie (le macerie tornano alle macerie, similia similibus solvuntur); Ai Rotoli, un carrello sulle lapidi del cimitero di Palermo, la voce di Carmelo Bene che legge di Bibi nelle pagine di Signorina Rosina di Antonio Pizzuto, la sensazione che al bianco matto del colombario non ci sia scampo: tre corti, dicevo, che inaugurano (e in un certo senso nutrono) quella che sarà la mia ventennale separazione da Palermo, e poi, trapelante dallo sciame – prepotente, eversivo – c’è Pietro Giordano (con Paviglianiti non solo il più grande attore di Ciprì e Maresco ma, azzardiamo, di gran parte del cinema italiano di quegli e di questi anni), simultaneamente immobile e metamorfico, il silenzio di continuo masticato dentro la bocca chiusa (le labbra che a volte percependo l’amaro si socchiudono, sembra vogliano espellerlo ma poi rinunciano, si richiudono, lo covano in bocca), Pietro Giordano – dicevamo – che nelle sue trasformazioni senza cambiamento è intervistato in qualità di stupratore escremento fantasma suicida preservativo guardone (di coppie che pomìciano), e ancora topo di fogna, sepolto vivo, scheletro nell’armadio, bomba in attesa di esplodere, Tarzan di Palermo, Dio, così esaltando il carattere solo in teoria in divenire ma in realtà fossile, avulso dalla Storia (o al limite blandamente storicizzabile), di Palermo, e dentro quelle immagini filtra la città di Franchi, Ingrassia e Leoluca Orlando, di Gaetano Cristiano Rossi (in arte Christian, il terzino cantante di Boccadifalco), del Mago Atanus, di Totò Cascio, di Enzo Castagna – presenze che senza mai ridursi a resoconto giornalistico esistono in Ciprì e Maresco come parvenze, detriti, fosfeni, illuminate nella loro più autentica consistenza di pulviscolo – e poi – come una nervatura, come un architrave – dentro la materia nata postuma di Cinico Tv c’è la voce off di Franco Maresco, un vero e proprio dispositivo che, in anni disciplinati dalla massima (di continuo ribadita all’interno del Maurizio Costanzo Show) secondo cui «domandare è lecito, rispondere è cortesia», ha la capacità non solo di violare la regola ma soprattutto di ricalibrare i termini della dialettica televisiva in una chiave spietatamente autentica, perché in Cinico Tv domandare è un vizio e rispondere è (afasia, verrebbe da dire giocando con l’assonanza, ma quel rispondere è anche altro) un obbligo, un dovere, un patimento – e l’intera relazione dialettica tra voce fuori campo e corpi in campo (quella stessa cosa, fisica e metaforica, in cui Berlusconi in quegli anni decide di scendere) viene in breve a coincidere con un’inerziale costellazione di tic (quel «Dica» congiuntivo dei Fratelli Abbate che, come il «Bravo-Grazie» di Petrolini-Nerone, risponde automatico alla chiamata di Maresco), qualcosa che ha la capacità di ridimensionare l’idea amatissima del dialogo come relazione importante fondativa positiva, rivelandolo invece nella sua natura di sintomo (nel macrodiscorso sciamante di Cinico Tv, forse gli unici due obiettori delle affermazioni di Maresco – relative al genere, all’età, alle attitudini, alla cosiddetta identità – sono stati, ognuno a modo suo, Francesco Tirone e Filangieri Giuseppe; se la voce di Maresco viola, reinventandole, le informazioni minime, e in teoria autoevidenti, su chi è chi, Tirone e Filangieri ribattono, eccepiscono, cercano di ripristinare quello che è il livello di realtà a loro noto: Tirone, mitemente, rivelando la capacità di cogliere l’abuso e trascendendo il contesto, a volte persino ironico nel farsi per gioco avversario della voce di Maresco; Filangieri, invece, sempre intrinseco al contesto, sempre immanente, opacamente fiducioso, braccato dal close-up, persuaso che se il suo interlocutore continua a dargli quarantasette anni e a considerarlo cieco – quando invece lui ne ha trentuno ed è solo molto miope – questo accada per errore, e dunque è utile precisare, pianissimo, che le cose stanno in un altro modo – e ugualmente Maresco non cede: «Questo è il bello: fingere di vederci quando ormai sappiamo che la luce è andata via per sempre»).

