13 settembre 2014

Marineo nei ricordi di Mimmo Tuzzolino



        Pubblico  alcune pagine del libro di Mimmo Tuzzolino che si presenta oggi a Marineo.
          Colgo l'occasione per ringraziare l'amico fraterno Carlo Greco che ci ha permesso di stampare in anteprima altre pagine del diario di Mimmo nel n.5/2014 di nuova busambra. 
           Rimando inoltre alla breve nota dello stesso Carlo, pubblicata ieri, per una prima sommaria valutazione dell'opera del caro Maestro.



IL VILLAGGIO

            Riportare a galla  ricordi lontani non è cosa da nulla.
            Per far rinascere  tutta una folla di compaesani che fanno parte del passato, bisogna ricostruire l’ambiente in cui essi vissero e operarono.
            E’ l’ambiente che suscita il modo di essere di una certa comunità ed è quella comunità, nei suoi vari esponenti, che  riporta a galla lo scenario in cui si è realizzata.
In altro ambiente le reazioni degli attori acquisterebbero diverso sapore.
            Quindi se si vuole far rivivere una data comunità è necessario che si ridia vita all’ambiente in cui quella comunità è vissuta.
            Non si può pensare alla Marineo odierna, nel suo nuovo assetto urbanistico e nel moderno modo di vivere, per ridar vita alla comunità del passato.
            Fortunatamente, nel suo centro storico, in massima parte, Marineo è rimasta quella della mia infanzia. Allora il nostro paese era un quieto agglomerato di case che, dal centro alla periferia, divenivano sempre più basse.
            Ho ancora nella mente una parte del suo panorama.
In estate, la sera  tornavo a casa proveniente dalla Favarotta e, arrivato al campo comunale “lu Cumuni”, alle spalle della chiesetta di S. Ciro, improvvisamente tra le due Rocche, la maggiore a sinistra, con in cima la croce e la minore a destra, con la chiesa del Convento, mi appariva, nella penombra della sera, una fitta manciata di casette, dai comignoli delle quali, a quell’ora, uscivano tanti  esili fil di fumo che, andando verso il cielo si univano in un’unica colonna che  sembrava innalzare a Dio la preghiera della sera da parte del nostro “natio borgo selvaggio”come lo avrebbe definito Leopardi.
All’apparire di quella visione, mi fermavo per parecchi minuti estasiato e pensoso. ”Nella quiete della sera Marineo era attiva nell’impegno delle donne che preparavano  la cena per il ristoro dei  loro uomini, sfibrati dalla faticosa giornata nei campi.”
Oggi la presenza dell’attuale bosco, se da un canto offre un’altrettanta  emozionante visione, rende però impossibile rivivere l’emozione che provavo in quello stesso luogo tanti anni fa, perché gli alberi nascondono il quadretto che mi deliziava e  che a me era tanto caro.
Quello era allora per me un intenso momento di straordinaria suggestione.
            Da allora, Marineo è andata espandendosi fino a diventare una cittadina.
            Nel centro storico qualche casa si è alzata di un piano; le strade, prima molto dissestate, sono divenute rotabili, asfaltate e molto più pulite di prima. Allora avevano in permanenza un uniforme tappeto di concime, dovuto al continuo passaggio delle bestie da soma. Ora le bestie sono state sostituite dalle auto che non lasciano il concime, ma in compenso, avvelenano l’aria con i loro tubi di scappamento.
Prima, pur vivendo in mezzo al concime, respiravamo aria  meno inquinata.
            Per le strade era normale incontrare galline, pulcini e, talvolta, anche qualche tacchino.
            I maiali passeggiavano indisturbati dappertutto con passo lento e dignitoso e, quando erano di grosse proporzioni, qualche spirito bislacco, al loro passaggio, si levava il cappello in segno di saluto, dicendo che usare il nome di maiale come offesa era sbagliato, essendo queste creature più dignitose e oneste di molte persone di sua conoscenza.
Spesso i monelli  cavalcavano i maiali e li facevano correre fino a che non venivano disarcionati e buttati a terra.
I maiali, dopo essere stati alla ricerca di qualche boccone prelibato, la sera tornavano tranquillamente a casa.
Non ricordo di aver mai sentito parlare di furto di maiali. D’altra parte tale abigeato sarebbe stato impossibile per i forti grugniti che quest’ animale emette ad ogni tentativo di cattura.
Ho ancora vivi nella  mente i drammatici acuti emessi da essi quando, attraversando le vie del paese, legati con solide funi, venivano trascinati a forza di braccia al macello. Si può dire che fossero coscienti della loro fine e che implorassero a gran voce di ottenere la grazia della vita. Io provavo per essi grande compassione.
            Non c’era strada che, oltre al fango, non avesse un congruo numero di sassi di diverso calibro sparsi qua e là.
            La presenza di tutti quei sassi serviva  per dare la possibilità ai bambini più vivaci di fare a gara nel rompersi le teste e agli adulti di tirarli ai moltissimi cani randagi, quando si dimostravano minacciosi e mal disposti.
            Del centro storico di Marineo, anche se con delle piccole  differenze,  riconosco ancora perfettamente i connotati.
            Ma se mi allontano andando verso le periferie, allora  mi smarrisco e ho la sensazione di essere assolutamente estraneo, in un paese che mi è sconosciuto.
            Fuori dal centro storico, Marineo non è più la mia Marineo, il villaggio di un tempo lontano e non perché sia cambiata in peggio, ma solo perché la parte allora periferica si è rinnovata e la parte ora periferica non esisteva ancora.
            Per quanto riguarda gli abitanti, le generazioni che sono sopravvenute mi appaiono come composte da turisti di passaggio. Di tanto in tanto, sempre più di rado, incontro i volti consueti della prima parte della mia vita, quando risiedevo ancora nel mio paese
            Di alcuni giovani scopro a quale famiglia appartengono dai dati somatici che mi ricordano il volto del papà, della mamma o dei  nonni.
            Anche se i volti sono cambiati, ho potuto però constatare che lo spirito marinese si è conservato.
            Se voglio far rivivere la mia antica Marineo e riportare in vita  gli antichi abitanti, solitamente chiudo gli occhi e compio un ideale  giro per le vie di quella Marineo e, casa dopo casa, faccio il censimento dei compaesani di allora. E’ bello incontrare ancora quei visi conosciuti e familiari ora scomparsi dalla circolazione.
Marineo, nel numero degli abitanti, forse non è cresciuta ma nella superficie occupata è cresciuta  un bel po’ da quella che era settant’anni fa.
Come ho già detto, allora le case erano più alte nel centro storico e, a mano a mano che si andava in periferia, si abbassavano fino a diventare pianterreni soltanto.
Ora la periferia è formata da palazzoni alti fino a quattro, cinque piani.
            Nell’antica Marineo, le case del centro erano formate da tre piani:”Catoiu, cammara e tezzordini o terzordini ”(Piano terra, primo e secondo piano).
Andando verso la periferia scompariva il terzordine, le case si abbassavano di un piano e restavano il catoio e la camera; poi nelle estreme periferie scompariva anche la camera e restava il solo pianterreno.
            Nel pianterreno erano  comprese la stalla per “la vestia” e “lu solaru” cioè il soppalco che rendeva più capiente e più abitabile il locale.
Vicino alla stalla c’era la gabbia per l’alloggio notturno delle galline e talvolta anche  per quello dei conigli.
Un angolo era riservato alla cucina e comprendeva il forno che bisognava “camiare” per cuocervi il pane e un fornello nel quale, bruciando ” li ramagghi”, si metteva a scaldare una pentola o un tegame, spesso di terracotta, in cui si cuocevano i modesti cibi, allora consentiti dalla miseria dilagante.
Era la cena il momento solenne del pasto principale, quando tutta la famiglia si radunava, al ritorno della componente maschile dai lavori campestri.
Nel “catoio” si notavano “la pila” per il bucato e “lu pedi di la braciera” in cui si inseriva il braciere ricolmo di carbuneddu e ginìsi che, covando sotto la cenere, nelle sere d’inverno, scaldavano l’ambiente e le persone.
Le abitazioni, in grande maggioranza, erano povere stamberghe che abbondavano di fessure e ciò che rendeva uguali tutte le case era la presenza dei topi che costringeva gli abitanti a tenere perlomeno un gatto come difesa di legumi, granaglie ed altro dall’attacco dei roditori.
         Le “paglialore” occupavano la parte finale di tutte le vie periferiche. Ma una delle tante vie periferiche del paese in zona “Cozzo” era composta soltanto da “paglialore”. Non vi abitava neanche una famiglia, cosicché il Comune pensò di battezzarla “Via Anonima”. Non le diede neanche un nome, come se fosse figlia di nessuno. Avrebbero potuto chiamarla “Via delle Paglialore”
La ricordo perché, giovanissimo, fui ufficiale di censimento. Mi avevano dato l’elenco delle strade da censire e, quando mi imbattei in quella via, trassi un sospiro di sollievo perché non dovevo censire nessuno e, quindi, la saltai a pie’ pari.
         Le strade, man mano che ci si allontanava dal centro, erano sempre più dissestate.
            Quelle del centro erano  più o meno rotabili; le altre in gran parte erano percorribili solo dai pedoni e dalle bestie.
          Il fondo di tutte le strade era in terra battuta. Su questa si spargeva, quasi  annualmente, uno strato di “pirciali”, cioè di pietrisco prodotto da alcuni operai specializzati che a colpi di martello spezzavano le grosse pietre provenienti dalle cave
         Non c’era strada che fosse asfaltata. Solo la statale che, tagliando in due il paese, portava a Corleone. aveva un trattamento particolare
