Siamo sempre connessi,
anche quando siamo soli. Ogni atto, anche il più banale, per avere
senso (e dunque esistere realmente) deve avere un pubblico. Nel 1967
Debord scriveva che la società dello spettacolo non era la TV, ma un
modo sociale di relazionarsi. Oggi lo spettacolo diventato totalità
media le relazioni fra gli uomini e li rende incapaci di comunicare.
Gabriele Romagnoli
La scomparsa della solitudine
Un ragazzo cammina solo in una città straniera, si ferma, estrae dalla tasca uno smartphone, solleva il braccio, sorride allo schermo, scatta. Poi controlla l'esito, clicca su un altro paio di comandi prima di riporre l'oggetto e ripartire. Si è appena fatto un selfie, fin dall'etimologia (self = se stesso) qualcosa di solitario, ma l'ha condiviso con un numero imprecisato di persone postando l'immagine su Facebook, Instagram o qualche altro social network. Il navigatore solitario Manfred Marktel va in barca dalla Namibia a Bahia. Durante il percorso (4.000 miglia) tiene un blog, fa sapere tutto quel che gli accade, riceve commenti e risponde.
Una giovane di nome Robyn Davidson, in crisi interiore, lancia una sfida a se stessa e decide di attraversare il deserto australiano a piedi. Anni prima, in analoghe condizioni psicologiche, un giovane americano di nome Cristopher Mc Candless si era allontanato da tutto e tutti sperdendosi in Alaska.
Entrambe le vicende hanno originato film: “Tracks” e “Into the wild”. Come si vede nei finali: lui muore, lei sopravvive. Perché non si è mai isolata del tutto. Ha portato con sé il cane, a tappe, seppur distanziate, si è fatta raggiungere da un fotografo con cui ha amoreggiato. Ha già concepito l’idea di un articolo, una mostra fotografica, una pellicola. Mc Candless viene trovato morto in un pulmino al cui esterno ha appeso un foglio con su scritto: “Sono da solo e questo non è uno scherzo. Per favore, in nome di dio, fermatevi e salvatemi”. Lo hanno ucciso probabilmente le patate avvelenate che mangiava. Complice, la solitudine. Per questo, per spirito di sopravvivenza, non sappiamo più davvero affrontarla?
Per questo, come Robyn nel deserto, il ragazzo del selfie e il navigatore nell'oceano, non stiamo mai veramente soli? Abbiamo sconfitto quello che consideriamo un mostro o l’abbiamo semplicemente ricreato in altre forme? Che ne avessimo paura lo sappiamo fin dal saggio “On loneliness” della psicanalista Frieda Fromm-Reichmann. Troppa, sostiene lei.
In un articolo del 2013 dal titolo “The science of loneliness” la rivista americana New Republic spiega con supporti statistici e verifiche di laboratorio che la solitudine può uccidere. Almeno quanto il fumo. E causare l'Alzheimer, l'obesità, una più rapida diffusione delle metastasi in caso di cancro. Un esperimento compiuto dalla psicologa Naomi Eisenberger dimostra che l’esclusione da un contesto sociale provoca una reazione scatenata dagli stessi centri che trasmettono il dolore fisico. Molto semplicemente (come dimostra il caso di “Into the wild”) è più probabile ammalarsi se non c’è nessuno accanto che si prenda cura di te. La sintesi poetica di Auden è: “Dobbiamo amarci o morire”.
Non sempre si può scegliere. A essere soli sono infatti prevalentemente i vecchi, i poveri (benché Albert Camus lo considerasse “lusso dei ricchi”), i diversi. Tre categorie a cui è difficile rifiutare l'iscrizione. E anche se lo psicologo John Cacioppo, alla maniera di Catalano, avverte “Stare con gli altri non evita la solitudine”, si sono individuate forme di cura alla portata di tutti. Si va dagli animali (vedi “Tracks”) a dio.
L'eremita metropolitano di Padova, padre Domenico Maria, la segnala al terzo di abitanti single del capoluogo veneto come «un’opportunità per avvicinarsi alla fede». Di fatto, ognuno, come in ogni altra situazione, fa quel che può, assecondando la massima di Victor Hugo: “La solitudine crea persone d’ingegno. O idioti».
È stato Vasco Rossi a proporre l'introduzione a scuola dell’ora di solitudine, per imparare a stare con se stessi. Molti anni prima il suo collega Tito Schipa jr. aveva inciso una canzone dal titolo “Non siate soli”, che si chiude così: «Lo so che io a solitudine ho spostato mari e monti/acceso fuochi, osato libri grandi e versi e canti/Per finire a far da anello rotto in fondo a una catena/Ma voi non siate soli”.
È un invito tanto accorato quanto seguito. Nessuno più sa star solo sul cuor della terra a farsi trafiggere da un raggio di sole.
I vagoni delle metropolitane sono pieni di palombari che chattano, in Giappone se ti siedi in un caffè e non c'è nessuno con te ti piazzano di fronte un pupazzo.
Ma sono davvero metodi per cancellare la solitudine o piuttosto per reinventarla? E, se fosse vera la seconda cosa, per renderla addirittura più forte? Chi è più realmente solo di colui che si trova immerso in una folla di amici virtuali? Ogni svolta in quel senso è una rinuncia a possibilità concrete. Il ragazzo che si scatta il selfie evita di chiedere, come si usava, a un estraneo di fargli la fotografia. Una volta su dieci, cento, mille, da quel contatto scaturiva qualcosa di più: una chiacchierata, una serata, una relazione. L’avventore che siede di fronte al pupazzo evita il contatto visivo con gli occhi di chi è ugualmente solo e magari potrebbe avvicinarsi.
Le metropolitane erano pagine di piccoli annunci: AAA donna trentenne bionda sportiva non fumatrice cerca uomo max cinquantenne, libero, in completo scuro, che scende a Cordusio. Ora sono libri chiusi, occhi fissi, ripiegamenti. Siamo così circondati da opportunità che non cogliamo. Rifiutiamo la solitudine, ma allarghiamo il vuoto che abbiamo dentro.
Perfino i “mostri” della cronaca nera non sono più soli. Era un classico, dopo l’arresto, l’intervista al vicino che dichiarava: “Tipo sospetto, non frequentava mai nessuno”. L'ultimo “mostro”, quello che crocefiggeva prostitute vicino a Firenze, teneva famiglia: viveva con mamma e papà e aveva sposato una immigrata dell'Est. Si suppone, per non stare da solo, farsi curare, tenere a bada i propri demoni. Missione non esattamente compiuta.
Bisognerà prima o poi arrendersi all'idea che la solitudine è un tratto, come il ciuffo ribelle o la sventatezza. Sta nel Dna quanto nell’esperienza.
Se si è conficcata nell’anima può accompagnarsi dolcemente ad altre solitudini quanto alla propria, ma non al can can, virtuale o autentico. Si torna sempre al noto aforisma di Friedrich Nietzsche: “Nella solitudine il solitario divora se stesso. Nella moltitudine lo divorano i molti. Ora scegli”. Sembra una condanna. L'unica salvezza è accettare la pena, in tutti i possibili sensi, vivere la galera come liberazione. Fare propria la strofa di Gianni Morandi: “Io ti trovo bella, non mi fai paura/Signora solitudine”.
La Repubblica – 2
giugno 2014
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