L’umiliazione
Sciamando attraverso uno spazio e un tempo – l’Italia tra fine anni Ottanta e i due decenni successivi (ma, di fatto, attraverso l’umano) – la materia di cenere di Cinico Tv intercetta una specifica esperienza, macroscopica e strutturale nonché minima e diffusa. Sono gli anni in cui l’umiliazione italiana (ipotizzando dunque che dell’umiliazione possa esistere una declinazione nazionale) smette di essere un fenomeno eventuale, un trauma che, come un’eccezione dolorosa, tocca (e a volte distrugge) le esistenze individuali, mutandosi invece in qualcosa di trasversale e duraturo, di reticolare e molecolare: un particolato fine, l’aria che respiriamo, una sostanza che dai polmoni risale nel flusso ematico fino a farsi struttura e postura psichica permanente.
Immaginando di poter ricomporre in breve una storia dell’umiliazione – dunque dell’umiliare e dell’essere umiliati – possiamo individuare in una scena di Io la conoscevo bene, il film di Antonio Pietrangeli del 1965, la sintesi di ciò che l’umiliazione italiana è stata per tanto tempo (di come è stata percepita, di come è stata pensata e temuta, del modo in cui era intesa nel senso comune). Durante una festa in un salotto romano, il padrone di casa (Franco Fabrizi), un attore di successo (Enrico Maria Salerno) e un fotografo insinuante (Nino Manfredi) diventano i «carnefici» di un fantasista in disarmo – l’abito troppo stretto, i baffetti e i capelli unti di brillantina, la sigaretta sempre tra le dita, i modi vezzosi e servili – interpretato da Ugo Tognazzi. Quando gli viene chiesto di esibirsi in una specie di provino estemporaneo, il fantasista decide di proporre il suo cavallo di battaglia: l’imitazione di un treno in corsa. Monta su un tavolino – ed è come se scendesse in una fossa sacrificale – e comincia, anche con una certa perizia, a produrre con la bocca il rumore del locomotore, i piedi che si cimentano in un tip-tap che rifà il ritmo ferroviario, via via accrescendo la velocità – la gente intorno che lo acclama – finché il fiato gli scoppia in petto e un principio di malore arresta l’esibizione nell’imbarazzo generale. Usando Isaia 53,7 come cartina di tornasole per leggere la scena di Pietrangeli – «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» – all’ammutolimento della vittima segue quello dei carnefici.
Il luogo storico e culturale in cui ci troviamo nella scena di Pietrangeli è ancora quello di un’umiliazione che qualcuno pensa, allestisce e infligge a qualcun altro. Siamo ancora nella circostanza, nell’anomalia, in uno stato d’eccezione che contrasta con un tempo esistenziale che, se anche può essere dimesso o patetico (è il caso del personaggio interpretato da Tognazzi), non coincide con una mortificazione totale e perenne: quella di Io la conoscevo bene è un’umiliazione – generata nella relazione – ancora circoscritta e superabile.
Ciò che invece Cinico Tv coglie e mette in scena è un mutamento fondamentale. L’umiliazione che, almeno in Italia, si comincia a sperimentare alla fine degli anni Ottanta – e che da allora fino a oggi si è sempre più raffinata e normalizzata – non passa più per la relazione che oppone (e collega) un carnefice a una vittima, e non si manifesta come un acuto doloroso in contrasto con uno stato di prevalente dignità: l’umiliazione di questi ultimi decenni è uno stato cronicizzato, ecosistema, humus, endoscheletro individuale e collettivo; qualcosa che, se anche resta in sé insostenibile – o meglio proprio per questo – viene tenuto a bada da una serie di piccole strategie di contenimento (prime tra tutte, l’autoironia e il vittimismo retorico).