La statale saliva da S. Ciro alla Balata fino al monumento, poi raggiungeva la cosiddetta Piazza del Popolo, imboccava la via Umberto o “Strada Mastra” e, attraversato il Largo Catarinella, si immetteva nella ex “Via del Re” fino alla Cappella Vecchia.
A proposito della Via del Re, si chiamava così perché vi passava Re Ferdinando III quando andava a Ficuzza.
         Leggendo i libri di don Giuseppe Calderone ho appreso che il quartiere che sorge da un lato e dall’altro di tale via fu fatto costruire da quel re quando, nell’anno 1800, la frana distrusse il quartiere “S.Antonio Abate”, chiamato così, secondo le ricerche del prof. Nino Trentacosti, per la presenza di una chiesa dedicata a questo santo, la quale sorgeva dov’è ora il boschetto comunale.
            Le nuove case furono assegnate da quel re gratuitamente.
Quindi il nome di Via del Re aveva motivi seri e importanti. E secondo me non bisognava cambiarlo.
Semmai c’era da aggiungervi il nome di quel re, chiamando quella via: “Via Re Ferdinando III.”
Vedo invece che ora si chiama via Unità d’Italia. Nome che si sarebbe potuto dare a una delle migliori vie della nuova Marineo, senza cancellare con un tratto di penna una pagina di storia, purtroppo misconosciuta.
            Quando costruirono la “Variante”, il tratto di strada dal monumento alla Cappella Vecchia fu declassato da statale a comunale e subì la stessa sorte delle altre strade.
            Il pietrisco che veniva sparso sulle varie strade e stradine aveva il compito di non farci camminare sul fango e ci riusciva, ma non per molto tempo, perché all’arrivo delle piogge autunnali, il pietrisco, sotto il peso di passanti, carretti e bestie varie, sprofondava nel fango.
Durante l’inverno, poi, con l’aggiunta del concime che le bestie lasciavano cadere generosamente a terra, il fango si arricchiva di nuovo materiale plastico e il gioco era fatto: a sera le nostre scarpe erano uniformemente infangate e bisognose di amorevoli cure.
         Per quanto riguarda la rotabilità, moltissime strade erano dissestate,  piene di  sassi e, spesso,  vi affioravano addirittura dei massi  appartenenti alla Rocca su cui è costruito il nostro paese. Quindi di “rotabilità” non si parlava neanche.
 Basti dire che una delle strade si chiamava  via Rocchette. E’ l’ultima strada a sinistra andando su per l’ex via del Re. Era molto caratteristica per la presenza di queste rocce che sembrava galleggiassero sulla strada, così come la parte superiore degli iceberg affiora sul mare.
         Di questi galleggiamenti ce n’erano dappertutto.
            Era impensabile che delle auto potessero arrivare in tutti i punti del paese, proprio perché le strade non erano rotabili. Meno male che allora  gli autoveicoli erano quasi inesistenti.
            Per “i Morti”, andando al cimitero mi venne la curiosità di vedere se avesse tuttora quel nome, dato che le “rocchette” erano sparite del tutto.
Poiché all’inizio  della via non c’era alcuna indicazione, dovetti percorrerla fino all’altra estremità per trovare la targa. Lì la targa c’era , ma era meglio che non ci fosse, perché era stata intestata, non all’autore dell’Inno Nazionale, ma forse a qualche parente. L’autore dell’Inno si chiamava Mameli, ma non Giovanni come sta scritto sulla targa, bensì “Goffredo”.
Si vede che l’incaricato, nel suo elenco delle targhe da rinnovare, trovò scritto G. Mameli e pensò che per la “G.”, come nome, poteva scegliere tra Giovanni, Giuseppe, Giacomo o Giorgio. 
Giovanni  a lui suonava bene. Mille miglia lontano da lui pensare a “Goffredo”: a Marineo non ce n’è neppure uno che si chiami con questo nome. Senza pensarci due volte, con la sicumera tutta marinese,  di chi sa tutto e non ha bisogno di controllare, glielo appioppò.
Del resto nessuno ci fece caso, essendo la targa all’estrema periferia del paese, in una zona pochissimo trafficata. Poi l’importante è che ci sia Mameli  e MAMELI c’è!
 Infatti, per nominare “l’Inno Nazionale”, si dice l’Inno di Mameli e lì, al muro, Mameli c’è scritto! Il resto è assolutamente di secondaria importanza.
Questo fatto mi ricorda quella volta, una sessantina d’anni fa, che un altro addetto alla toponomastica del paese, in Piazza Duomo scrisse Piazza D’Uomo con tanto di apostrofo.
Lui queste cose le aveva imparate a scuola e sapeva dove bisogna mettere l’apostrofo. Per lui “ Duomo” non significava niente, invece d’Uomo aveva un senso.
 Quella volta, l’errore fu subito scoperta perché era al centro del paese; ora invece lì dov’è scritto Giovanni Mameli, non ci passa nessuno.
E poi, anche se qualcuno se ne accorge, è così preso dai propri pensieri, in questo periodo di crisi, che questo per lui non è assolutamente un problema.
            Ottant’anni fa, alcune strade più fortunate di altre, erano coperte di “ghiacatu”: pietre di media grandezza sistemate da esperti in un certo ordine.
L’“agghiacatatu”cioè la superficie sistemata con il “ghiacatu” consentiva un assetto migliore e le strade erano un po’ più belle e più  pulite delle altre.
Dove si incrociano le due vie più lunghe del paese, il Corso dei Mille in orizzontale  e la Via S. Antonino  in verticale, dividendo in quattro quartieri il Paese, c’era “lu lavinaru” formato da “balate” rese concave dagli scalpellini per favorire lo scorrere della “lavina” ed evitare le tracimazioni che avrebbero trasformato in fiume il tratto del Corso che va verso il castello. La lavina era il torrente che, durante le grandi piogge, scendeva dall’alto della Via S.Antonino e finiva al Crocifisso. dove  precipitava in un largo pozzetto coperto da una grata e si incanalava  verso il “Gorghillo” e poi verso la valle dell’Eleutero.
In quel punto del Corso, se c’era la lavina, per non bagnarsi i piedi, bisognava saltare e non c’era pietà per nessuno, giovane o vecchio. Non si riuscì ad escogitare nessun espediente per facilitare il passaggio.
Oggi c’è la fognatura in cui si incanalano le acque piovane, allora l’acqua che veniva giù dai tetti delle case si incanalava nella “canalata” di latta o di tegole e si riversava sulla strada sottostante.
In una strada così lunga come la via S.Antonino, l’acqua arrivava a formare un torrente robusto impossibile da guadare.
            Durante la guerra, con l’oscuramento, un mio amico che doveva andare giornalmente a prendere la corriera, nel buio più totale delle ore mattutine, quando doveva oltrepassare la lavina, cercava di stabilire quale fosse l’ubicazione precisa del corso d’acqua, ascoltando il rumore del torrente.
            Quando gli sembrava di essere sicuro di averlo stabilito, saltava per approdare sull’altra sponda ma, gli capitava quasi sempre di far male i calcoli e di atterrare sul bel mezzo della lavina.
            Alle cinque e mezzo di un  mattino d’inverno,  era il miglior modo di iniziare  la giornata, riempiendo l’aria di robuste parolacce.
            Nelle belle stagioni, la mancanza di automezzi circolanti favoriva il popolarsi delle strade da parte dei bambini di tutte le età che si sbizzarrivano, in piena libertà, a stimolare la loro fantasia,  inventando mille giochi diversi.  
Le strade brulicavano di vita, di poesia, ma anche di “cacche” varie che i bambini facevano dove e quando gli veniva. C’era solo l’accortezza di girare l’angolo e cercare una via meno frequentata. Ma era il massimo che si potesse ottenere.
In quel tempo nessuno ci faceva caso, tranne quel povero disgraziato a cui capitava l’inconveniente di metterci un piede sopra. Allora, l’incidente provocava una raffica di parolacce all’indirizzo dell’anonima genitrice dell’anonimo e innocente autore dell’improvvisata.
C’è però da dire che non tutte le case erano dotate di gabinetto con relativo w.c. e in periferia ancora ci si serviva del “cantaro”.
            I giocattoli in uso erano costruiti dagli stessi bambini col materiale povero a loro disposizione: il bastone della scopa era un focoso cavallo; un tovagliolo sapientemente arrotolato diveniva la bambola più bella.
         Anche i nonni, in età molto avanzata, quando non erano più in grado di andare in campagna amavano stare all’aperto.
 Seduti davanti la porta, passavano il tempo a guardare i nipotini che giocavano e a far da pacieri nelle inevitabili liti che di tanto in tanto scoppiavano tra di loro.
Le nonne facevano la calza. Nonni e nonne s’intrattenevano volentieri con i passanti e intavolavano lunghe e interessanti conversazioni vertenti sul comportamento di parenti, amici e conoscenti
            Ognuno trasmetteva le novità e le proprie esperienze. Quello era il “Tele Giornale della Strada” per mezzo del quale le notizie viaggiavano da un quartiere all’altro.
        La mattina presto, dappertutto, c’era un nutrito movimento di asini, muli, cavalli, capre e mucche che andavano sui campi; movimento che si ripeteva, in senso opposto,  la sera  quando si  tornava a casa.
            Questa Marineo  era il mio villaggio d’allora. Ed è in questo agglomerato di case, per quanto in parte modificato, che io amo tornare specialmente in questi ultimi tempi
            E’ piacevole ritrovare le proprie radici e, quando esco dalla città,  non ho alcun’altra meta da raggiungere che non sia la mia Marineo.
            In essa ci sto ancora bene! Mi dispiace soltanto che, giorno dopo giorno, vadano sparendo i miei coetanei e purtroppo anche alcuni molto meno anziani di me.  
            Nei momenti di solitudine, chiudendo gli occhi, rivedo  la prima parte della mia vita come in un film, per me interessante ed emozionante.
E’ la migliore trasmissione che nessun programma televisivo potrà mai offrirmi; un reality che  mi appassiona più di qualsiasi altra produzione cinematografica.

