Inedito cominciato nel
1965, nato dalla sfida di trasferire in una narrazione spunti di veri
vissuti, «Malinteso a Mosca» riguarda l’atmosfera della guerra
fredda e l’ansia crescente dell’invecchiamento.
Clotilde Bertoni
Inedita De Beauvoir,
Malinteso a Mosca
«Poco importa in qual
misura e in qual maniera la finzione si ispiri alla realtà:
essa si edifica solo polverizzandola per
farla rinascere a un’altra esistenza. Le comari
intente a frugare nella cenere si lasciano sfuggire
ciò che un libro può offrire loro»: in un tempo in cui le
fluttuazioni tra fiction e non
fiction erano meno teorizzate di adesso ma
sempre ampiamente praticate, Simone de Beauvoir
commenta così l’ostinazione di vari critici
a interpretare i suoi romanzi (specialmente
il più noto, I mandarini) non come libere
reinvenzioni ma come trascrizioni puntuali
di fatti autentici, e a sommergerli di
insinuazioni e pettegolezzi.
Forse anche per reazione
a questo tipo di accoglienza, dalla fine degli anni
cinquanta Beauvoir rinuncia alle ibridazioni
troppo strette tra verità e fantasia, innanzitutto
ripercorrendo direttamente la sua storia con
un’autobiografia in tre volumi (a cui si aggiungerà poi un
quarto, A conti fatti), in seguito imperniando su
storie dalla sua molto lontane nuove opere narrative: Le
belle immagini, la raccolta di romanzi brevi Una donna
spezzata, e, prima ancora, un altro romanzo breve, iniziato
nel 1965 e poi accantonato, che, apparso postumo nel
1992 sulla rivista «Roman 20–50» con il titolo Malinteso
a Mosca(Malentendu à Moscou), e ripubblicato
nel 2013 in volume, esce ora da noi per Ponte alle Grazie (pp.
133, euro 12,00), curato e tradotto con grande finezza da
Isabella Mattazzi.
Esile, scorrevole,
in apparenza tipico «testo minore», Malinteso
a Mosca nasce in effetti da una sfida complessa,
trasferire spunti del proprio vissuto in
dimensioni a esso estranee, esplorare,
attraverso prospettive distanti dalla propria,
problematiche vissute intensamente
in prima persona, due in particolare: l’atmosfera
della guerra fredda e l’ansia crescente
dell’invecchiamento. Il libro narra un viaggio in Russia
di Nicole e André, rodata coppia di sessantenni,
come Beauvoir e Sartre all’epoca; ma si tratta di
due oscuri professori in pensione, uniti, anziché
da una relazione libera, da un ménage coniugale dei più
classici; e se il loro soggiorno (in compagnia
di Maša, figlia di primo letto di André divenuta per scelta
cittadina sovietica) ricorda quelli effettuati
dai due scrittori lungo gli anni sessanta (al fianco di
un’interprete, Lena Zonina, su cui Maša sembra parzialmente
modellata), è alimentato da convinzioni
differenti (l’approccio di André all’Urss muove da una
costante, sebbene non più salda, militanza comunista,
mentre quello di Beauvoir e Sartre era sforzo di
proseguire, sempre su posizioni indipendenti,
un dialogo già interrotto dopo i fatti d’Ungheria,
e poi faticosamente ricucito in nome dei
comuni obiettivi di lotta).
Inoltre, se il
confronto dei protagonisti con il
passaggio degli anni può apparire di ispirazione
autobiografica (come Beauvoir, Nicole patisce
il declino del suo aspetto e delle sue energie; come
Sartre, André cerca di ritrovare slancio nel «calore
gioioso» dell’alcool), i loro punti di vista, che si
avvicendano in serrata alternanza, lo legano
a altre esperienze e a altre emozioni, tanto più
avvincenti perché di segno opposto. Il
restringimento dell’avvenire sancisce la fine
della protratta indeterminatezza di André,
che, dopo aver rifuggito ogni vocazione precisa per
restare più disponibile alle sollecitazioni
dell’esistenza, si ritrova costretto nell’identità di anziano
pensionato («la vita … gli si richiudeva addosso;
né il passato né il futuro gli offrivano più alcun
alibi»); la perdita di presa sul tempo implica invece il
definitivo scacco di una determinazione
antica per Nicole, che ha provato a infrangere
i vincoli imposti al suo sesso con ambizioni
intense («si era ripromessa di combattere il suo
destino»), ma le ha presto sacrificate all’amore
e alla famiglia (quel sacrificio di cui Beauvoir
analizza lacerazioni e costi attraverso
personaggi vari, dalla Paule dei Mandarini alla
Monique di Una donna spezzata).
