18 settembre 2014

TEMPO PRESENTE


Esce in questi giorni per Galaad Edizioni Nessuna militanza, nessun compiacimento. Poveri esercizi di critica non dovuta, il nuovo libro di Antonio Tricomi, con una prefazione di Nicola Lagioia e una postfazione di Goffredo Fofi. Quella che segue è la prefazione di Lagioia.

I tempi migliori (i tempi peggiori)


di Nicola Lagioia

Quale può essere oggi, non solo in Italia, dopo la fine della modernità, il ruolo dell’intellettuale. E ancora più nello specifico, cosa dovrebbero fare o meglio essere, gli intellettuali nati in Italia dopo l’inizio degli anni Settanta, per non cedere alla tentazione di compensare con la falsa moneta del compiacimento (fosse anche quello della catastrofe) la perdita reale di terreno sotto i piedi che in questi anni si è prodotta in modo tanto lampante. Cosa fare, soprattutto, per conservare il rispetto di sé e rimanere vivi. Sono queste, tra le tante sollecitazioni, le domande che con più urgenza (o forse sono i casi in cui l’urgenza di lui che scrive e me che leggo coincidono con maggior forza) serpeggiano tra i saggi, le riflessioni, gli sfoghi (come lui chiama certe ferite aperte) contenuti nel libro di Antonio Tricomi che vi apprestate a leggere.
Un mondo ci è appena crollato alle spalle e non se ne vede un sostituto che non prometta miseria, solitudine, stoltezza dei grandi mediatori, forse violenza. Sembra quasi che Tricomi indaghi questo crollo per cerchi concentrici, facendone una questione privata non prima di aver inserito quest’ultima nella cronaca e sullo sfondo degli anni che stiamo vivendo: un’indagine sull’attuale stato delle cose a propria volta collocata in un contesto storico di portata assai più vasta.
Iniziando a vedere le cose da lontano, a me sembra che una sorta di big bang rovesciato, il momento di singolarità a partire dal quale tutto ciò che poteva andare bene scivolò nel suo contrario e cominciò a svanire, venga rinvenuto da Tricomi nel suicidio d’Europa che segnò la fine della modernità per tutto il mondo occidentale e che prese avvio con l’esplosione della Grande Guerra. Si tratta in realtà di un doppio suicidio: ciò che restò miracolosamente vivo dopo l’insensata mattanza del 1914-1918 trovò Auschwitz e Hiroshima a completare l’opera, come se al fantasma benigno che resiste alla morte dei corpi (si chiami spirito, cultura, civiltà) fosse dato in questo modo il colpo di grazia, condannandolo – prima di vederlo incarnarsi di nuovo in qualcosa di tangibile, concreto, capace di muovere in modo autentico le nostre vite – a espiare in una sorta di ciclo storico molto più lungo rispetto a quello che gli sarebbe toccato nel caso in cui il secondo conflitto mondiale non si fosse consumato in modo tanto catastrofico e inumano.
Noi, oggi, sconteremmo questo “allungamento della pena”, assisteremmo cioè al pieno disvelamento di un’espiazione fantasmatica, iniziandone a sentire specularmente gli effetti sulla pelle. L’illusoria prensilità del caro spettro (l’incontro mancato tra l’umanesimo che avrebbe dovuto tornare a governare le nostre città, e noi, che avremmo dovuto evocarne tanto bene la presenza da renderla possibile) produce drammi e traumi reali.
Tre secoli di progresso portarono, cent’anni fa, l’Occidente sulle soglie di una crisi che si muoveva di pari passo con la vitalità e la forza di certi artisti e intellettuali. Massimo pericolo nella massima bellezza e verità possibili. Siamo ancora così ossessivamente interessati a Joyce, a Freud, a Kafka, a Proust, a T.S. Eliot, a Pirandello, a Montale, a Picasso, a Trakl, a Musil, a Stravinskij, a Simone Weil, a Faulkner, persino a certi tardivi modernisti come Malcolm Lowry, perché nelle loro opere è possibile rinvenire un momento di grande verità, generatosi proprio mentre il mondo imboccava per ben due volte al bivio il sentiero sbagliato (il più rovinoso e tragico possibile), un attimo prima che lo facesse, o, avendolo appena fatto, quando il non poter più tornare indietro sul piano storico non coincideva ancora con il totale dispiegamento dei suoi effetti su quello culturale, civile, politico, persino spirituale. Ci addormentammo sotto il sole di Hiroshima, ci risvegliammo nel frastuono di un McDonald’s.