  I)- Commercio -  Arti e mestieri  


L’ ”abbanniata” degli ambulanti
            Quanti personaggi sono spariti dalla ribalta marinese!
            Dov’è finito il canto dei tanti venditori ambulanti che usavano un motivo particolare a seconda della merce che vendevano? A volte sembrava la preghiera del muezzin dall’alto del minareto.
            Oggi i venditori di frutta e verdura passano col camion o si piazzano in un posto fisso ed hanno a bordo tutte  le specialità dell’ orto-frutta.
            Anche se vogliono non possono nominare tutta la merce.
            Io ricordo con piacere gli ambulanti estivi che vendevano frutta e verdura. Erano quelli che mi svegliavano la mattina nel periodo delle vacanze.
In quegli anni ogni ambulante aveva un solo tipo di merce e girava per tutto il paese.  Di solito venivano da Misilmeri o da altri paesi del circondario, usando come mezzo di locomozione un simpatico e paziente asinello.
            Il siciliano usato da essi non era il marinese, differiva in qualche sfumatura.
 Per esempio, quello che vendeva il pomidoro ad ogni angolo di strada gridava:”Pi saissa e pi ‘nsalata pumaruoooruuu!  E usava una certa musica che era diversa da quello di chi portava le zucchine cantando:”I tinnirumi e ri cucuuuzziii!”
            Per le albicocche  si annunciava:”U minnularu cu l’ossa ruuuciii!”.
C’era anche colui che ci diceva: “Haiu i milinciani niiivuriii!”. Le tunisine non esistevano ancora
            Alcune particolari susine erano: “Rapparini, rappi raaappiii.!” E “Pruna i cuoriiii!
            A questi canti mattutini, seguivano, nel pomeriggio, quelli di ragazzini locali che vendevano i mazzetti di verdura annunziando “I finocchi di la Russedda o di Marosa!” E anche:”Haiu la cicoria tennira!”, “Giri e scalora!”,
E l’elenco potrebbe continuare.
Per ogni merce si usava un motivetto.
            Era un succedersi di motivi musicali diversi tra loro. Anche a non capire le parole, la musica ti diceva chiaramente qual era la merce che vendeva l’ambulante di passaggio.
Tutti questi canti che si susseguivano mi rallegravano perché io li sentivo solo durante le vacanze estive ed erano queste le musiche che mi svegliavano ricordandomi ogni mattina che non c’era da andare a scuola perché era scoppiata l’estate.
 E allora anch’io, gridando, annunziavo al mondo: “E’ arrivata l’estateeeee!”
             Oltre agli ambulanti estivi, in ogni stagione c’era una schiera di venditori delle più svariate mercanzie che annunziavano, cantando, la vendita di: stoffe, casalinghi, detersivi che in quell’epoca si limitavano alla lisciva e alle “pietre fumicie” (la pomice), mentre il sapone per la biancheria, quello che sembrava marmellata di cotogne, si comprava sfuso nei piccoli negozi che fiorivano in ogni quartiere.

*          Aveva il suo motivetto anche  il “conza lemmi” quello che riparava i recipienti di terracotta: “ Lemmi, spirlonghi, quartari, bummari, baccaruna, e giarri”.
Di questo non capii mai  le parole che  diceva, ma la sua musica era inconfondibile ed era chiaro a tutti che stava  passando il ”conza lemmi”.
Per chi non lo sapesse, quando non era nata la plastica, “lemmi e limmiteddi” erano le bacinelle di terracotta smaltata che, se si spaccavano e non erano andate in mille pezzi, il conza lemmi ricuciva pazientemente, bucando con un suo speciale arnese da un lato e dall’altro i pezzi rotti e, attraverso i forellini, passava un finissimo fil di ferro che poi ricopriva con un miracoloso mastice che ripristinava la funzionalità del recipiente.
Lo stesso avveniva per gli “spirlonghi”, gli antichi piatti ovali e capienti che oggi qua e là arredano le pareti con i loro disegni eseguiti magistralmente in mille modi diversi.
Quartari, baccaruna e bummari erano i recipienti più o meno capienti, con cui si attingeva l’acqua alle fontanelle sparse per i vari quartieri. “Li giarri” erano e ancora sono, dove non ancora sostituite dai cilindri di acciaio inossidabile, i contenitori per l’olio,
 Il conzalemmi era  il personaggio della “Giara” di Pirandello, la novella  che si trova in quasi tutte le antologie scolastiche e che poi fu realizzata in un film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Chi non l’ha letta, vada a leggerla.
            A Marineo l’ultimo “conza lemmi” fu un mio vicino di casa.    
            Quando avevo cinque o sei anni, assieme a un suo nipotino,  frequentavo la sua stamberga.
            Un giorno, dopo aver giocato con la terra, assieme al mio amico entrammo a casa del vecchio zio che mangiava“giri e fave a bozza”, pescandoli con le mani, da   una grossa pentola di terra cotta smaltata
            Vedendoci entrare ci invitò a partecipare al suo pranzo e il mio amico accettò senza farselo dire due volte.
            Io ebbi un minimo di tentennamento, ma poi accettai pure con vero piacere.
            Era un quadretto evangelico in cui tutti pescavamo nella stessa pentola e noi piccoli contribuivamo ad arricchire e a vitaminizzare il tutto lasciando nell’acqua di cottura un po’ del fango  con cui avevamo giocato fino a un minuto prima.
            Poiché era l’ora di pranzo, i miei mi cercarono e mi sorpresero in fragranza di  reato.  Dopo aver salutato e ringraziato il padrone di casa mi portarono via, mi lavarono dalla testa ai piedi e mi riempirono di lezioni d’igiene che mi uscirono da tutti i pori e di cui in quel momento avrei fatto volentieri a meno.

*           Continuando nella ricerca dei mestieri scomparsi o che si sono ridimensionati, ricordo quel signore che girava per tutto il paese vendendo i foglietti della fortuna che un pappagallino in gabbia tirava su col becco, uno alla volta, da una cassettina dov’erano riposti.
            Era “l’annivinavintura (colui che indovina la ventura, la buona fortuna).
            Anche lui aveva un suo modo di cantare per annunziare il suo passaggio.
Erano le donne quelle che acquistavano il foglietto. Con una certa ansia lo  leggevano o, dato l’alto tasso di analfabetismo, se lo facevano leggere da chi sapeva “la littra”. Dal foglietto attendevano notizie incoraggianti circa il prossimo futuro, per se stesse e per la famiglia. Era un momento importante.
Il foglietto aveva sempre tono incoraggiante e prevedeva la “vintura”, cioè la buona fortuna.
Anche se poi sbagliava le previsioni, quel foglietto era sempre il benvenuto, perché nel momento in cui lo si leggeva creava un’atmosfera incoraggiante e di buon auspicio.
            Le ragazze sospiravano aspettando notizie che riguardavano le loro segrete speranze d’amore.

