15 settembre 2014

LA POETICA DI GIOVANNI RABONI


Dieci anni fa moriva Giovanni Raboni. Una prima versione di questa intervista è uscita su «Allegoria» (IX, 25, 1997). Raboni parla della sua poesia e della sua poetica.  

Classicismo e sperimentazione. Intervista a Giovanni Raboni


a cura di Guido Mazzoni


Nel corso degli anni Ottanta, fra Canzonette mortali (1986) e Versi guerrieri e amorosi (1990), lei scopre la forma chiusa, che non aveva mai impiegato nei suoi libri precedenti, e concepisce la scrittura poetica come una forma di anacronismo. È il suo cambiamento di poetica più rilevante e assomiglia a due esperienze letterarie molto diverse fra loro: alle scelte di alcuni poeti nati negli anni Cinquanta che hanno adottato le forme chiuse (Valduga, Held, Frasca e altri) e agli ultimi libri di Fortini.
Io sono più portato a parlare dell’aspetto formale, quello su cui la volontà ha agito più chiaramente. Per quanto riguarda lo spostamento tematico il discorso è più complicato. Sicuramente sono stato colpito dal lavoro di alcuni poeti molto più giovani di me che hanno recuperato la forma chiusa. Questi poeti, a loro volta, erano stati impressionati, per esempio, dall’Ipersonetto di Zanzotto e dallo stesso Fortini. Il lavoro di formalizzazione dell’informale che mi aveva interessato fino a quel momento mi sembrava, per quanto riguardava la mia poesia, un po’ esaurito e, in linea generale, mi sono convinto che lo stesso lavoro di liberazione metrica che attraversa tutto il secolo si sia a sua volta un po’ esaurito. Il ritorno alla prigione metrica significa fare un passo indietro per ritrovare uno slancio di libertà anche formale. Questa soluzione è stata in parte suggerita dal mio stesso lavoro, in parte dall’esempio di altri, e in parte da una riflessione di tipo teorico. È stato un avvicinamento graduale ma ha avuto il carattere complessivo di una svolta, prima formale e poi tematica, ed è approdato a quella teoria dell’anacronismo che ho mutuato da Goethe. Essa trova un’applicazione sostanziale in Versi guerrieri e amorosi. Il libro è una sorta di memoria della guerra volutamente spiazzata, con un piede nel passato e uno nel presente. In Versi e guerrieri e amorosi c’è anche qualcosa di giocoso e sperimentale. Nella fase successiva, in Ogni terzo pensiero (1993), questo aspetto è attenuato.
Il sonetto, comunque, è diventato il modo in cui io oggi penso la poesia. D’altra parte, quasi contemporaneamente ho cominciato a lavorare contro il sonetto. I miei sonetti rispettano lo schema ma allo stesso tempo cercano di disfarlo, di metterlo in discussione, per esempio con un gioco di accenti, di rime sulle particelle e sulle congiunzioni.
La dominante stilistica di Ogni terzo pensiero è il contrasto fra i contenuti che rappresentano il negativo (la condizione umana, la storia) e una forma che ostentatamente resta alta, classica, anacronistica, carica di passato.
Non c’è dubbio. È una dialettica che si trova anche in Fortini. Se posso accennare a una differenza fra il modo di intendere questa dialettica in Fortini e il mio, direi che in lui è prevalente il livello della lingua; nella mia poesia prevale il livello metrico. La mia lingua è ancora prosastica e colloquiale. Il senso dell’operazione però è lo stesso: preservare dei valori per un futuro possibile, liberato; dei valori borghesi contro la borghesia. Questa è una cosa che mi accumuna a Fortini, un poeta che io scopro sempre più come essenziale.
Questa stessa dialettica ha precendenti celebri: per esempio lo stesso Goethe, che è citato in un’epigrafe di Versi guerrieri e amorosi («Bisogna confessare che ogni poesia converte i soggetti che tratta in anacronismi»).
Sì, è così. Credo che la funzione degli intellettuali sia quella di mantenere viva l’alterità, l’eterogeneo, di fronte all’omologazione; e specificamente dello scrittore in quanto portatore di forma.
Lei è stato molto critico verso quello che è accaduto nell’editoria italiana e in generale nell’industria culturale.
Temo invece di essere stato perfino troppo mite… Quello che è accaduto ha superato le più nere previsioni. È stata sorprendente la rapidità. Se penso che cos’era l’editoria negli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta, ciò che accaduto mi appare quasi incredibile. Se penso a chi erano i responsabili dalle case editrici allora e a chi sono oggi, si ha il quadro non di un mutamento, ma di uno sprofondamento. La funzione degli intellettuali nelle case editrici è scomparsa. Non è diminuita: è scomparsa. Le scelte sono fatte da manager che hanno tutto in mente tranne il senso dei libri che pubblicano. E questo per parlare solo dell’editoria… È un’involuzione che non si riesce più nemmeno a descrivere in termini di gradualità.
