16 settembre 2014

COME LA i GUERRA MONDIALE CAMBIO' LA DONNA ITALIANA





La storica Michela De Giorgio ripercorre i mutamenti sociali delle donne italiane durante gli anni del primo conflitto mondiale.

Alessandra Pigliaru

Alla conquista di sé


Sia in Ita­lia che all’estero, sono state molte le occa­sioni che hanno ricor­dato quest’anno il cen­te­na­rio della Grande Guerra. In uno sce­na­rio simile, è utile ram­men­tare e illu­mi­nare l’interno muta­mento socio-politico dei costumi e della men­ta­lità delle donne come tra­sfor­ma­zione del tes­suto sociale.

Tra le sto­ri­che che si sono occu­pate della «grande guerra», e di ciò che nella rap­pre­sen­ta­zione assume la vita delle donne, si può fare rife­ri­mento, tra le altre, ad Anna Bravo, Bruna Bian­chi e Michela De Gior­gio. A lei, che ha stu­diato in par­ti­co­lare il cam­bia­mento di para­digma delle ita­liane nei momenti di snodo sto­rico – per esem­pio, nel suo volume pode­roso Le ita­liane dall’unità a oggi (Laterza 1992) e che di recente ha scritto un sag­gio intorno alla cul­tura del materno tra il 1900 e il 1920 in Di gene­ra­zione in gene­ra­zione (Viella, 2014) a cura di Maria Teresa Mori, Ales­san­dra Pesca­rolo, Anna Scat­ti­gno e Simo­netta Sol­dani — abbiamo posto alcune domande.

Come si può defi­nire il cam­bia­mento di men­ta­lità e costumi delle donne negli anni della prima guerra mondiale?

È neces­sa­rio, innan­zi­tutto, far rife­ri­mento a un pro­cesso sto­rico e sociale più lungo. Un primo cam­bia­mento avviene al pas­sag­gio del secolo. Il secolo nuovo, il Nove­cento, rap­pre­senta un punto di svolta anche nella vita delle ita­liane. Il rac­conto della men­ta­lità e dei costumi non deve seguire esclu­si­va­mente il per­corso giu­ri­dico che spesso ha assunto forme restrit­tive rispetto a muta­menti già in atto nelle esi­stenze delle donne. Fonte di inno­va­tive con­dotte fem­mi­nili, det­tate da com­por­ta­menti sociali, valori sen­ti­men­tali e cul­tura delle appar­te­nenze, il primo con­flitto mon­diale è l’evento inve­stito dalla respon­sa­bi­lità della Plus Grande Guerre – così la vedeva Paul Morand – dei sessi in primo luogo. Lo scon­quasso post­bel­lico è in capo a uno spi­rito di moder­nità che sem­bra rivi­ta­liz­zare la fisio­no­mia sen­ti­men­tale e sociale.

C’era da parte di alcune intel­let­tuali l’intendimento di opporsi alla «moderna» masco­li­niz­za­zione delle donne ma anche la con­sa­pe­vo­lezza di quel pas­sag­gio tra l’essere fan­ciulle e il dive­nire ragazze, «gio­va­notte», sicu­ra­mente più forti e libere. Alcune di loro erano già eman­ci­pate, nono­stante la stri­sciante ten­denza alla deni­gra­zione delle capa­cità fem­mi­nili. La guerra rap­pre­senta la cesura, l’evento che, ben­ché appaia nelle rap­pre­sen­ta­zioni come il campo di eccel­lenza delle qua­lità virili, deter­mina anche la grande visi­bi­lità di nuovi ruoli delle donne, con il mol­ti­pli­carsi dei loro com­piti sul fronte interno e nelle retrovie.