*          Avete mai sentito parlare dell’”uvaru” il compratore di uova che girava per il paese, di  casa in casa, avvertendo le massaie del suo passaggio con un suo particolare grido? “Cu aaavi uovaaa?”.
            Erano mestieri che passavano da padre in figlio. Ora, di certo, i discendenti di questa gente saranno stati costretti a cambiare mestiere.            
           
*          Un altro mestiere scomparso è quello del capraio.
La mattina, tutti i giorni dell’anno, il centro storico veniva pacificamente invaso da un esercito di capre dai mantelli che variavano dal nero più intenso al bianco più candido, con in mezzo tutte le variazioni e composizioni.
      Erano i cinque o sei caprai ufficiali del borgo che giravano silenziosamente per le vie centrali, soffermandosi davanti all’uscio dei propri clienti e lì, davanti agli interessati che porgevano loro i recipienti più disparati,  mungevano il latte fresco e tiepido prodotto dalle loro mansuete caprette, che ubbidienti e immobili lasciavano che il latte passasse dalle loro mammelle alle tazze, caffettiere o tegamini di varie dimensioni fornite dai clienti che da decenni si servivano dallo stesso capraio.
      I caprai, come il Buon Pastore, erano persone pazienti e affettuose Mungevano le mammelle delle capre alternativamente con abilità e ritmo e il latte così spremuto andava riempiendo i recipienti, coperto da una sofficissima schiuma che provocava in chi stava a guardare il desiderio di trangugiare al più presto quel prodotto genuino e sincero, senza altri condimenti aggiuntivi.
      Ogni capraio aveva un gregge di una ventina di bestie, ognuna delle quali aveva un suo nome. Esse conoscevano perfettamente il padrone e le consorelle e non succedeva mai che, qualcuna, incrociandosi con le altre piccole greggi, per distrazione o per errore, lasciasse il proprio drappello per andarsene nell’altro di un capraio concorrente.
      Il capraio chiamava e carezzava le bestiole che, a turno, favorivano con il loro quieto comportamento il lavoro del loro affettuoso padrone.
      I clienti usavano sempre gli stessi recipienti la cui capacità era stimata ad occhio dal capraio e ognuno pagava secondo tale stima.
      Non sentii mai che ci fosse discordanza tra capraio e cliente.
      L’invasione del centro storico da parte delle caprette durava al massimo un paio d’ore e in quei momenti il nostro villaggio sembrava far parte di un grande presepio
      Di quattro, sui cinque caprai, ancora ricordo il nome: furono i signori Calcara, Benanti, Fragale, Valenti. Del quinto il nome non lo ricordo, ma ho la sua foto impressa nella mia memoria. Era un bell’uomo tra i sessanta e i settanta, alto e robusto, dai candidi capelli. Egli mi incuriosiva sempre essendo, in quel tempo, l’unico uomo da me incontrato fornito di un bel paio di orecchini d’oro.
      Allora era una vera singolarità;  oggi non farebbe impressione.
      Anche questo, come quelli dei personaggi prima ricordati, era un  mestiere che passava da padre in figlio.
      I discendenti di queste persone sono stati costretti a cambiar mestiere.

*          Per quanto riguarda i negozi, qua e là c’erano delle bottegucce (le putie) che vendevano un po’ di tutto e altre che erano specializzate.
  Alla fine degli anni ’20, un coltivatore diretto, “lu zzu Ciru, aveva accumulato qualche soldo e, avendo uno spirito imprenditoriale, aveva aperto una specie di salumeria, elevandosi così  nella scala  sociale.  Automaticamente lu “zzu” Ciru fu promosso  a “su Cciru”
Il passaggio da “zzu”a “su””era determinante. “Su” era come se gli si dicesse”signor”.
Egli cominciò col vendere il salame o “fellata”; i  formaggi: (provola,  caciocavallo,  pecorino,  ricotta salata); vendeva anche le sarde salate, pigiate in un capiente barilotto di legno e  dei filetti di sgombro all’olio, posti in una latta e che si vendevano sfusi, avvolti in un foglio di carta oleata. C’era anche dello  scatolame.
Mi dicevano gli anziani che all’inizio non aveva la mortadella e i clienti gliela chiedevano fino al punto che lu su Cciru se ne fece portare una piccolina dalla città.
            Il problema venne quando arrivò il primo cliente che gli chiese duecento grammi di mortadella.
            Il povero su Cciru non sapeva da dove cominciare perché le affettatrici erano di là da venire; il salame lo affettava facilmente, ma la mortadella era più grossa e somigliava più alla provola che al salame.
Lu su Cciru tagliò la mortadella come se fosse provola. Ne fece un unico pezzo.
            Il cliente protestò dicendo che la mortadella bisognava tagliarla in fettine sottili.
            A questo punto l’ex agricoltore si difese dicendo: “Scusami, ma a la fini lu stomacu la vidi com’era tagghiata la murtatella? ‘Nca manciatilla e nun ci pinzari cchiù!”
            Certamente lu su Cciru sarà stato costretto a prendere lezioni di taglio della mortadella e chissà quante difficoltà avrà dovuto superare.
 Io conobbi lu su Cciru quand’era già decrepito e il figlio era divenuto un provetto salumiere che tagliava la mortadella in maniera ineccepibile.
 C’era anche il negozio che vendeva solo pasta e la vendeva sfusa. Il negozietto era pieno di cassoni e cassetti in cui erano riposti parecchi tipi di pasta corta o lunga e la si vendeva a cominciare dai cento grammi in su. Ricordo che si usavano anche i pesi antichi, usati sotto i Borboni e aboliti dallo Stato Italiano:  un “rotolo “ equivaleva ad ottocento grammi,  “mezzo rotolo” a  quattrocento grammi;“tri unzi “(tre once), se non ricordo male erano duecento grammi e “tri unzi e menza” erano l’equivalente di un quarto di chilo,.
            Per quanto riguarda la pasta, questa veniva consumata solo da un numero ridotto di famiglie che la compravano giorno per giorno.
            Io, ragazzino, andavo a comprarla e a casa mi fornivano una  “cuffitedda” di paglia intrecciata  a forma di barca, con due manici; lunga mezzo metro, in modo che i fili di pasta lunga non si spezzassero,
            Il negozio della pasta era a una certa distanza  da casa mia e io dovevo percorrere con la “cuffitedda” un bel po’ di strada che aveva il fondo in terra battuta, come del resto tutte le altre strade che oltre la polvere, ricevevano il concime di  centinaia di animali da soma.
            Non era difficile che a noi ragazzini,  di tanto in tanto, sfuggisse di mano uno dei manici e  facessimo cadere  la pasta per terra. Noi però ormai  eravamo edotti: si raccoglieva con delicatezza filo per filo la pasta e si riponeva nella “cuffitedda” senza provocare così alcun dramma circa inutili  discorsi di igiene ed accuse di aver la testa per aria.
 I nostri genitori ignari  mangiavano pasta con un po’ di polvere e di concime. Del resto, pensavamo, gli  eventuali  microbi sarebbero stati uccisi dall’acqua bollente
           Il negozio di pasta era attrezzato con una bilancia speciale a due piatti in rame: un piatto piccolo e robusto serviva per i pesi; l’altro rettangolare con i due laterali più lunghi a forma di muretto, per non far cadere ls pasta e gli altri due laterali liberi.
      Noi ragazzi notavamo che sul piatto dei pesi c’era posato sempre qualche peso. Ci dicevano: “Per non far guastare la bilancia” Ma noi pensavamo che in questo modo non si poteva notare  se la bilancia fosse squilibrata.
      Questo metodo non era usato solo del pastaio, ma anche dagli altri negozianti . Può darsi che avessero ragione
      Diceva un certo politico:”A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina”
        Eravamo indotti ad esser guardinghi per la penuria di soldi.
        Per tale penuria i nostri giochi non costavano nulla ed erano frutto della nostra inventiva.
     Tra i ragazzi, quelli che pagavano di più la crisi erano i figli dei braccianti che venivano impiegati fin da piccolissimi a far dei lavoretti che li  impegnavano per tutta la giornata e  questo per qualche soldo
      A quella crisi si unì la guerra per cui,  anche i ragazzi che non  eravamo  schiavizzati, dovemmo abituarci a una vita di stenti e di rinunce.
     Speriamo che la crisi attuale non  faccia assaggiare ai nostri giovani quello che noi anziani abbiamo già conosciuto nella nostra infanzia e giovinezza.
    