La straordinaria ambiguità – inesauribile e irrisolvibile – di Cinico Tv sta fin dalle sue origini (fin dalle sue prime ceneri) nella indecidibilità delle situazioni che genera. Quelle davanti all’obiettivo sono persone che Ciprì e Maresco si divertono cinicamente – e del resto quei due definiscono il proprio modus operandi già dal nome che si sono dati – a prendere in giro, si sosteneva (e si sostiene) nella maggior parte dei casi. No, obiettava (e obietta ancora) qualcuno, sono personaggi, ciò che vediamo è finzione, messinscena, una tragicommedia sadomasochistica. C’era (e c’è) anche chi ritiene Tirone, Giordano, Miranda e Paviglianiti non tanto personaggi occasionali, figure bizzarre ogni tanto (e forse, almeno in parte, inconsapevolmente) prestate al gioco della simulazione, quanto veri e propri attori in grado di passare plastici da un ruolo all’altro.
Al mutare di ognuna di queste prospettive, muta la percezione che abbiamo della voce off di Franco Maresco. Di che cos’è, di che cosa fa. È un sadico torturatore? Un martire paradossale? Oppure un complice, regista (tramite la propria voce e la propria invisibilità) di un gioco del quale allora tanto Maresco quanto Ciprì quanto Tirone Giordano Miranda Paviglianiti sono corresponsabili? Le ipotesi possono moltiplicarsi, e ibridarsi tra loro, senza che ci sia modo di arrivare a una soluzione ultima. Perché la voce fuori scena di Maresco è al contempo il varco d’ingresso nell’ambiguità nonché il luogo dell’ambiguità medesima. È una voce fantasma che mescola, confonde, si fa nebbia, annebbia («Unica certezza la bruma»). Se la struttura di ciò che vediamo e ascoltiamo ci fa percepire Ciprì e Maresco come gli aguzzini che hanno sempre, di quanto accade, una coscienza e un controllo assoluti, a forza di osservare lo sciame si sospetta (si teme?) che le cose non stiano davvero – o del tutto – così.
«Tirone», chiama la voce di Maresco, «lei è un pezzo di m…, un pezzo di m…»; Tirone ci pensa, ipotizza: «Motore… Mascherone…»; «Voglio regalarle un’altra lettera», continua Maresco, «lei è un pezzo di me» – e se pure lo scambio di battute è qui isolato dal suo contesto e dalla sua prosecuzione, vale lo stesso da sintesi preterintenzionale di una lettura forse non proprio remota: quella secondo cui Cinico Tv mette in scena una gerarchizzazione dei ruoli (i carnefici, le vittime) che gli permette di fare sua una consapevolezza che non lascia scampo: tu sei me, tu sei un pezzo di me, dice la voce fuori campo di Maresco: voi siete noi, dice Cinico Tv, e in questa specularità si descrive tanto il legame di Ciprì e Maresco con le loro persone-personaggi-attori, quanto il nostro con Cinico Tv: noi – noi che guardiamo Cinico Tv – noi siamo loro.
E allora tutt’altro che poter distinguere con chiarezza tra chi umilia e chi è umiliato, in Cinico Tv si assumono i presupposti della nuova umiliazione italiana: uno stato d’animo che innerva di sé pratiche e immaginario, un sentimento capillare così presente da non venire più percepito come trauma. Come il pesce anziano dell’apologo di David Foster Wallace – quello che incrociando due pesci più giovani domanda «Com’è l’acqua?» suscitando il loro stupore tanto da indurli a domandarsi «Che cavolo è l’acqua?» –, a noi che viviamo immersi nell’amnios dell’umiliazione non ha senso chiedere com’è oggi quell’amnios, perché la nostra unica risposta non può essere che una: Che cavolo è l’umiliazione?

Testo ripreso da  http://www.minimaetmoralia.it/wp/cinico-piu-parte/

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