La forza del testo sta
soprattutto nella continua sovrapposizione
tra il ritmo piano delle occupazioni e impressioni
di viaggio (le lunghe file di Mosca, l’incanto di
Leningrado, il cibo ora pessimo ora squisito, la
contemplazione delle chiese, l’oppressione della
burocrazia) e quello tortuoso delle riflessioni
e dei rimpianti: improntati, come nota Mattazzi,
a un diverso rapporto con il tempo, perché se André
si volge ancora al presente, Nicole teme di vedersi sfuggire
anche il passato, si interroga su una felicità
sentimentale sempre data per certa, si chiede se
la sua vita sia stata davvero «quella che lei si raccontava».
Meno riuscito è il tentativo di incanalare
il pulviscolo centrifugo delle sensazioni
e dei pensieri nella tensione centripeta di
un pur evanescente intreccio: il dissapore
occasionale ma doloroso in cui culminano le
inquietudini della coppia è inscenato
troppo sbrigativamente, e ancor più
sbrigativamente risolto da un finale
consolatorio; inoltre, nella misura
circoscritta dalla narrazione i vasti temi
messi in gioco non trovano sempre respiro adeguato.
Probabilmente
questa fu l’impressione della stessa autrice, che (a quanto
emerge dai cenni di A conti fatti) avrebbe voluto dare
all’opera maggior sviluppo, e che finì per
lasciarla da parte, senza però dimenticarla: abituata
ai rimaneggiamenti meticolosi, ci tornò
sopra per ricavarne un nuovo romanzo breve, L’età della
discrezione, uscito nel 1967, nella raccolta Una donna
spezzata. Caso complesso di riscrittura
(interessantissimo da analizzare), L’età
della discrezione conserva molto dell’ipotesto,
anche riprendendone alla lettera parecchi
passaggi, ma ne ridisegna totalmente l’impianto.
L’azione si sposta
dalla Russia alla Francia, la figura di Maša scompare,
entrano invece in scena personaggi solo evocati nella
prima versione (il figlio comune, la madre di André),
i protagonisti sono trasformati in
due studiosi universitari di successo, ed
è solo la prospettiva di lei (divenuta io
narrante della storia) a filtrare i loro
persistenti disagi: l’imbarazzo di non identificarsi
in nessun partito, di «essere contro tutto»;
e l’imminenza della vecchiaia, di cui viene illustrato
un ulteriore risvolto, l’appannamento della vivacità
intellettuale, la fossilizzazione
involontaria e persino inconsapevole
nelle stesse idee.
Anche stavolta,
però, Beauvoir si dichiarò insoddisfatta dell’esito,
affermando di aver solo sfiorato questioni troppo
ampie; e che forse la toccavano troppo da vicino per
provare ancora a scrutarle attraverso altri punti
di vista, per farne ancora materia di universi
immaginari. Non avrebbe più raffigurato
l’inasprimento dello scenario politico, nei fatti
sempre fronteggiato insieme a Sartre, con un
impegno tanto misconosciuto (attestato, proprio
in epoca contigua alla comparsa dell’Età della
discrezione, sia dall’appassionata partecipazione
al maggio 68 sia dalla rottura consumata con
l’Urss dopo la repressione di Praga); avrebbe invece
continuato a indagare i pesi della
vecchiaia e a demistificare i luoghi
comuni usati per camuffarli, ma in forme diverse: con il
saggio La terza età, con la parte finale
dell’autobiografia, e infine con La cerimonia
degli addii, cronaca degli ultimi anni di Sartre,
esposizione di quello che Malinteso
a Mosca e L’età della discrezione già
paventano, il mortificante deterioramento
del corpo e della lucidità, l’insediamento graduale
della morte nella vita quotidiana.
Un’esposizione cruda,
amarissima, che sarebbe costata una nuova pioggia di
attacchi all’autrice, del resto abituata a misurarsi,
oltre che con il gossip dei recensori «comari», con
l’acrimonia dei critici che non le perdonavano
un’altra rappresentazione scomoda, quella
della condizione femminile, e che
arrivarono pure a rinfacciarle l’età di
cui lei andava mostrando la durezza, senza riuscire a turbarla
più di tanto: commentando Una donna spezzata,
Mathieu Galey scrisse «Eh sì, signora, è triste
invecchiare»; «Benché sapessi quanto detestava le
donne, la sua villania mi sorprese», si limitò
a osservare lei.
Il Manifesto – 4 maggio
2014
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