Anche lo zucchero si vendeva sfuso e lo si trovava o raffinato o in pezzi  duri che poi dovevano essere raffinati nel mortaio di rame.
      Ricordo che mio padre mi raccomandava sempre di prenderlo in pietra  perché quello raffinato poteva essere frutto di  magagne.
            Si vendevano i prodotti sfusi perché la gente, pensava che i contenitori avevano un peso e noi  avremmo pagato a peso d’oro la carta degli involti.
      Anche i pesci, di pessima qualità perché erano a buon mercato, erano pesati sulla nuda bilancia e poi avvolti in fogli di vecchi giornali     Era la perenne crisi economica in cui eravamo immersi che ci costringeva a  queste precauzioni che denotavano la totale mancanza di fiducia nel prossimo
      Anche gli artigiani compravano sfusi i prodotti che servivano al loro lavoro,
            Mia  zia aveva la merceria e gli artigiani andavano a comprare in piccole dosi i chiodi di tutte le dimensioni ; il  fil di ferro  e gli aghi di tutte le misure.
            Ogni artigiano comprava lo stretto necessario per ciò che doveva realizzare perché non possedeva mai tanto denaro per potere  accumulare in casa la merce che occorreva al suo lavoro.
            Nelle cartelle di noi ragazzi, oltre al libro di lettura e al sussidiario, c’erano  soltanto un quaderno a righe e uno a quadretti. Altri due quaderni li davamo al maestro, che li chiudeva in un armadietto e servivano per eseguire i compiti in classe..
            Io sono nato nel 1929, e ho appreso che in quell’anno  scoppiò una crisi  economica simile a questa; iniziata, come questa, negli Stati Uniti e che poi, come un’epidemia,  coinvolse tutto il mondo.
Allora, poiché ci sono nato, ho dovuto accettare l’aria che tirava e  non   mi   sono   neanche   accorto   che  c’era  la crisi . D’altro canto mancavano le televisioni  e le radio   che     ci avrebbero informati dei fatti che avvenivano. Questo abituò la mia generazione a fare a meno di mille cose che oggi sembrano indispensabili.
          Con tutta la crisi i bambini giocavamo soddisfatti per le piccole cose che riuscivamo ad avere e che non costavano niente.
    Poi scoppiò  la   guerra, a cui non eravamo abituati e che    fu    una    crisi peggiore; quella l’avvertimmo   perché   arrivò   a   mancarci    il     necessario e l’indispensabile.
           Fu un momento veramente terribile per piccoli e grandi.
            Per quanto riguarda la crisi odierna, speriamo  che tutto si risolva nel migliore dei modi.
















B) – Gli artigiani
           
Dice il vocabolario Zingarelli che “è artigiano chi esercità un’attività produttiva senza uso di macchine”.
            Quelli che hanno dovuto ridimensionare il loro lavoro adeguandosi al progresso tecnologico, allora sono  semi-artigiani
            Era un piacere e uno spettacolo veder lavorare gli artigiani. Le loro mani  operavano miracoli di bravura. Il gruppo degli artigiani puri si è assottigliato, perché è difficile trovare qualcuno che non usi alcun aggeggio mosso dall’elettricità, per rendere più facile il proprio lavoro.

*          Prima di sparire completamente, i sarti  per uomo, in paese, erano un piccolo drappello che dopo aver seguito in città dei corsi di specializzazione di cui mostravano i diplomi conseguiti, incorniciati e bene esposti, aprivano bottega e accoglievano un bel gruppetto di apprendisti sia maschi che femmine a cui insegnavano l’arte.
Tra gli apprendisti, i maschi, pochi, erano avviati alla professione; le ragazze, un bel gruppetto, invece frequentavano per conseguire la capacità di confezionare almeno un paio di pantaloni da lavoro o di rammendare gli abiti usurati, in vista della vita matrimoniale in cui tale capacità diveniva uno dei cespiti per sostenere la famiglia.
I sarti confezionavano qualsiasi tipo di abiti, partendo dalla stoffa che, come consistenza e colore, si poteva scegliere dai loro cataloghi
Credo che le sarte per donna resistano ancora  lavorando allo stesso modo delle colleghe di un tempo.
Gli apprendisti del sarto, maschi e femmine,  si diceva che andavano “a lu mastru”. Le apprendiste, tutte donne, che frequentavano le sartorie femminili andavano “alla mastra”.
Oggi, anche se le sarte continuano a lavorare, sono in numero molto ridotto e anche le apprendiste si contano in pochissime unità e stanno per sparire.
            Il fatto è che oggi è facilissimo trovare, nei negozi specializzati, i vestiti già confezionati, per cui si risparmia tempo e denaro.

*          I fabbri, ottant’anni fa erano capaci di costruire qualsiasi cosa  fosse di metallo.
            Oltre agli arnesi piccoli e grandi per l’agricoltura, zappe zappette, aratri a doppio vomere, aratri a punta, falci, falcetti etc., erano in grado di produrre chiavi di tutte le dimensioni con relative serrature.
Poiché erano pure maniscalchi  cambiavano i ferri, da essi stessi prodotti, a cavalli,  muli ed asini
            Non c’era fabbro che non fosse pure maniscalco.
            Se qualcuno avesse fatto solo il maniscalco ora, poiché le bestie da soma sono state sostituite dagli automezzi, sarebbe costretto a fare il gommista e, invece di ferri sostituirebbe pneumatici.
            I maniscalchi, oltre al cambio dei ferri, erano in grado, in mancanza del veterinario, di suggerire rimedi vari per i cavalli malati.
Oggi i cavalli continuano a vivere nella pancia delle macchine.
Ogni motore ne ha un certo numero e la cura di essi viene demandata al meccanico che sostituisce il veterinario.
            Nella bottega del fabbro il ferro si scaldava nella forgia in cui bruciava il carbon fossile e il fuoco veniva ravvivato dal grande mantice che si azionava a mano.
            Io ebbi la ventura di abitare  di fronte a due fratelli fabbri. Mi piaceva vederli lavorare e spesso, volendo collaborare alla loro fatica, azionavo il mantice e , nei pomeriggi d’inverno trovavo  gradevole stare al calduccio della fucina e nello stesso tempo seguire la trasformazione delle barre di ferro in mille oggetti diversi
            La barra di ferro usciva incandescente dalla forgia, veniva posta sull’incudine e trasformata a martellate nell’oggetto che il fabbro aveva in programma di fabbricare.
Aveva del miracoloso quel lavoro. In poco tempo. e con straordinaria abilità il rozzo pezzo di ferro assumeva la forma a cui lo costringevano la bravura, la forza e la volontà ferrea (qui è proprio il caso di dirlo) dell’artigiano.
            Oggi alcuni arnesi non si usano più, altri sono prodotti in apposite fabbriche con speciali macchinari.
            I fabbri esistono ancora, ma non fanno i lavori di prima anche se sono convinto che, con un po’ di esercizio, sarebbero ancora in grado di farli.

*          Anche per i falegnami è valido lo stesso discorso. Ora sono molto aiutati dalle nuove .attrezzature che facilitano la lavorazione del legno; ma prima era un lavoro immane quello di segare i tronchi degli alberi per ricavarne assi con i quali costruire mobili, madie, porte di varie dimensioni e tutto ciò che, fatto di legno, serviva nelle case per la vita delle famiglie.

*          Molte volte il falegname era anche bottaio, colui  che costruiva, riparava e ripuliva le botti per il vino. A me pare che i bottai siano spariti. Quando pulivano le botti, raccoglievano la feccia e l’asciugavano al sole, riempiendo l’aria circostante di un odore assai acre, pungente e  penetrante.             Dalla feccia si ricava il tannino che serve come “mordente” cioè come sostanza che aiuta  a fissare i colori sulle fibre, a incidere i metalli e a conciare le pelli per le calzature.
            I bottai smontavano le botti togliendo i cerchi di metallo e liberando le doghe e i due timpani per pulirli. Dopo la pulitura rimontavano il tutto.
            Altro materiale che contiene il tannino sono le foglie delle piante di sommacco che cresce  un po’ dappertutto, specialmente nei terreni brulli.
            Ora, poiché il tannino è stato sostituito da altri composti chimici, non è più richiesto. Per cui sia la feccia che il sommacco non si vendono più.
            Quand’ero bambino, in autunno si mieteva il sommacco e si stendeva in paese davanti alle case dei proprietari del sommacco. Il paese si trasformava in una sorta di infiorata monotona, tutta verde.
            Per i bambini era una festa perché ci era consentito buttarci sopra quella specie di materasso morbido sul quale ci esibivamo in esercizi ginnici vari; era un vero divertimento. Il paese si trasformava in palestra. aperta a tutti.
   
