24 settembre 2014

ALABAMA MONROE: UN FILM DA VEDERE


Un film da vedere anche solo per una colonna sonora capace di conquistare anche i non patiti del country. Una riflessione sull'amore e sulla vita dalle cui prove nessuno esce indenne.
Natalia Aspesi

Colpo al cuore
«Piangeremo a casa », impone Elise a Didier, attorno al lettino d’ospedale dove alla loro meravigliosa piccola, ridente Maybelle hanno appena diagnosticato un male terminale. Si guardano perduti, cercando di aggrapparsi a quel reciproco fortissimo amore che, pur tanto diversi, li ha allacciati nella felicità fino a quel momento. Il dolore sta per devastarli, ma questo presente tragico viene continuamente confrontato con il loro passato, quando era pieno di reciproche scoperte, di gioia, di futuro, in un alternarsi temporale di fatti e sentimenti che fanno di "Alabama Monroe" un grande, commovente film che colpisce al cuore.

Elise è una lunga bionda di semplice bellezza, maestra di tatuaggi che invadono il suo corpo con farfalle e volti, e nastri e fiori, e anche un revolver proprio puntato sul sesso; Didier ha una bella faccia nascosta da una gran barba e una massa di capelli rossastri e suona il banjo in una band di omoni sdruciti, che cantano e usano solo gli strumenti a corda della musica Bluegrass, di cui il pezzo più celebre, Will the circle be unbroken, apre e percorre tutto il film (il cui titolo originale, "The broken circle breakdown" capovolge il senso della vecchia canzone). Non siamo nel Kentucky, ma in una piatta campagna vicino alla città fiamminga di Gand, e Didier è un maturo neo hippy belga, adoratore dell’America, che vive in un camper accanto a una casa da ricostruire, tra galline, cani e cavalli: Elise lo seduce distendendosi sul cofano dell’auto in bikini a stelle e strisce, il bel corpo illustrato dai tatuaggi come una invitante graphic novel.



Come era facile allora essere felici solo guardandosi, con le facce che si facevano di luce senza parlarsi, come è dura guardarsi adesso, vicino a quella dolce piccina che le chemioterapia rende calva, che sorride docile nella sofferenza, che con i primi tentativi di cura con le cellule staminali pare stare meglio e può tornare a casa, la testolina avvolta in una sciarpa, la band che l’accoglie con le sue storie buffe, la mamma che canta ormai con loro. Quella bambina dalla vita sospesa è diventata tutto per Elise e anche per Didier che quando aveva saputo del suo arrivo non si era sentito pronto a una sconosciuta responsabilità dentro una vita che ne era completamente priva, vissuta alla giornata tra la musica, la birra, un grande amore, un camper.

Un giorno un uccello sbatte contro la veranda che Didier ha costruito per la famiglia, e Maybelle ne raccoglie disperata il corpicino senza vita: non vuole buttarlo, piange su un evento per lei sconosciuto come la morte, e vuole essere sicura che lo ritroverà magari in una stella. È la prima frattura tra Elise che crede nelle possibilità magiche della vita e anche nella fede e nel piccolo crocefisso che ha regalato alla bambina, e Didier, per cui non ci sono illusioni, che sa che la morte è la fine di tutto. In un letto d’ospedale Elise s’intreccia al piccolo corpo di Maybelle, e il suo volto impietrito, svuotato dalla disperazione, annuncia a Didier che andandosene, quell’uccellino pieno di grazia e di promesse che è stata Maybelle, ha portato via con sé ogni loro possibilità di vivere, di amarsi, di tornare a essere come un tempo, quando Maybelle non c’era ancora, o addirittura come se non ci fosse mai stata.



Il dolore separa, il dolore distrugge, il dolore spegne, toglie loro ogni possibilità di aiutarsi, capirsi, ricostruirsi: perché Elise e Didier hanno due modi inconciliabili di affrontarlo; e l’amore diventa rancore e l’uno vede nell’altro la responsabilità per quella piccola bara bianca che sotto la pioggia viene ricoperta di terra, accompagnata dal coro sommesso delle note funebri di Will the circle be unbroken, nata decenni prima come un inno cristiano di accompagnamento al cimitero.

Il film del regista belga Felix Van Groeningen era tra i cinque candidati all’Oscar per le opere straniere, il rivale più pericoloso per "La grande bellezza", che comunque ha meritato la vittoria. Il titolo italiano "Alabama Monroe", si riferisce al nome, Alabama, che Elise si dà dopo la morte di Maybelle, mentre Monroe è il nome del musicista americano che viene considerato il padre del Bluegrass. I due protagonisti, Veerle Baetens (Elise) e Johan Heldenberg (Didier), sono meravigliosi, pure come cantanti. Anche se nell’ultima parte si disperde in un accavallarsi di fatti e di perorazioni antiamericane poco convincenti, il film è indimenticabile, soprattutto per la forza straordinaria di una musica popolare che aderisce alla storia come la voce di un sapiente narratore. 


La repubblica – 5 maggio 2014

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