Esce in questi giorni per Galaad Edizioni Nessuna militanza, nessun compiacimento. Poveri esercizi di critica non dovuta, il nuovo libro di Antonio Tricomi, con una prefazione di Nicola Lagioia e una postfazione di Goffredo Fofi. Quella che segue è la prefazione di Lagioia.
I tempi migliori (i tempi peggiori)
di Nicola Lagioia
Quale può essere oggi, non solo in
Italia, dopo la fine della modernità, il ruolo dell’intellettuale. E
ancora più nello specifico, cosa dovrebbero fare o meglio essere, gli
intellettuali nati in Italia dopo l’inizio degli anni Settanta, per non
cedere alla tentazione di compensare con la falsa moneta del
compiacimento (fosse anche quello della catastrofe) la perdita reale di
terreno sotto i piedi che in questi anni si è prodotta in modo tanto
lampante. Cosa fare, soprattutto, per conservare il rispetto di sé e
rimanere vivi. Sono queste, tra le tante sollecitazioni, le domande che
con più urgenza (o forse sono i casi in cui l’urgenza di lui che scrive e
me che leggo coincidono con maggior forza) serpeggiano tra i saggi, le
riflessioni, gli sfoghi (come lui chiama certe ferite aperte) contenuti
nel libro di Antonio Tricomi che vi apprestate a leggere.
Un mondo ci è appena crollato alle
spalle e non se ne vede un sostituto che non prometta miseria,
solitudine, stoltezza dei grandi mediatori, forse violenza. Sembra quasi
che Tricomi indaghi questo crollo per cerchi concentrici, facendone una
questione privata non prima di aver inserito quest’ultima nella cronaca
e sullo sfondo degli anni che stiamo vivendo: un’indagine sull’attuale
stato delle cose a propria volta collocata in un contesto storico di
portata assai più vasta.
Iniziando a vedere le cose da lontano, a
me sembra che una sorta di big bang rovesciato, il momento di
singolarità a partire dal quale tutto ciò che poteva andare bene scivolò
nel suo contrario e cominciò a svanire, venga rinvenuto da Tricomi nel
suicidio d’Europa che segnò la fine della modernità per tutto il mondo
occidentale e che prese avvio con l’esplosione della Grande Guerra. Si
tratta in realtà di un doppio suicidio: ciò che restò miracolosamente
vivo dopo l’insensata mattanza del 1914-1918 trovò Auschwitz e Hiroshima
a completare l’opera, come se al fantasma benigno che resiste alla
morte dei corpi (si chiami spirito, cultura, civiltà) fosse dato in
questo modo il colpo di grazia, condannandolo – prima di vederlo
incarnarsi di nuovo in qualcosa di tangibile, concreto, capace di
muovere in modo autentico le nostre vite – a espiare in una sorta di
ciclo storico molto più lungo rispetto a quello che gli sarebbe toccato
nel caso in cui il secondo conflitto mondiale non si fosse consumato in
modo tanto catastrofico e inumano.
Noi, oggi, sconteremmo questo
“allungamento della pena”, assisteremmo cioè al pieno disvelamento di
un’espiazione fantasmatica, iniziandone a sentire specularmente gli
effetti sulla pelle. L’illusoria prensilità del caro spettro (l’incontro
mancato tra l’umanesimo che avrebbe dovuto tornare a governare le
nostre città, e noi, che avremmo dovuto evocarne tanto bene la presenza
da renderla possibile) produce drammi e traumi reali.
Tre secoli di progresso portarono,
cent’anni fa, l’Occidente sulle soglie di una crisi che si muoveva di
pari passo con la vitalità e la forza di certi artisti e intellettuali.
Massimo pericolo nella massima bellezza e verità possibili. Siamo ancora
così ossessivamente interessati a Joyce, a Freud, a Kafka, a Proust, a
T.S. Eliot, a Pirandello, a Montale, a Picasso, a Trakl, a Musil, a
Stravinskij, a Simone Weil, a Faulkner, persino a certi tardivi
modernisti come Malcolm Lowry, perché nelle loro opere è possibile
rinvenire un momento di grande verità, generatosi proprio mentre il
mondo imboccava per ben due volte al bivio il sentiero sbagliato (il più
rovinoso e tragico possibile), un attimo prima che lo facesse, o,
avendolo appena fatto, quando il non poter più tornare indietro sul
piano storico non coincideva ancora con il totale dispiegamento dei suoi
effetti su quello culturale, civile, politico, persino spirituale. Ci
addormentammo sotto il sole di Hiroshima, ci risvegliammo nel frastuono
di un McDonald’s.