     *     I lavoratori della scarpa si distinguono in :
      - calzolai se producono scarpe di tutti i tipi e di tutte le misure: questi sono completamente spariti;
      - ciabattini se soltanto riparano le scarpe: questi in misura esigua esistono ancora.
            I calzolai, sul deschetto avevano tutti gli utensili e col cuoio e i vari tipi di pelle erano in grado di produrre sia gli scarponi  per la campagna con la suola e i tacchi pieni di speciali chiodi (li tacci = borchie o brocche) che li difendevano dall’usura, sia le eleganti scarpine da passeggio per uomo, per donna e per bambini.
            I calzolai,  nelle stagioni clementi, mettevano il deschetto o “bancareddu” davanti la porta e tenevano qualche sedia per gli avventori che, chiacchierando, facevano passare loro piacevolmente un po’ di tempo.
            Anche questi erano punti di diffusione delle notizie e degli avvenimenti
           
*          Anche i muratori hanno dovuto aggiornarsi, passando dalle costruzioni in pietre e travi di legno, a quelle in cemento armato. Ed ora hanno l’ausilio di un’ attrezzatura moderna che facilita il loro lavoro.

C )  -Gli Spettacoli

 - L’opra dei pupi
            Ogni anno, in inverno, un puparo si piazzava per mesi in un capiente pianterreno del centro storico e vi montava un piccolo palcoscenico dove, con la modica spesa di quattro soldi, trattabili,  anno dopo anno, chi voleva poteva assistere alla rappresentazione dei Pupi di legno.
            Questi interpretavano le gesta dei cavalieri dell’antica Canzone di Orlando o le peripezie di Fioravanti e Rizzieri o di Santa Genoveffa ed altre storie, tutte ben conosciute dagli affezionati che le rivedevano sempre con lo stesso piacere e con le stesse emozioni.
            La parte più noiosa era quella in cui Carlo Magno, re dei Franchi convocava tutti i paladini, suoi vassalli ed esponeva, in un’approssimativa lingua italiana, il suo piano d’azione per contrastare i saraceni. Era un lungo monologo che richiedeva molta pazienza da parte del pubblico.
            Noi bambini amavamo le scene movimentate. Ma anche gli spettatori  adulti le preferivano.
            Il pubblico partecipava all’azione scenica gridando dalla platea al “paladino” in pericolo: “Accura! Accura!” avvertendolo di una minaccia o di un tranello.
            C’era chi arrivava a vedere la paura e i cambiamenti del colore del viso in un guerriero saraceno che incontrava il valoroso Orlando e gridava: “Talè com’aggiarnià”.
            E nessuno badava al fatto che uno dei personaggi si esprimesse in modo bislacco dicendo: “Vedo un castello che a me s’avvicina”
All’Opra dei pupi  tutto poteva  accadere e  tutto era concesso..
Il pubblico fremeva durante le grandi battaglie tra cristiani e saraceni, quando il palco si riempiva di cataste di pupi uccisi e dove, alla fine, immancabilmente vincevano i nostri, cioè i cristiani
            Non parliamo poi delle forti  e pesanti parolacce all’indirizzo di “Cane” (Gano) di Magonza, il traditore del prode Orlando a cui causò la morte in battaglia, favorendo un tranello tra le strette gole dei Monti di Roncisvalle.
            Era tale l’odio che gli spettatori provavano per tale personaggio che, quando  litigavano tra loro, si affibbiavano a vicenda quell’aborrito nome come la peggiore offesa: “Tu si un Cani di Maonza”
          I pupi saraceni si riconoscevano sia per il caratteristico abbigliamento, sia per le pesanti parolacce e certe volte anche le bestemmie che scappavano loro di bocca quando ricevevano un fendente. Ai cristiani questo non succedeva mai! 
            Purtroppo c’era anche il momento della tragedia. Quello del tradimento di Gano e della morte di Orlando
            Molte volte il puparo dovette rimandare per più di una sera la morte di Orlando a Roncisvalle e dovette allungare la storia, perché bisognava preparare l’animo degli spettatori a un fatto così drammatico.
            Orlando era troppo amato dalla totalità degli spettatori; oggi si direbbe che eravamo tutti suoi fans.
            Ho ancora nelle orecchie il suono della pianola che aveva due o tre sequenze musicali che facevano da colonna sonora e che si alternavano secondo le scene presentate
            La storia dei Paladini mi piaceva, ma da bambino aspettavo, in coda  allo spettacolo, la farsa di Virticchiu e Nofriu che, con le loro battute in dialetto, mi facevano sbellicare dalle risa.
            Oggi, per poter rivedere tali opere di grande valore culturale, bisogna andare a ricercarle, con difficoltà, in città come Palermo e Catania, dove, nel centro storico c’è ancora qualche locale che continua la tradizione molto apprezzata più dai turisti che dai siciliani.
            Per avere un’idea del valore di tale tradizione, basta dire che una delle menti più lucide della nostra isola, il professore di filosofia Fortunato Pasqualino di Caltagirone, assieme alla moglie americana girarono per tutta l’Europa facendo conoscere l’Opera dei Pupi e riscuotendo valide adesioni da parte dell’alta cultura dei paesi visitati.
            Ritengo utile aggiungere che Fortunato Pasqualino era un giovane bracciante agricolo che andava a giornata nei campi e che, da autodidatta, presentandosi agli esami da esterno a Catania, ebbe la capacità di laurearsi in Lettere e Filosofia.
            Scrisse alcuni libri tra i quali “Mio padre Adamo”, opera autobiografica. in cui sottolinea il dovere di ciascuno di maturare una sapienza vera. A proposito di ciò, presenta un suo zio che aveva la mania di affastellare notizie su notizie che ingombravano il suo cervello. Ed egli dice: “Mio zio sapeva tutto, ma nient’altro!”
            Fu più volte  intervistato nei programmi della nascente televisione, riscuotendo notevoli apprezzamenti; ed, essendo un cattolico intelligente, fu ricevuto anche dal Papa del tempo: egli cattolico assieme alla moglie protestante.
            E’ una persona da non dimenticare.
X -       In questi giorni,  mi perviene notizia che a Marineo è di nuovo arrivata “l’Opra dei Pupi”. Avevo concluso il capitoletto dicendo che in Sicilia non è del tutto sparita e che quei pochi locali che ancora continuano a tener viva questa importante tradizione ne hanno elevato di molto il livello culturale.
            Ebbene Marineo ha la fortuna di avere un “puparo” di eccezionale valore.
            Ero già  a conoscenza che Onofrio Sanicola, marinese doc, che conosco fin da quando era bambino e che avevo imparato a stimare come personaggio interessante, aveva intrapreso questa iniziativa, ma non pensavo affatto che venisse tra noi a portare tale ventata di ossigeno culturale.
            Lo pensavo  altrove, in zone lontane da noi. Sapere che sia tornato  nel suo paese natale a regalarci il frutto della sua intelligenza, inventiva e, originalità che lo fanno “vero marinese” è stata per me una bellissima novità.
            Mi riprometto di godere le sue performances e spero che la vecchiaia, con tutti gli annessi e connessi mi permetta di realizzare questo mio legittimo desiderio.
            Intanto, da “patriarca”,  gli auguro ogni successo e ogni bene.

I teatranti
*          Oltre all”Opra dei Pupi” venivano anche  i teatranti, famiglie di attori, che nel teatrino dell’edificio scolastico rappresentavano, così come potevano, opere teatrali anche di alto profilo come l’Amleto, l’Otello, la Cavalleria Rusticana.
Io, da bambino, non le apprezzavo; mentre invece gradivo moltissimo San Giovanni Decollato e altre commedie di Martoglio che mi facevano ridere.
            Soldi ne giravano pochi e la gente non è che facesse la coda per vedere gli spettacoli di cui abbiamo parlato.
            Quando gli affari non andavano bene, il capo comico della compagnia pregava qualche personalità paesana di voler “proteggere” lo spettacolo.
            Il che significava che quel tizio che aveva questa  gatta da pelare girava di casa in casa a proporre l’acquisto di biglietti per la famiglia con delle riduzioni e così assicurava agli attori, almeno per uno spettacolo, un congruo numero di spettatori.
            I capi famiglia, il più delle volte, accettavano l’invito, pur senza molto entusiasmo, poiché quei soldi in uscita non erano previsti dal bilancio familiare.
            Qualsiasi tipo di spettacolo si concludeva con la farsa perché la gente voleva tornare a casa con qualcosa che le elevasse l’umore.



