13 settembre 2014

MALEDIZIONI MASCHILI



La maledizione maschile

Stando alla definizione del dizionario Zingarelli, “puttana” significa, in senso etimologico, “puzzolente”, “sporco”, e in secondo luogo la denominazione volgare di “meretrice, prostituta”. Qualsiasi donna sa che non c’è bisogno di vendere il proprio corpo, offrire un servizio sessuale in cambio di denaro, per attirarsi l’epiteto insultante di “puttana”. Basta uscire dai canoni del riserbo e del contegno morale che gli uomini si aspettano da lei, allo scopo di occultarne la sessualità, considerata un male in se stessa o il bene riservato a un legittimo padrone. Nessuna meraviglia perciò se un giudizio analogo, di spregio e disapprovazione, sia caduto sul femminismo, sulle sue pratiche volte alla riappropriazione del corpo e della sessualità femminile. Oggi, la legge del mercato  -“pecunia non olet”-, i cambiamenti del sistema produttivo, la femminilizzazione del lavoro, hanno stemprato l’insulto, da sempre rivolto alla donna, in una varietà lessicale apparentemente scevra da giudizi morali: escort, veline, donne-immagine, scambio sesso-denaro, contesto prostituzionale allargato, e simili.
Del potere taumaturgico del denaro Marx era ben consapevole: “Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella delle donne. E quindi io non sono brutto”; “Il denaro è la universale confusione e inversione di tutte le cose” (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844).
Ma siamo sicuri che il “dio delle merci” sia riuscito davvero a cancellare la “maledizione” che pesa sulla donna e che solo ora approda alla coscienza storica, insieme all’immaginario maschile che le ha dato forma? Se ci si indigna e si considera degradante il fatto che la donna venga rappresentata come corpo erotico, corpo seduttivo offerto allo sguardo dell’uomo, non è forse perché l’enfasi con cui è accolto oggi il “femminile” nella sfera pubblica richiama in modo inequivocabile quella che è stata, nella cultura classica greco-cristiana, la “natura” della donna, cioè la sessualità, e di conseguenza la sua collocazione nella “vita inferiore” dell’umano?
Mi sono scoperta spesso a pensare: “Ha ragione Otto Weiniger”, l’autore di un libro molto discusso dei primi del ‘900, Sesso e carattere. Ma forse volevo dire che il filosofo viennese, morto suicida in giovane età, nel furore platonico e cristiano che lo ha spinto a tradurre in chiave di sessismo e razzismo la contrapposizione lacerante tra materia e spirito, umano e divino, “dà” ragione, o, se si preferisce, testimonianza di una visione maschile del mondo radicata in entrambi i sessi, e rimasta fino ad oggi la lingua in cui si sono amati e fatti la guerra.
La “maledizione” – come ha scritto giustamente Pierre Bourdieu – non è nella “natura” della donna, ma nell’aver essa forzatamente incorporato il pregiudizio che a tale “natura” ha dato forma e nomi. “Nella misura in cui le loro disposizioni sono il prodotto del pregiudizio sfavorevole contro il femminile che è istituito nell’ordine delle cose, le donne possono solo confermare costantemente tale pregiudizio. Questa logica è la logica della maledizione. Le stesse disposizioni che inducono gli uomini a lasciare alle donne i compiti inferiori e le attività ingrate e meschine, insomma a sbarazzarsi di tutti i comportamenti poco compatibili con l’idea che gli uomini si fanno della loro dignità, li portano anche ad accusarle di “ristrettezza mentale”(Il dominio maschile, Feltrinelli 1998).
Una forma di dominio “inscritta in tutto l’ordine sociale” e che “opera nell’oscurità dei corpi”, poteva facilmente essere scambiata per legge di natura, indurre l’uomo a dar corpo ai suoi fantasmi, ad allontanarli da sé, facendone depositario l’altro sesso. Il dualismo, nella definizione che ne da Weininger, in quanto compresenza di animalità e intelligenza, corpo e anima, è ciò che contraddistingue la “superiore” umanità del maschio, ma è anche causa della guerra “enigmatica”, inspiegabile, che lo tiene diviso in se stesso, perennemente sospeso tra la colpa e la redenzione, la terra e il cielo. Se Sesso e carattere  -come si legge nella Prefazione di Franco Rella alla ristampa del 1978 (Feltrinelli) – può rappresentare “la tragedia della fine della ragione classica”, l’estremo tentativo di salvarne l’unità, a costo del sacrificio di una parte vitale dell’Io, quale è la materia di cui è fatto, è anche vero che mai è venuto allo scoperto con tanta lucidità e follia la confusione tra la donna reale e la definizione che l’uomo ha dato del “femminile”.