Tutto il secondo Novecento è stato un
tentativo non riuscito nei migliori dei casi, o una farsa nei peggiori,
di porre rimedio a questo disastro. Se la civiltà ai cui valori
l’Occidente aveva realmente cercato di educarsi a partire dalla fine del
Settecento era ridotta a un fantasma, altrettanto fantasmatici (o
comunque, non sufficientemente autentici) sono stati i tentativi di
ripristinarla su un piano che non fosse solo ideale. Si tratta di
ectoplasmi che producono opposti assai tangibili. In questo modo,
fantasmatico il comunismo sovietico rispetto a Marx. Fantasmatico il
libero mercato rispetto alla democrazia. Fantasmatico, alla lunga, il
Sessantotto rispetto a un cambiamento che non fosse solo quello pur non
irrilevante dei costumi (ridotti a consumi in pochi decenni). Reale per
qualche attimo, ma fantasmatica nell’elaborazione della propria eredità,
la Resistenza. Fantasmatiche le socialdemocrazie nella pretesa di saper
proteggere la fiaccola del progresso. Fantasmatica in Europa e in
Italia, stringendo sempre di più il cerchio, la società intellettuale
nei suoi tentativi (eroici ma insufficienti, più spesso tragicomici) di
arginare il diluvio. Ci sarebbe stato bisogno di un San Francesco, e
invece abbiamo avuto solo un Fortini e un Pasolini.
In certe pagine di Tricomi, tra le
righe, mi è sembrato di leggere questa che, più che un’accusa, è
(ancora) un’amara riflessione storica o un paradosso. Non certo per
biasimare ingenuamente il mancato arrivo di santi o eroi brechtiani, ma
per spiegare, per meglio comprendere: talmente alta e violenta l’onda
sollevata dai primi quarant’anni del Novecento, che per alzare davvero
una diga, per riparare il guasto, per ricucire la ferita, per rimetterci
anzitempo sulla giusta via, ci sarebbero volute intelligenze, spiriti e
personalità ancora più grandi di quelle (pure mirabili) che ci sono
state.
Il problema è che la pena da scontare si
sta rivelando più lunga del previsto, e – questo il dono avvelenato
degli anni Dieci del nuovo secolo – anziché riavvicinarci, sia pure
millimetricamente, a quei valori a cui l’Occidente continua formalmente a
dichiarare di ispirarsi, la sensazione di addentrarsi, al contrario, in
un territorio nuovo e selvaggio (o meglio antico, nella sua spietatezza
e barbarie) si fa sempre più tangibile.
Che senso hanno avuto, tre secoli di
progresso, se oggi le ottantacinque persone più ricche del pianeta
posseggono il patrimonio dei tre miliardi e mezzo di individui meno
abbienti? È in cifre come queste (senza apparenti spargimenti di sangue)
la violenza dei tempi che stiamo vivendo.
Nel piccolo della società delle arti e
delle Lettere, gli intellettuali che hanno attraversato la propria linea
d’ombra (gli attuali trentenni e quarantenni) a cavallo dei due secoli,
si sono trovati ad agire in assenza di una vera comunità di
riferimento. O meglio, tutte ancora teoricamente in piedi le grandi
agenzie intellettuali del Novecento, ma tutte ridotte a simulacri da
distopia degna di Philip Dick. In piedi teoricamente le università,
ridotte di fatto a crollanti centri di burocrazia e feudi sempre più
miseri dove l’elefante morente dell’istituzione partorisce baroni che
partoriscono larve di vitalità. In piedi le terze pagine dei giornali,
ridotte a gossip culturale, vetrinificio a traino degli uffici stampa.
In piedi le case editrici, di fatto in mano a manager senza uno straccio
di idea. In piedi i salotti, sempre più sterili e spogli. L’impressione
è di aggirarsi tra quei set abbandonati che una volta ospitarono un
kolossal e ora sono ridotti a tristi scenografie bidimensionali che uno
sbuffo di vento un po’ più serio farà venire giù.