La tra­sfor­ma­zione del lavoro è stata non solo rela­tiva all’allontanamento degli uomini arruo­lati, bensì un feno­meno deto­nante l’intera con­fi­gu­ra­zione socio-economica. È quel che descrive nel suo «Donne e pro­fes­sioni» (Sto­ria d’Italia, Annali, 10, Einaudi, 1996) interno al volume curato da Maria Malatesta.…

Il varco che la guerra apre nelle pos­si­bi­lità di rea­liz­za­zione sociale fem­mi­nile è inne­ga­bile. La rela­zione tra donne e pro­fes­sioni for­ni­sce una rap­pre­sen­ta­zione piut­to­sto fedele sul cam­bia­mento della posi­zione sociale e degli effetti sim­bo­lici pro­dotti sulla costru­zione dell’identità fem­mi­nile, indi­vi­duale e sociale. Alcune idee mostrano la loro inter­se­zione anche in ambiente ita­liano tra fine dell’Ottocento e prima metà del Nove­cento entro cui il pas­sag­gio della Grande Guerra diventa cru­ciale.

Intanto l’antico inter­ro­ga­tivo sulla ragione delle donne e l’uso sociale del sapere; infine la distin­zione tra l’eccezionalità – dun­que l’eccezione dell’eccellenza – e la regola – legata a dop­pio filo con la norma che è anche quella della subor­di­na­zione. Già dagli anni Set­tanta dell’Ottocento appa­iono le prime pro­fes­sio­ni­ste ita­liane, sep­pure è già dalla fine del Set­te­cento che si pos­sono regi­strare nella pub­bli­ci­stica poli­tica i primi segnali riven­di­ca­zio­ni­sti. Ciò per dire che quel lie­vito dell’utopia fer­menta in una fisio­no­mia del lavoro fem­mi­nile che esplo­derà e muterà ulte­rior­mente nel pas­sag­gio della Grande Guerra. Già pre­senti lau­reate in let­tere, giu­ri­spru­denza ma anche medi­cina, il muta­mento dei costumi si avvale della spinta fem­mi­ni­sta e della pre­senza delle donne nella scena pub­blica attra­verso le rivi­ste a loro dedi­cate.

Sul tema credo sia sem­pre note­vole il volume di Bar­bara Curli, Ita­liane al lavoro (1914–1920), edito da Mar­si­lio (1998). In fondo non ci sono mol­tis­simi studi rela­tivi a quella tra­sfor­ma­zione di cui stiamo par­lando e che, tut­ta­via, è stata potente. Penso che gran parte del cam­bia­mento sia rela­tivo all’orfanità. L’alto tasso di mor­ta­lità di que­gli anni non è suf­fi­ciente, secondo me, per deci­frare ciò che si andava con­fi­gu­rando: un taglio det­tato dalla scom­po­si­zione delle fami­glie con donne che resta­vano sole a volte senza più fra­telli, mariti e padri.

In qual­che misura l’orfanità può aver pro­dotto in que­ste donne una con­sa­pe­vo­lezza della per­dita, ma anche della liberazione?

Certo. In con­te­sti dram­ma­ti­ca­mente scom­po­sti, i lutti hanno messo a dura prova sia le fami­glie mononucleari-borghesi che quelle rurali-patriarcali. In alcuni numeri del 1919 della rivi­sta fem­mi­nile Cor­de­lia diretta da Ida Bac­cini, la rubrica della posta delle let­trici con­serva oggi ele­menti impor­tanti sull’argomento: molte gio­vani donne scri­ve­vano ancora a pro­po­sito di fidan­zati e per­sone care scom­parse e spesso mai più ritro­vate. Ma è inte­res­sante anche segna­lare ciò che nel 1920 Laura Orvieto anno­tava nell’Alma­nacco della donna ita­liana: «Si sfa­sciano le rotaie che i secoli ave­vano fab­bri­cato e che indi­ca­vano all’umanità il cam­mino da per­cor­rere: rotaie fami­liari, sociali, reli­giose, tra­di­zio­nali».