Tutto il secondo Novecento è stato un tentativo non riuscito nei migliori dei casi, o una farsa nei peggiori, di porre rimedio a questo disastro. Se la civiltà ai cui valori l’Occidente aveva realmente cercato di educarsi a partire dalla fine del Settecento era ridotta a un fantasma, altrettanto fantasmatici (o comunque, non sufficientemente autentici) sono stati i tentativi di ripristinarla su un piano che non fosse solo ideale. Si tratta di ectoplasmi che producono opposti assai tangibili. In questo modo, fantasmatico il comunismo sovietico rispetto a Marx. Fantasmatico il libero mercato rispetto alla democrazia. Fantasmatico, alla lunga, il Sessantotto rispetto a un cambiamento che non fosse solo quello pur non irrilevante dei costumi (ridotti a consumi in pochi decenni). Reale per qualche attimo, ma fantasmatica nell’elaborazione della propria eredità, la Resistenza. Fantasmatiche le socialdemocrazie nella pretesa di saper proteggere la fiaccola del progresso. Fantasmatica in Europa e in Italia, stringendo sempre di più il cerchio, la società intellettuale nei suoi tentativi (eroici ma insufficienti, più spesso tragicomici) di arginare il diluvio. Ci sarebbe stato bisogno di un San Francesco, e invece abbiamo avuto solo un Fortini e un Pasolini.
In certe pagine di Tricomi, tra le righe, mi è sembrato di leggere questa che, più che un’accusa, è (ancora) un’amara riflessione storica o un paradosso. Non certo per biasimare ingenuamente il mancato arrivo di santi o eroi brechtiani, ma per spiegare, per meglio comprendere: talmente alta e violenta l’onda sollevata dai primi quarant’anni del Novecento, che per alzare davvero una diga, per riparare il guasto, per ricucire la ferita, per rimetterci anzitempo sulla giusta via, ci sarebbero volute intelligenze, spiriti e personalità ancora più grandi di quelle (pure mirabili) che ci sono state.
Il problema è che la pena da scontare si sta rivelando più lunga del previsto, e – questo il dono avvelenato degli anni Dieci del nuovo secolo – anziché riavvicinarci, sia pure millimetricamente, a quei valori a cui l’Occidente continua formalmente a dichiarare di ispirarsi, la sensazione di addentrarsi, al contrario, in un territorio nuovo e selvaggio (o meglio antico, nella sua spietatezza e barbarie) si fa sempre più tangibile.
Che senso hanno avuto, tre secoli di progresso, se oggi le ottantacinque persone più ricche del pianeta posseggono il patrimonio dei tre miliardi e mezzo di individui meno abbienti? È in cifre come queste (senza apparenti spargimenti di sangue) la violenza dei tempi che stiamo vivendo.
Nel piccolo della società delle arti e delle Lettere, gli intellettuali che hanno attraversato la propria linea d’ombra (gli attuali trentenni e quarantenni) a cavallo dei due secoli, si sono trovati ad agire in assenza di una vera comunità di riferimento. O meglio, tutte ancora teoricamente in piedi le grandi agenzie intellettuali del Novecento, ma tutte ridotte a simulacri da distopia degna di Philip Dick. In piedi teoricamente le università, ridotte di fatto a crollanti centri di burocrazia e feudi sempre più miseri dove l’elefante morente dell’istituzione partorisce baroni che partoriscono larve di vitalità. In piedi le terze pagine dei giornali, ridotte a gossip culturale, vetrinificio a traino degli uffici stampa. In piedi le case editrici, di fatto in mano a manager senza uno straccio di idea. In piedi i salotti, sempre più sterili e spogli. L’impressione è di aggirarsi tra quei set abbandonati che una volta ospitarono un kolossal e ora sono ridotti a tristi scenografie bidimensionali che uno sbuffo di vento un po’ più serio farà venire giù.