In questo contesto beckettiano si svolge (comicamente, neanche fosse un momento di Giorni felici o Finale di partita)
la nuova polemica tra vecchi e giovani. Qual è il rimprovero che i
giovani intellettuali, in Italia, si sono sentiti fare nell’ultimo
decennio da chi c’era prima di loro? I padri hanno accusato i figli –
istericamente, paradossalmente, sembra notare Tricomi, a un certo punto
più con pietà che con risentimento – di aver agito nel vuoto, cioè fuori
dai fortini e dalle chiese ormai distrutte (i luoghi che avrebbero
dovuto tenerli al riparo dalle bassezze contagiose del mondo dei consumi
e dello spettacolo neocapitalistico) che quegli stessi padri non erano
riusciti a difendere.
Accusare con violenza tuo figlio di non
avanzare verso il futuro brandendo le belle bandiere che ti sei fatto
soffiare sotto il naso (ma non potevi in realtà evitare che accadesse,
tu eri solo e male armato a difendere il fortino, loro erano tanti,
equipaggiati come un esercito) è ben tragico per entrambi. I padri così
disperati da muovere un’accusa insensata. I figli così stupidi e pavidi
da crederla legittima e rispondere gonfi di frustrazione sullo stesso
piano retorico (che, appunto, è un falso terreno di confronto).
Come si può insomma pretendere, se il
mondo è così cambiato da come appariva nel 1945 – e poi negli anni
Cinquanta e Sessanta del Novecento –, che strategia e condotta e compiti
quotidiani richiesti a chi lo abita adesso debbano essere gli stessi di
allora? È questa impossibilità, forse (il trompe-l’œil di una porta falsamente spalancata), ad aver generato negli ultimi tempi tanta sofferenza sterile.
Eppure, nota Tricomi, persino in questo
contesto disastrato, si continuano a scrivere ottimi libri, a girare
ottimi film, a elaborare idee e tentativi coraggiosi di discesa in
profondità, a non desistere dall’esercizio della critica, anche se non è
più molto chiaro a chi siano indirizzate le nostre missive né quali
effetti avranno.
Se però – e qui, nella cronaca della
grande mutazione, ci sono finalmente piccole gemme di speranza concreta –
si smette per un attimo di considerare il secondo Novecento (le sue
illusorie garanzie) come metro di paragone, e si guarda la Storia da una
visuale più ampia, ci si rende conto che nessuna speranza è mai
perduta, da sempre.
Quale garanzia sul futuro (del proprio
operato e della propria stessa vita) poteva avere Ungaretti mentre
scriveva dal fronte, con la «congestione» delle mani di «un compagno
massacrato» conficcate nel suo «silenzio»? A chi indirizzava queste
missive? A che speranza potevano ragionevolmente consegnarsi Kafka nella
sua stanzetta e Joyce esule volontario? Quali rassicurazioni su un
avvenire di pace e civiltà, anche solo temporanee, poteva avere Walter
Benjamin in fuga dalla polizia di frontiera? E Trakl? E prima ancora,
molto prima, quale pazienza dovevano aver avuto gli amanuensi per
evitare che il mondo classico venisse risucchiato definitivamente
nell’oblio?
Se Cervantes concepì Don Chisciotte
in carcere e Antonio Gramsci morì come sappiamo, con quale coraggio
annunciamo la fine del mondo portando come prova il crollo del mercato
editoriale o la revoca delle nostre tutele sindacali? I tempi sono duri,
più di quanto fossero nel passato recente, non più di quanto siano
sempre stati, e il nichilismo è come al solito un vicolo cieco e una
manifestazione d’arroganza.
Ecco allora, evitando di cadere nel
tranello di considerare il mondo nato ieri o l’altro ieri, che
l’attività intellettuale torna a mostrarsi necessaria e sempre
possibile. Connaturata all’uomo come esigenza e prerogativa di specie. E
soprattutto irta di difficoltà. Quelle difficoltà e scomodità che, per
circa un quarantennio, ci eravamo stupidamente illusi di aver lasciato
fuori dalla porta.
Testo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/
[Immagine: Alfredo Jaar, Questions, Milano 2008 (gm)].
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