Weininger è molto attento nel distinguere tra la sessualità, che considera il tratto distintivo unico della “essenza” e della psicologia della donna – l’oggettivazione della sessualità maschile, la sua colpa divenuta carne -, e l’amore come “proiezione” su di lei di quell’anelito di perfezione, redenzione dal peccato, per il quale è necessario che la donna “rinunci” alla sue “intenzioni immorali verso di lui”. Perché l’uomo possa attingere alla perfezione dello spirito occorre che la donna si emancipi da se stessa, che scompaia come tale. Unica riserva, rispetto alla identificazione  della donna con la sessualità – la materia, la caduta nella vita inferiore, il nulla -, è il dubbio che all’origine l’uomo, “umanizzandosi” abbia tenuto per sé la divinità, l’anima, e che questa ingiustizia egli la sconti nelle pene dell’amore, “nel quale col quale tenta di ridare alla donna l’anima rubatale”.
Madre, prostituta o vergine, la donna “non è che mezzo per uno scopo”, nell’erotismo più elevato così come in quello più intimo. Interessante, per capire quanto questo immaginario permanga nella cultura e nel senso comune, è l’aspetto onnicomprensivo che assume la sessualità nella definizione del “carattere” della donna, e più in generale del suo rapporto con l’umano. “La donna si consuma tutta nella vita sessuale, nella sfera dell’accoppiamento e della procreazione, nella relazione cioè di moglie e madre; essa viene totalmente assorbita, mentre l’uomo non è solamente sessuale (…) Personalità e individualità (Io, intelligibile) e anima, volontà e carattere, significano sempre la stessa cosa che, nella sfera umana, appartiene solo all’uomo, e manca alla donna (…) Il loro aspetto esteriore, ecco l’Io delle donne.”
È così che la distanza tra la moglie e la prostituta si riduce fin quasi a scomparire.
“Si deve osservare che non già la sola donna venale appartiene al tipo delle prostitute, ma anche molte delle cosiddette ragazze per bene e delle donne maritate. L’attitudine e l’inclinazione alla prostituzione fanno dunque parte della costituzione organica di una donna fin dalla nascita, al pari della maternità. Forse nella maggior parte delle donne si trovano ambedue le possibilità: la prostituta e la madre.”
Se  la prostituta non si cura che dell’uomo, anche la madre percepisce la mascolinità del figlio e sta con lui “sempre in relazione sessuale”. Comune a entrambe è il “bisogno di accoppiarsi” e il desiderio del “coito in generale”, cioè la comunione, la fusione con l’altro, dovute alla mancanza di un Io e quindi anche di un Tu. Nel momento in cui è la modernità stessa a far propria la “cultura del coito”, si fa più palese anche la “volontà di passare dalla maternità alla prostituzione”: “Forse oggi l’elemento sensuale si manifesta con maggiore evidenza, perché gran parte del movimento non è che una volontà di passare dalla maternità alla prostituzione; nel suo complesso si tratta piuttosto di una “emancipazione delle prostitute” che non di quella delle donne, e secondo i suoi risultati reali sarebbe certamente un’accentuazione della parte di cocotte che sta nella donna.”
Presa dentro l’”enigma del dualismo” – la spinta dall’illimitato verso il limite, dello spirito verso la materia, della libertà verso la servitù -, la donna viene così a trovarsi al centro di una definizione quanto mai contraddittoria e paradossale del “femminile”. Se per un verso essa dipende per la sua esistenza dall’uomo, dall’altra, incarnando la “maledizione” di un maschile diviso tra l’animalità e il divino, viene a rivestire una missione decisiva per il sesso vincente.
La stessa “ragione” che la respinge e la separa da sé come minaccia per la sua integrità, è costretta subito dopo a riporre in lei alte doti di moralità e attese salvifiche. La sua appartenenza al genere umano le dà diritto all’equiparazione giuridica ma non all’“eguaglianza morale e intellettuale”, che spetta solo al sesso che ha in sé corpo e anima, che è soggetto e oggetto al medesimo tempo. Per rendersi conto di quanto queste contraddizioni siano ancora presenti nella condizione femminile, basterebbe analizzare più a fondo i nessi  che ci sono sempre stati tra la riduzione della donna a corpo e la sua assenza dai luoghi dove si esprimono individualità, pensiero, volontà, potere decisionale.



Questo intervento, pubblicato oggi su http://www.minimaetmoralia.it/   , era  già apparso su “Gli Altri” nel 2013. (Fonte immagine)

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