Forse il punto di svolta è stato l’avvento della televisione privata, con il riflesso che ha comportato sulla televisione pubblica, sui giornali, sulle riviste, sui libri. Credo che sia ingenuo pensare oggi a Berlusconi come un semplice avversario politico. Berlusconi è l’autore del mondo culturale in cui viviamo.
La narrativa italiana è stata investita in modo distruttivo dall’industria culturale. Scrittori promettenti sono stati stritolati dalla macchina della promozione, dal bisogno di essere sul mercato. C’è stata una distruzione di possibili talenti che ora è arrivata al punto grottesco di sfruttare degli adolescenti, alla distruzione del grano in erba… La poesia è la prima ad essere colpita da questa involuzione, ma forse è anche la meno significativamente colpita, perché ha sempre avuto un’esistenza editoriale difficile. Questo tutto sommato è negativo per i poeti, ma non forse negativo per la poesia, che conserva oggi una certa vitalità, superiore a quella della prosa, forse grazie all’isolamento indotto dall’industria culturale, al fatto di non essere oggetto di mercato. Non è un caso che la generazione dei poeti nati intorno al 1945, che hanno beneficiato di un momento di attenzione un po’ più vivace da parte dell’editoria e dei giornali, hanno magari avuto una buona partenza ma poi si sono fermati. Sono poeti che non hanno avuto, tranne qualcuno, un’evoluzione interessante, poeti promettenti che sono rimasti tali, perché magari sono stati vezzeggiati da un clima storico che poi è scomparso: le manifestazioni pubbliche, la riscoperta dell’orgoglio di essere poeti, un’antologizzazione immediata e precoce. Cucchi, De Angelis, Conte e altri hanno avuto una buona partenza e poi si sono smarriti nella ripetizione di se stessi (cosa che di solito succede ai narratori, i quali tentano di ripetere il successo), con l’eccezione di Viviani, che ha avuto una storia ricca e diversa.
Di recente è uscito un volume dei Meridiani Mondadori che raccoglie le poesie di Sereni, un autore che ha influenzato molto la sua opera.
Il rapporto con Sereni da un certo momento in poi è diventato di amicizia molto intensa. Faccio fatica a distiguere quello che Sereni mi ha dato come poeta e quello che mi ha dato come persona. Non c’è stato un tempo in cui Sereni ha agito su di me influenzando quello che avrei fatto: c’è stata una sorta di simbiosi. Quello che Sereni andava facendo mi sembrava quello che io avrei dovuto fare: una coincidenza assoluta. Man mano che venivo a conoscere le poesie che sarebbero confluite negli Strumenti umani, sentivo che mi precedeva di un passo: erano cose che anch’io andavo facendo, ma lui le faceva con maggiore lucidità. È stato un lavoro che ha accompagnato la mia poesia in modo capillare. Sereni ha colto, interpretato, dato forma a un bisogno generale, il bisogno, com’è stato detto, di fare entrare la prosa dentro la poesia, di allargare lo spazio dell’istituzione poetica. Molto importante è stato anche l’esempio di Luzi, a partire da Onore del vero. Non c’è dubbio che Onore del vero e Nel magma hanno avuto un valore simile agli Strumenti umani in quegli anni.
In quella stessa epoca storica lo sforzo di fare entrare la prosa nella poesia era nel programma della neoavanguardia. Alcuni poeti a lei vicini, come Majorino per esempio, hanno condiviso alcune posizioni del Gruppo 63. Lei invece è rimasto estraneo alla neoavanguardia e fedele ad una poesia che definiva, nei suoi scritti critici degli anni Sessanta, “figurativa”. Oggi non sembra guardare con interesse al Gruppo 93.
No, non guardo con particolare interesse alla neoneoavanguardia, anche se seguo con stima e amicizia il lavoro di alcuni singoli: penso per esempio a Gabriele Frasca, che pure non fa propriamente parte del gruppo.
