M. Chagall, La fidanzata dal volto blu
Una
grande mostra a Milano racconta il percorso umano e artistico di Marc
Chagall.
Fabrizio D'Amico
Marc Chagall. Il
maestro che trasformò l’esilio in un lungo sogno
Ci fu un giorno – era
poco più che un ragazzo – in cui Marc Chagall scoprì di essere
un uomo prigioniero della sua timidezza e della sua bontà: fu
quando si vide, in ginocchio, intento a raccogliere i rubli che il
padre gli aveva gettato addosso con malagrazia, quei ventisette
rubli che costituivano il viatico al proposito di Chagall di farsi
pittore. Di lasciare Vitebsk, dove era nato, la casa, la famiglia,
la cultura chassidica in cui era stato allevato.
Idea balzana, dovette
ragionare il padre; soprattutto per quel giovane di cui ascoltava
ogni giorno la balbuzie imbarazzante, di cui vedeva il tremebondo
timore di fronte ai maestri della dottrina ebraica, di cui
constatava il rossore che gli montava sulle guance a tradire un
invincibile imbarazzo nei momenti cruciali della sua breve, piccola
vita.
Marc ricordò a lungo quel brusco, sprezzante congedo paterno: certo con dolore, ma altrettanto certamente senza un grano di astio; «gli perdono, era la sua maniera di dare», si disse poi.Aveva scoperto quel giorno la sua bontà: la mitezza di un animo irresoluto sempre davanti alla realtà, alle sue troppo crude sintassi. E disposto ad accettarla – quella realtà – solo a patto di riconoscerla infine trasfigurata dalla fiaba e dal sogno. La favola di un vecchio arrampicato sul tetto, intento a sgranocchiar carote, per esempio; o di un suonatore di violino con il volto tutto verde; di due fidanzati azzurri o di un nudo rosa disteso in volo sopra le case di Vitebsk.
Cose tutte che egli avrebbe infatti dipinto, per tutta la vita lunga quasi cent’anni (1887-1985); perché Chagall, infine, pittore fu davvero, nonostante il padre, e fra i maggiori del suo tempo. Pittore fra i più facili da amare, anche; pur se non fra i più facili a comprendersi veramente, appena sotto quella prima pelle di apparente, universale accostabilità che alla prima sembrano garantire le sue favole infinite, ora riunite in una mostra ampia e ben scelta a Palazzo Reale di Milano (a cura di Claudia Zevi e Meret Meyer, fino al 1° febbraio 2015; catalogo GAmm Giunti e 24 Ore Cultura. La retrospettiva di Palazzo Reale è affiancata da una seconda mostra, Chagall e la Bibbia, aperta contemporaneamente al Museo Diocesano, curata dalla stessa Zevi e da Paolo Biscottini).
Così quando
finalmente dall’enclave protetta di quel suo mondo d’origine
che era il borgo natale, Chagall andò a Parigi, quella sua bontà
e mitezza fu la sua prima compagna. Parigi fu per lui, all’inizio,
occasione soprattutto di repulse, dichiarate nei confronti del
cubismo, che negli anni del suo primo soggiorno nella capitale
mondiale dell’arte (1910-1914) si radicava come nuova, ma già
unica frontiera della modernità. Robert e Sonia Delaunay sono il
tramite, poi, per una parziale comprensione di quella lingua; nei
confronti della quale però, dopo un lungo momento di incertezza,
Chagall elaborò un definitivo bisogno di separatezza («che
mangino pure a sazietà le loro pere quadrate sulle loro tavole
triangolari»).
Per adesso, comunque, egli non ha ancora scelto definitivamente quale sarà la sua via; gli amici cui si lega (oltre ai Delaunay, Léger e Archipenko, Apollinaire e Cendrars), le gallerie e i Salon che frequenta, il patrimonio d’immagini, moderno e occidentale, che gli squaderna sotto gli occhi la grande capitale; i suoi primi invaghimenti (da Delacroix a Matisse), tutto sembra congiurare per far sì che Chagall divenga un pittore “francese”. E sono troppo sovente sottaciute le componenti formali, mediate soprattutto da Delaunay, che attestano un colloquio almeno tentato con il vasto panorama del più recente cubismo.
Ma al rientro in
Russia (con il lungo suo trattenersi, sulle prime, e nonostante le
numerose occasioni offertegli di lavorare a Mosca, prevalentemente
ancora a Vitebsk) Chagall delineò definitivamente la sua vocazione
a una lingua lontana dalle ac- quisizioni dell’avanguardia: che
proprio allora assunse a un certo punto per lui la facies del
demone suprematista (incarnato da El Lissitskij e da Malevich),
assai più intransigente di quello impersonato dagli amici
parigini, e che fu infine causa dell’abbandono di quell’Accademia
d’Arte Libera da lui stesso fondata nella città natale. Al
limite estremo degli anni trascorsi in Russia, e prima di
stabilirsi per breve tempo a Berlino (1921), Chagall pose mano alle
pagine autobiografiche poi confluite in Ma vie, opera certamente
cruciale nel dare volto compiuto alla sua poetica, che da allora in
avanti egli avrebbe nutrito di memoria, di lontananza, di sogno, di
malinconia.
Una malinconia nata da un sentimento profondo dell’assenza che sarà il seme fecondo di tutta l’opera a venire; e che saprà essere fin dolcemente sorridente, sbocciata lontano dall’arroganza del suprematismo, in una Parigi che diviene adesso – al suo ritorno, nel ‘23 – davvero la sua seconda patria (fino al colmo grido d’amore paradossale: «Parigi, tu sei la mia piccola Vitebsk!»). È questo il tempo, an- che, in cui si configura quella verità che intuì Venturi: «padroneggiando entrambe le tradizioni [l’orientale e l’occidentale], da entrambe restò indipendente»; il tempo in cui la corsa del pendolo di Chagall prende a farsi ampia e sapiente fra l’una e l’altra cultura d’immagine: attingendo con naturalezza, e quasi con “facilità”, ora all’una ora all’altra, in una dialettica continuamente riattivata fra esilio e possesso, fra sogno e realtà, fra memoria e flagranza.
Gli scorrono così assieme davanti agli occhi la ritrattistica del Derain d’anni Dieci e la stagione del “ritorno al classico” di Picasso; Matisse, ancora e sempre, e forse – indicata da Quintavalle – qualcosa del Blaue Reiter, “fra Marc e Macke”; e poi il nascente Surrealismo, cui fu invitato da Breton ad aderire, e che pur lo lasciò sempre in sospetto, con le sue fonti cercate nell’azzardo, nell’automatismo, nella cecità del fare, nell’immersione nell’inconscio. Di tutto ciò Chagall prese certamente atto, sfoderando però contro l’ossequio alla contemporaneità l’arma innocente del suo sempre nuovo stupore, del suo incanto e della sua bontà, e cercando un “altrove” che era stato realtà e vita, era adesso memoria, e sperava di trasformarsi in sogno.
La Repubblica -18 settembre 2014
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