Ciò indica anche l’inevitabile com­ples­sità delle rela­zioni tra madri e figlie. Alle prime, spesso vedove, non fu facile opporsi ai desi­deri di indi­pen­denza e ribel­lione delle figlie. Si tratta, tut­ta­via, di un qua­dro di cui la sto­rio­gra­fia non si è a suf­fi­cienza occu­pata. Di recente ho visto a New York, per uno degli appun­ta­menti in ricordo della Grande Guerra all’istituto fran­cese di Colom­bia, Ber­trand Taver­nier – regi­sta di La vie et rien d’autre (1989). Mi sem­bra che, a dif­fe­renza dei nostri film di rife­ri­mento (penso fra tutti a La grande guerra di Mario Moni­celli), in que­sto lavoro di Taver­nier si evinca di più il punto di vista di una donna, cioè in que­sta ricerca fatta da Irène de Cour­til, inter­pre­tata da Sabine Azéma, di un caro scom­parso. È pro­prio la ricerca e il ricordo dell’ignoto a dif­fe­ren­ziarla dall’approccio antro­po­me­trico e posi­ti­vi­sta del dot­tor Dela­plane, medico di guerra inter­pre­tato da Phi­lippe Noi­ret. Del resto, in Fran­cia, si con­tano otto­cen­to­mila tra sco­no­sciuti e dispersi e Taver­nier ci ha espo­sto che cosa è stato il disor­dine nelle fami­glie, oltre ai lutti effettivi.



Lei ha dedi­cato pagine molto inte­res­santi alla moda. Ci sono state resi­stenze cul­tu­rali in merito?

Nel dibat­tito post-guerra, anche tra le più illu­mi­nate osser­va­trici, c’è sem­pre l’idea della moda ten­ta­co­lare, cor­rut­trice. Tra le poche voci in con­tro­ten­denza c’è quella di Gina Lom­broso che, già nel 1917, il più ter­ri­bile anno di guerra, sul quin­di­ci­nale tori­nese La Donna, affer­mava che «nella gene­ra­zione che ci ha pre­ce­dute, le ragazze non pote­vano cam­biare di rango, il quale era loro fis­sato dai geni­tori».

Per lei il desi­de­rio di moda così osteg­giato dai ben­pen­santi non era la Capo­retto della morale fem­mi­nile bensì una forza coe­siva e pro­pul­siva del mondo gio­va­nile che per­met­teva alle donne di cam­biare sta­tus. Nono­stante il padre Cesare dicesse loro di restare così come erano, asi­nine, lei e la sorella si sono lau­reate in medi­cina a Torino. C’erano poi i capelli corti — «l’annosa que­stione», come la chiama Matilde Serao e il suo rac­conto di un vil­lag­gio fran­cese in cui un par­roco si era impo­sto di non dare la comu­nione alle donne con i capelli alla garçonne. Così le altre donne si ammu­ti­nano e nes­suna va a pren­dere la comunione.

Con acume socio­lo­gico F. Scott Fitz­ge­rald con­sa­cra la glo­ria delle ragazze del 1917 come «nucleo essen­ziale della gene­ra­zione sre­go­lata; quel modello venne divo­rato dalle ragazze più grandi e più pic­cole inten­zio­nate a non farsi man­care pro­prio niente, visto che le sre­go­late sem­bra­vano diver­tirsi un mondo». Chi erano le garçon­nes e le nostre avanguardie?

Chri­stine Berd ha cer­cato di quan­ti­fi­care il feno­meno del garçon­ni­smo. Anche Mary Louise Roberts, allieva di Joan Scott, ha lavo­rato su alcuni corpi mitici e imi­tati, refe­renti epo­cali che rifon­dano una nuova este­tica ana­to­mica fem­mi­nile come il corpo di Sarah Ber­n­hardt e ha deco­struito tutto il dibat­tito fran­cese del dopo­guerra, sulla scelta fem­mi­nile di massa di libe­rarsi dell’aureola capil­lare da fan­ciulle del «mondo di ieri» per il taglio maschio. Le garçon­nes erano donne che, al di là della forma quasi andro­gina di sé, si pre­sen­ta­vano sulla scena pub­blica tra il 1919 e il 1920 con una moda sciolta, di snel­lezza, senza busto e calze.

Per Roberts il capello corto ha rap­pre­sen­tato un ten­ta­tivo sim­bo­lico di legame con i morti come a rac­co­gliere il lutto col­let­tivo per tra­sfor­marlo in una nuova imma­gine che non tacesse però l’autonomia con­qui­stata di se stesse.


Il Manifesto – 3 settembre 2014

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