Si discute moltissimo
sull'articolo 18 e il livello degli interventi è quello che è. A
volte, come nel caso del pezzo che proponiamo, viene spontaneo
chiedersi se si è solo in presenza di un imbecille o se più
sottilmente si cerchi di prenderci per i fondelli spacciandoci per
questione di economia o di diritto quello che invece è semplicemente
la forma simbolica (e dunque estremamente efficace) della
riaffermazione definitiva e totale del potere padronale in fabbrica.
Magari, più realisticamente, le due cose insieme.
Stefano
Feltri
Articolo 18.
L’atto di fede nelle virtù del licenziamento
IL PUNTO non è se è
giusto abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ma come
decidiamo se è giusto o sbagliato. Le imprese non assumono perché
temono di non poter licenziare? Restano nane, sotto i 15 dipendenti,
per evitare la soglia che fa scattare l’obbligo di reintegro del
lavoratore cacciato senza giusta causa? Ha ragione Renzi o la Cgil?
Per rispondere bisognerebbe avere dei dati che permettano di fare una
scelta motivata e non ideologica. In teoria questa volta dovremmo
averli.
Perché a gennaio è
stato pubblicato il monitoraggio della riforma Fornero del 2012 che
ha modificato, tra l’altro, l’articolo 18: la novità è che in
caso di licenziamento disciplinare o per ragioni economiche giudicato
illegittimo (ma non discriminatorio, che è nullo), il giudice può
decidere se applicare il reintegro del lavoratore o un risarcimento
tra le 12 e le 24 mensilità. Qualcosa è cambiato: l’indice Ocse
che misura la difficoltà dei licenziamenti in Italia è passato dal
4,5 del 2008 al 3,5 del 2013 e, come sottolinea il ministero del
Lavoro nel documento, è la prima volta che la flessibilità del
mercato aumenta grazie alla maggiore facilità di licenziamento di
chi ha un contratto a tempo indeterminato (anche se il 75 per cento
dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo avviene nelle
aziende con meno di 15 dipendenti, e dunque senza articolo 18).
Le assunzioni sono
aumentate grazie alla modifica dell’articolo 18? La risposta,
semplicemente, è che non lo sappiamo. Questo nel rapporto del
ministero non c’è scritto. Sappiamo solo che – forse – un po’
di super precari (tipo lavoro a chiamata) hanno brevi contratti a
tempo determinato, leggero miglioramento. Ma cambiare la disciplina
del mercato del lavoro in piena recessione non permette di misurarne
bene gli effetti. Qualche economista vi dirà che licenziamenti un
po’ più facili rendono anche le assunzioni un po’ più facili,
altri sosterranno che o si cancella del il reintegro dalle sanzioni o
niente cambia, altri ancora vi spiegheranno che è irrilevante
l’articolo 18. Ma di solito si tratta di convinzioni personali,
viene richiesto un atto di fede più che di comprensione.
Tutti i precari italiani
scambierebbero il loro co.co.co., co.co.pro. o partita Iva con un
contratto a tempo indeterminato e a tutele crescenti. Perché la loro
condizione di sicuro non peggiorerebbe. Se invece chiedete loro:
“Volete essere facilmente licenziabili il giorno (lontano) che
sarete assunti?”, saranno meno entusiasti. Eppure il dibattito sul
lavoro parte sempre dalla facilità di licenziamento, anche se non vi
è proprio alcuna prova numerica che sia la variabile decisiva.
Il fatto, 24 settembre
2014
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