I funamboli
*Molto raramente arrivavano anche  i funamboli che nella gremitissima “Piazza del Popolo o Piazza Arc. Inglima”, tra due balconi del secondo piano che si fronteggiano, legavano un robusto filo d’acciaio ed eseguivano alcuni esercizi che facevano rabbrividire gli spettatori e li tenevano col fiato sospeso. 
Alla fine raccoglievano le libere offerte della gente. Gli spettacoli si ripetevano per alcune sere.
         Una sera, quando avevo sette anni, capitai in mezzo a un gruppo di monelli di serie A. 
            Questi avevano un parente che abitava nella grande piazza dove si esibivano i funamboli.  Mi invitarono a salire con loro al secondo piano della casa del loro parente.
            A me sembrò una grande fortuna poter assistere allo spettacolo dall’alto; quindi accettai volentieri l’invito.
            Essi però avevano un loro piano segreto di cui mi nascosero l’esistenza.
Ci affacciammo ad un balconcino e constatai che i miei amici entravano e uscivano dalla stanza senza apparente motivo.
            Sul più bello dello spettacolo, quando la gente stava con la faccia assorta e trepidante rivolta in su per seguire gli esercizi dei funamboli, uno dei tre  bricconi rientrò e subito tornò fuori portando in mano un involto confezionato con carta di giornale.  Con grande maestria  lo lanciò con tutta la sua forza  verso il centro della piazza.
            Lascio immaginare ai lettori cosa contenesse l’involto: vi dico solo che non furono fiori profumati, ma materiale proveniente dalla digestione delle tre canaglie.
Per quanto piccolo capii al volo l’impresa di quegli sciagurati ed entrai precipitosamente dentro casa seguito da quei lazzaroni che lungi dall’essere mortificati per la loro bravata si torcevano per le risate nella stanza buia.
            L’unico ad essere preoccupato per ciò che avevano fatto fui soltanto io che mi affrettai a scendere al piano terra e ad uscire da quella casa in cui avevo assistito, innocente, ad un misfatto da me non  condiviso e che ancora oggi, al solo ricordo, scuote il mio sistema nervoso.

Il circo
            Di tanto in tanto arrivava anche un approssimativo circo equestre che esibiva dei numeri  nei quali si cimentavano vecchi circensi giunti alla fine della loro carriera:  cavallerizzi,  trapezisti, equilibristi , clown.
Di solito  montavano una tenda al Crocifisso, ma fino ai primissimi  anni trenta, si adattavano a eseguire i loro numeri anche dentro il fondaco dei carrettieri.
In questo caso, per gli spettatori, nelle mangiatoie si inserivano delle sedie e le mangiatoie divenivano palchi. Per aumentare il numero dei posti, davanti alle mangiatoie venivano sistemate delle panche.
            A Palermo i circhi importanti si piazzavano dentro il teatro Politeama che ha  tutta una serie di palchi sovrapposti e, dai palchi, gli spettatori usavano i binocoli data la lontananza dalla pista centrale.
            A Marineo, ad imitazione di quanto avveniva al Politeama, lo spettacolo diveniva comico quando don Nicola Trentacosti, anziano buontempone,  proprietario del mulino in piazza Castello, si piazzava dentro il palco--mangiatoia del fondaco e assisteva allo spettacolo che si svolgeva a un paio di metri di distanza, sfoderando un binocolo e facendo finta di usarlo per vedere meglio le varie esibizioni.
Era uno spettacolo nello spettacolo La gente rideva più con lui che con i clown.




Il cinema

           Il teatrino dell’edificio scolastico, per un po’ di tempo, fu pure adibito a cinema. 
            Io, da bambino, ricordo di aver visto delle vecchissime pellicole seduto accanto a mia madre. Mi viene in mente il titolo di un vecchio e pesante film sulla guerra tra Russia e Ukraina: “Taras Bulba”, eroe degli Ukraini. Era una pagina di storia in cui si combatteva continuamente
Durante i brani drammatici, poiché non sostenevo le scene più forti, reclinavo la testa e chiudevo gli occhi. Ero comunque in trepidante attesa per la proiezione finale, poiché anche il cinema, come il teatro, concludeva lo spettacolo con qualcosa di comico come i cartoni animati, allora grande novità, che esilaravano gli spettatori o qualche corto metraggio interpretato da attori comici alla Stanlio e Ollio.
Io, che durante il film mi  addormentavo, venivo svegliato da mia madre per poterne godere la simpatica visione. Gli spettacoli dovevano sempre finire con la farsa.

I caffè (Bar)
*          In paese  esistevano due “caffè” (ancora non si chiamavano bar):- il “Caffè D’Amore”, allora ubicato in Corso Vittorio Emanuele, vicino al fondaco e- il “Caffè Italia”, sulla Piazza Arciprete Inglima.
Avevano delle macchine per il caffè espresso veramente monumentali e luccicanti, ma caffè ne facevano pochini; solo quelli per gli affezionati.
Vendevano anche qualche pasticcino e delle gazzose al limone e al caffè.
Tenevano anche un paio di tavolini e delle sedie per consentire ai clienti di potersi giocare le consumazioni alla scopa o allo scopone. Intorno ai tavoli, oltre ai giocatori,  sostava sempre qualche cliente e tra una partita e l’altra si  discuteva di tutto e su tutti.
             Il Caffè Italia mi ricorda un brutto episodio, per fortuna, a lieto fine. Avevo sei anni, quando alcuni miei amici ebbero in regalo dal padre l’unica bicicletta per bambini esistente in tutto il paese.
            Si giocava in Piazza Inglima che è un piano inclinato. I padroni della bici partivano dalla parte alta della piazza e si fermavano in basso davanti al Caffè Italia.
            Io non avevo mai provato ma, a vedere quegli amici che si divertivano, ebbi un gran desiderio di provare. Essendo tutti bambini, a nessuno venne in mente che con un principiante bisognava cominciare a provare in pianura. 
            Veramente quei ragazzi non erano d’accordo che io affrontassi il battesimo ciclistico; ma alle mie reiterate preghiere si  intenerirono e mi fecero montare sul sellino, senza neanche dirmi che c’erano i freni e come si usassero.
            Montai sulla bici nella parte alta della piazza e mi lasciarono andare diretto giù verso il Caffè Italia. Ero contento per il fatto che sapevo tenere  bene l’equilibrio, ma in pochi secondi mi trovai davanti il marciapiedi del Caffè Italia. Logicamente non frenai perché non sapevo neanche che ci fossero i freni.
            La ruota anteriore andò a sbattere violentemente contro lo scalino del marciapiedi e io volai facendo una capriola e, in  posizione rotante, entrai dentro il caffè che fortunatamente aveva la porta aperta e atterrai addosso ad un robusto signore che stava seduto e che, involontariamente, mi salvò la vita. Tutti e due non avemmo  nessuna conseguenza per l’impatto.
            Ricordo che ero così piccolo che tutto mi sembrò normale e logico e non ebbi alcuna emozione. L’unica cosa che mi dispiacque fu il vedere la bicicletta con la ruota anteriore a forma di otto e il sentire il padre dei miei amici che li rimproverava aspramente e li condannava a non rivedere mai più quel tesoro di bicicletta.
A casa mia non seppero mai niente. Mi  avrebbero ridotto la libertà.