In questo contesto beckettiano si svolge (comicamente, neanche fosse un momento di Giorni felici o Finale di partita) la nuova polemica tra vecchi e giovani. Qual è il rimprovero che i giovani intellettuali, in Italia, si sono sentiti fare nell’ultimo decennio da chi c’era prima di loro? I padri hanno accusato i figli – istericamente, paradossalmente, sembra notare Tricomi, a un certo punto più con pietà che con risentimento – di aver agito nel vuoto, cioè fuori dai fortini e dalle chiese ormai distrutte (i luoghi che avrebbero dovuto tenerli al riparo dalle bassezze contagiose del mondo dei consumi e dello spettacolo neocapitalistico) che quegli stessi padri non erano riusciti a difendere.
Accusare con violenza tuo figlio di non avanzare verso il futuro brandendo le belle bandiere che ti sei fatto soffiare sotto il naso (ma non potevi in realtà evitare che accadesse, tu eri solo e male armato a difendere il fortino, loro erano tanti, equipaggiati come un esercito) è ben tragico per entrambi. I padri così disperati da muovere un’accusa insensata. I figli così stupidi e pavidi da crederla legittima e rispondere gonfi di frustrazione sullo stesso piano retorico (che, appunto, è un falso terreno di confronto).
Come si può insomma pretendere, se il mondo è così cambiato da come appariva nel 1945 – e poi negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento –, che strategia e condotta e compiti quotidiani richiesti a chi lo abita adesso debbano essere gli stessi di allora? È questa impossibilità, forse (il trompe-l’œil di una porta falsamente spalancata), ad aver generato negli ultimi tempi tanta sofferenza sterile.
Eppure, nota Tricomi, persino in questo contesto disastrato, si continuano a scrivere ottimi libri, a girare ottimi film, a elaborare idee e tentativi coraggiosi di discesa in profondità, a non desistere dall’esercizio della critica, anche se non è più molto chiaro a chi siano indirizzate le nostre missive né quali effetti avranno.
Se però – e qui, nella cronaca della grande mutazione, ci sono finalmente piccole gemme di speranza concreta – si smette per un attimo di considerare il secondo Novecento (le sue illusorie garanzie) come metro di paragone, e si guarda la Storia da una visuale più ampia, ci si rende conto che nessuna speranza è mai perduta, da sempre.
Quale garanzia sul futuro (del proprio operato e della propria stessa vita) poteva avere Ungaretti mentre scriveva dal fronte, con la «congestione» delle mani di «un compagno massacrato» conficcate nel suo «silenzio»? A chi indirizzava queste missive? A che speranza potevano ragionevolmente consegnarsi Kafka nella sua stanzetta e Joyce esule volontario? Quali rassicurazioni su un avvenire di pace e civiltà, anche solo temporanee, poteva avere Walter Benjamin in fuga dalla polizia di frontiera? E Trakl? E prima ancora, molto prima, quale pazienza dovevano aver avuto gli amanuensi per evitare che il mondo classico venisse risucchiato definitivamente nell’oblio?
Se Cervantes concepì Don Chisciotte in carcere e Antonio Gramsci morì come sappiamo, con quale coraggio annunciamo la fine del mondo portando come prova il crollo del mercato editoriale o la revoca delle nostre tutele sindacali? I tempi sono duri, più di quanto fossero nel passato recente, non più di quanto siano sempre stati, e il nichilismo è come al solito un vicolo cieco e una manifestazione d’arroganza.
Ecco allora, evitando di cadere nel tranello di considerare il mondo nato ieri o l’altro ieri, che l’attività intellettuale torna a mostrarsi necessaria e sempre possibile. Connaturata all’uomo come esigenza e prerogativa di specie. E soprattutto irta di difficoltà. Quelle difficoltà e scomodità che, per circa un quarantennio, ci eravamo stupidamente illusi di aver lasciato fuori dalla porta.

Testo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/
[Immagine: Alfredo Jaar, Questions, Milano 2008 (gm)].

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