Per quanto riguarda la neoavanguardia, la difficoltà del mio rapporto con loro sta nel fatto che c’era davvero una certa coincidenza di interessi che però venivano risolti in modo diverso. Forse c’erano più contatti di quanto non vedessimo allora. Ricordo, oltre alla mia amicizia con Majorino, il rapporto molto intenso che avevo con Antonio Porta. C’erano legami abbastanza stretti fra i meno ‘avanzati’ della neoavanguardia e i più interessati a una qualche forma di sperimentazione dei poeti ‘lombardi’. Quello a cui io mi sono opposto fin dall’inizio e a cui continuo ad oppormi – non tanto nel ricordo quanto in alcune conseguenze di tipo scolastico – è il tentativo di egemonizzazione che è stato fatto. Ancora oggi, se si va a leggere le antologie, sembra che ci sia stata soltanto la neoavanguardia in quel periodo.
Che cos’era esattamente l’esigenza “figurativa”?
Era da una parte la tendenza al rispetto della complessità dell’arte. I progetti non si traducono mai in oggetti se non attraverso una serie di mediazioni. L’applicazione schematica di un’intenzione produce in generale degli oggetti non interessanti. Questo mi pare che avvenisse nella parte più dimostrativa e più caduca della neoavanguardia. Dall’altra parte era anche un’esigenza politica. C’era comunque un’attenzione ai significati e ai contenuti che era, in senso lato, politica. Non si accettava l’idea della rappresentazione negativa del negativo, perché il negativo (e secondo me è ancora così) va rappresentato in modo da proporre una via d’uscita.
Questo discorso ci riporta ancora una volta a Fortini, che negli stessi anni, partendo da un’analisi del reale vicina a quella della neoavanguardia (o meglio: dell’ala marxista della neoavanguardia), difendeva l’esigenza di mantenere il positivo nella rappresentazione del negativo attraverso la forma, la mediazione, il classicismo.
Oggi è molto chiaro come ci fossero tre posizioni: la rappresentazione mimetica del negativo, il negativo rappresentato con una forma classica e ‘fredda’, come accade in Fortini, e una posizione intermedia – quella di Sereni e dei poeti che si riconoscevano nel suo magistero -: una rappresentazione inclusiva: positiva in quanto rappresentazione e inclusiva del negativo. Non un’opposizione come in Fortini, ma un tentativo di inglobamento. Una volta la posizione di Fortini mi sembrava di grande interesse ma non condivisibile proprio nella misura in cui si opponeva al mio progetto, che coincideva largamente con quello di Sereni. La poesia di Fortini mi affascinava e allo stesso tempo mi respingeva. Credo di avere capito Fortini solo col tempo: e perché ho cominciato a lavorare intorno a un’idea di poesia non lontanissima dalla sua, e perché mi sembra che i tempi gli abbiano dato ragione. Il che naturalmente non fa venir meno l’importanza della proposta di Sereni. Però la poesia di Fortini, essendo più intellettualizzata, conserva una carica di attualità che forse quella di Sereni non ha più. Quella di Sereni è la storia esemplare di un poeta. Oggi non riesco più ad estrapolarne delle proposte valide per altri, mentre invece dalla posizione di Fortini riesco ancora a tirare fuori una linea. È effetto del tempo, di quello che è accaduto intorno a noi.
A partire dalla metà degli anni Settanta gran parte dei poeti che cominciavano a scrivere sembravano essere passati ad un altro ordine di problemi.
È vero. E questa è una loro debolezza. Prima accennavo ad una debolezza indotta, in qualche modo motivata da un vezzeggiamento della figura del poeta che in quegli anni si era verificato, però non c’è dubbio che ci siano motivazioni più intime, di più intrinseco. Ed è proprio questo: la riscoperta della poesia come valore assoluto, qualcosa che io continuo a ritenere sbagliato.
Lei ha espresso recentemente dei giudizi critici negativi su Montale.
Sono convinto che il grande Montale sia quello dei primi tre libri, e in particolare quello delle Occasioni e della Bufera. Se devo esprimermi con chiarezza, già partendo da Satura (che pure è un libro di grande dignità), e poi in modo palese nelle raccolte successive, Montale è un ex-poeta, da ultimo nemmeno interessante come letterato. Parlo del Montale postumo: esteticamente inesistente, e anche quasi indecoroso. Credo che sia importante per la memoria di Montale capire dove Montale finisce. Credo che la canonizzazione di tutto Montale nell’Opera in versi sia stata un grosso guaio. Ancora adesso, per esempio nella Letteratura italiana di Asor Rosa, compare un saggio di Mengaldo sull’Opera in versi: ma L’opera in versi, nella sua interezza, non è importante come sono importanti gli Ossi di seppia, Le occasioni o La bufera. È una finzione, un libro inventato da Contini. Non ha il valore di un’opera unitaria.
Fra i poeti stranieri, uno di quelli che ha influenzato maggiormente la poesia italiana del secondo Novecento è stato Eliot. Lei ha scritto un saggio, secondo me molto bello, su Eliot e Pound, nel quale scriveva che Eliot era il “geniale semplificatore” di Pound.
Per me ha sempre funzionato il binomio Pound-Eliot: capivo Pound attraverso Eliot. Uno dei miei contenziosi con la neoavanguardia era che il loro modo di leggere Pound mi sembrava molto meno inventivo e ricco del mio. Da Pound io ricavavo delle conseguenze che cercavano di non essere mimetiche, mentre il Pound che passa nel primo Sanguineti è un Pound letterale. Mi irritava che loro impugnassero Pound, che io leggevo da molti anni e cercavo di metabolizzare. Lì non c’era metabolizzazione, secondo me. Comunque la lettura di Pound e Eliot dopo la guerra è stata fondamentale.
Quant’è importante per lei l’attività di traduttore?
Credo che sia il maggior laboratorio che un poeta possa frequentare. C’è il lavoro sull’espressione, sulla forma al riparo dalle turbolenze dell'”ispirazione”. Le cose da dire sono già scritte e bisogna dirle in un certo modo: Questo è in sostanza il lavoro del traduttore: dire le cose che sono già state dette in modo che sortiscano sull’ascoltatore un effetto non troppo dissimile dall’originale. È in parte un’esecuzione, in parte una riscrittura. Il lato artigianale della scrittura viene in primissimo piano, lato artigianale che io considero fondamentale per il lavoro poetico. È davvero una grande officina. Se questo è vero nella traduzione, è ancora più vero nel rifacimento della traduzione. I fiori del male li ho tradotti tre volte, e ora sta uscendo una quarta versione.
Come giudica l’influenza che la prosa, narrativa e saggistica, ha avuto sulla poesia italiana del secondo Novecento, oltre che sulla sua poesia?
Posso rispondere per me. Sono un lettore di tutto da sempre, da autodidatta. Sono soprattutto un lettore di narrativa; il piacere della lettura per me è collegato con il romanzo. Ancora adesso leggere Dostoevskij, Dickens, Tolstoj è la cosa più bella che mi possa capitare. Fra i romanzieri contemporanei, per me è stato molto importante Volponi, che considero uno dei maggiori del secolo. Gli sono stato molto vicino negli ultimi anni con un’ammirazione grandissima per tutta la sua opera. Mi colpisce la qualità enorme della scrittura. In generale non sono convinto che la grandezza della scrittura sia in relazione con la grandezza del narratore. Riesco a immaginare dei narratori in cui la scrittura è puramente funzionale, ma non c’è dubbio che, quando la scrittura ha la forza e la ricchezza di quella di Volponi, già questo costituisce l’ossatura di un’opera. In Volponi c’è una capacità di allegorizzazione formidabile: la capacità di cogliere il reale e di farne metafora. Non riesco a mettergli vicino nessuno nella seconda metà del Novecento. La sua è grande prosa e insieme grande romanzo, nel senso di progettazione del reale. Mi colpisce sempre il fatto che il suo valore non sia così unanimamente riconosciuto. Non voglio riprendere il discorso sulla sopravvalutazione di Calvino, che è un buono scrittore ma non è affatto quel grande, grandissimo scrittore che dicono. Col tempo Volponi risulterà più importante di Gadda, perché è altrettanto grande l’invenzione stilistica ed è molto più forte la comprensione della realtà. Per amare Gadda bisogna sempre riportarsi alla sua patologia. Gadda è un grande malato; Volponi è lo scrittore sano di una realtà patologica.
Per quanto riguarda le mie letture di filosofia e di economia politica, sono arrivate o durante i miei studi o in seguito. La mia collaborazione ad “aut aut”, allora diretta da Paci, è stata un’occasione per leggere dei testi che altrimenti non avrei mai letto, ma non sono stato un allievo di Paci. Non mi considero nemmeno un marxista. Ho costeggiato il marxismo critico, ma più per frequentazioni di tipo politico. Sono un non marxista che non può fare a meno di Marx per la comprensione del mondo. Più ci allontaniamo da una qualsiasi ipotesi o speranza di socialismo, più Marx diventa indispensabile.
                                                                                                                        (maggio 1996)

 Documento ripreso da http://www.leparoleelecose.it/

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