D )-  L’agricoltura:
Era, molto più di oggi, la principale risorsa del villaggio.
Finora abbiamo parlato di alcuni mestieri e professioni in auge nel mio villaggio di settant’anni fa. Io non sono in possesso di dati che abbiano basi statistiche serie, ma ad occhio e croce valuto che non più del 20% della popolazione possa essere stato impegnato in tali lavori. Di questo 20% la maggior parte si dedicava all’artigianato; c’era uno sparuto gruppo di professionisti  tra medici, farmacisti, geometri, insegnanti elementari e di scuola materna, impiegati municipali, esattoriali, del dazio e  dell’ex Stato di Marineo. Quest’ultimi riscuotevano il pagamento dell’enfiteusi dei terreni di proprietà dei discendenti dei Signori del Castello. Infine, un gruppetto era formato dai commercianti di generi vari.
            Del rimanente 80% della popolazione, la parte femminile si dedicava ai lavori casalinghi, la parte maschile lavorava nel campo dell’agricoltura o come coltivatore diretto o come bracciante a giornata o come mezzadro.
            Tra i comuni vicini, Marineo era ed è il più povero come territorio, per cui buona parte dei nostri agricoltori lavorava nei territori di Misilmeri, Bolognetta, S.Cristina Gela, Piana degli Albanesi , Cefalà Diana e perfino la lontana Monreale.
            I contadini marinesi coltivavano, nella stragrande maggioranza il grano, la vite e l’ulivo. Non avevano propensione per la frutta e gli ortaggi che in paese venivano venduti in maggior parte dai Misilmeresi, molto attivi invece in queste colture
Non è che i Marinesi .non sapessero coltivare fretta e verdura, il guaio è che il marinese, al contrario dei Misilmeresi non ha alcuna propensione al commercio spicciolo r non sa andare in giro per le strade a vendere  la roba.
            Le donne partecipavano ai lavori campestri soltanto al momento dei raccolti; così intervenivano nella vendemmia, nella raccolta delle olive  e nella trebbiatura del grano sulle aie, specialmente nel momento della crivellatura,
Quando dico donne parlo di quelle sposate o comunque che avessero raggiunto una certa età. Le ragazze non partecipavano a tali lavori che le avrebbero tenute esposte agli sguardi indiscreti dei maschi di tutte le età e questo sarebbe stato veramente sconveniente.
            Il grano
Era la coltura più diffusa nei terreni dei marinesi.
            Il terreno era arato con  gli aratri di vario tipo, tirati dalle bestie da soma e diretti dai contadini
            Aratri ce n’erano di due tipi: uno detto a punta e l’alro chianato voltorecchio, in cui si poteva girare il vomere a destra o a sinistra, secondo le esigenzee dell’aratura.
            Erano anche detti monovomeri  o polivomeri a seconda che avessero uno o più vomeri.
\           All’aratura seguiva la semina , di solito, a spaglio e poi, sempre con l’aratro, la copertura dei chicchi all’interno dei solchi.
            Quando il grano germogliava e la piantina si elevava di una spanna, bisognava liberare il campo dalle erbacce perchè crescesse indisturbato solo il grano.
            A Giugno, la pianta aveva gia messo la spiga che il sole aveva maturato ed era l’ora della mietitura; cioè del taglio degli steli mediante la falce. Si formavano i covoni: i grossi fasci di spighe che ora bisognava trebbiare.
Il verbo trebbiare significa: liberare i chicchi dalla pula e dalla paglia. La paglia è formata dagli steli, mentre la pula è la pellicola che protegge il seme di grano e che termina in una sorta di ago o spina che in siciliano chiamiamo “resca”.
Non è il verbo trebbiare che derivi dalla parola trebbiatrice, ma è piuttosto il nome trebbiatrice che deriva dal verbo trebbiare.
Settanta e più anni fa si videro le prime rare trebbiatrici, ma gli agricoltori per molti anni ancora fecero da sé e trebbiarono il grano nell’ aia (in siciliano “aria”)
L’aia è uno spazio di terra battuta, liberato dalle pietre, largo una quarantina di metri quadrati
E’ lì che, dopo la mietitura e dopo alcuni giorni di esposizione dei covoni al sole perché le spighe ben seccate potessero facilmente sbriciolarsi, gli agricoltori, con l’aiuto di muli e cavalli, trebbiavano le spighe che si sgretolavano sotto le dure zampe delle bestie da soma.
Quando si pensava che fosse giunto il momento opportuno, si portavano i covoni sull’aia e, liberando dal  legame le spighe, le si sparpagliavano  per tutta la superficie dell’aia.
Si otteneva una specie di grande materasso su cui far trottare le bestie per compiere la trebbiatura. Le bestie abilitate per tale lavoro erano i muli e i cavalli. Gli asini ne erano dispensati.
Colui che aveva l’incarico di dirigere il lavoro, si poneva al centro dell’aia e usando una o due bestie che prendeva per le redini, dava il via alla danza campestre.
Di tanto in tanto, per stimolare il trotto degli animali, cantava ad alta voce delle speciali nenie le cui parole venivano composte là per là ed erano dirette alle bestie come messaggi di sprone e anche di compiacimento per l’ìmpegno nel compimento del lavoro. Era un piacere ascoltarle. Sapevano di canti  arabeschi.
Per ottenere il passaggio degli animali su tutte le spighe, il contadino allungava o accorciava le redini perché il giro venisse più o meno ampio.
Intanto i collaboratori  con il tridente (tradenta) di legno spostavano le spighe in modo che fossero tutte sbriciolate dal calpestio degli animali al trotto.
Quando la trebbiatura era completata si spostava il materiale trebbiato verso il centro dell’aia e, dopo aver constatato la presenza di un soffio di venticello, con i tridenti lo si lanciava per aria controvento.
Poiché i chicchi di grano sono  pesanti, ricadevano subito in verticale a terra, mentre paglia e pula volavano per qualche metro e atterravano ai confini dell’aia.
Era la spagliata. Ora entravano in ballo le donne con i crivelli nei quali il frumento veniva scosso  e ripulito da eventuali semini estranei o dal  terriccio e quindi riposto nei sacchi che caricati sulle bestie avrebbe preso la via di casa.
A Marineo c’era un posto speciale dove questo lavoro diveniva una festa campestre.
Era “lu Cumuni”. Oggi “Boschetto comunale” e secoli fa “Quartiere Crocifisso” o “S:Antonio Abate”, azzerato nell’anno 1800 da una terribile frana che fece crollare tutti i fabbricati ivi esistenti. Testardamente ricostruito, dopo qualche decennio, subì una seconda definitiva distruzione.
Il Comune (da cui il nome di “Cununi”) della zona su cui sorgeva il quartiere scomparso, fece un frazionamento e a richiesta, affidò a chi li richiedeva degli spazi da adibire a  letamai per il deposito del concime che si ricavava dalla pulizia delle stalle.
In estate, al momento della trebbiatura, ogni assegnatario della propria concimaia, la trasformava in aia per la trebbiatura.
In Luglio e Agosto, chi passava da quelle parti godeva lo spettacolo di decine di girotondi fatti da muli e cavalli che trebbiavano il grano e sentiva veleggiare per l’aria cori di canti che spronavano le bestie nel loro ritmo di danza.
Allora i passanti, abituati a tali spettacoli, non li calcolavano, ma oggi sarebbero motivo di grande godimento, perché erano occasioni in cui il lavoro diveniva un delizioso momento d’arte.
Ricordo che c’erano vari tipi di grano e gli agricoltori sapevano quale usare in relazione ai terreni; oggi molte specie di grano sono scomparse.
Ricordo che una delle specie di grano duro molto diffusa era la cosidetta “tumminia” che si seminava in marzo, anziché  a novembre, perché aveva una celere maturazione. In tempo di guerra la usavamo anche tostata come surrogato del caffè.
           Diceva Giuseppe Schiera “Di quant’avi ca lu Re è puru re d’Albania, scumparì lu cafè e vivemu tumminia.”
            Altri tipi erano “lu giganti russu” e “lu birì”, per il grano duro; “la maiorca” e “la pacenzia” per il grano tenero.
L’olio d’oliva
            I frantoi della mia infanzia erano già in parte elettrificati, Infatti le due grosse ruote di pietra che schiacciavano le olive giravano spinte dall’energia elettrica, mentre fino a pochi anni prima erano mosse da un mulo o da un asino. 
            Quando le olive erano ridotte in pasta oleosa, questa veniva messa dentro le”coffe”, speciali borse rotonde costruite con corde intrecciate.
Le “coffe” ripiene di pasta, una sull’altra, si ponevano in colonna dentro lu “strincituri”, che ne poteva contenere anche una decina.
Sulla pila di “coffe” sovrapposte si faceva scendere un pesante rettangolo di metallo  che attraverso tutta un’attrezzatura, lungo una robusta vite messa in verticale, obbligava il grosso peso a schiacciare le “coffe” da cui fuorusciva il prezioso succo delle olive:cioè acqua e olio.
Il blocco che gravava sulle coffe si abbassava non in virtù dell’energia elettrica, ma grazie allo sforzo immane  dei “trappitari” che, in coppia, spingendo con le spalle, giravano attorno allo “strincituri”  e provocavano l’avvitamento e la discesa del blocco sulle “coffe” con la relativa fuoriuscita del liquido. composto da olio e acqua.
            Il liquido scolava dentro un pozzetto nel quale l’acqua andava verso il fondo e l’olio, più leggero, restava  a galla.
            Questo lavoretto che ho raccontato in poche parole, durava ore e ore
            L’olio veniva messo dentro gli otri di pelle di pecora, e caricato sulle spalle degli addetti ai lavori che lo portavano al domicilio dei vari proprietari delle olive e lo versavano nelle giare di terracotta.
In paese, per le strade, era un via vai di “trappitari” con sulle spalle l’otre pieno d’olio che sembrava un maiale uscito dal macello e a me provocava un certo brivido
 Allora non esisteva nessun marchingegno che, in virtù della forza centrifuga, separasse ben bene l’olio dall’acqua. Approfittando di questo, il proprietario del frantoio, l’acqua, in cui era rimasto qualche rimasuglio di olio, la raccoglieva in una vasca chiamata (non si sa perché) “purgatorio, 
            Nel “purgatorio” quel po’ di olio che rimaneva nell’acqua, a poco a poco andava  salendo a galla e, un po’ oggi, un po’ domani, alla fine della campagna olearia, il “purgatorio” conteneva una buona quantità di olio.
            Qualcuno pensava che al miscuglio d’acqua e olio contenuto nel pozzetto non si desse il tempo necessario per una buona decantazione e, sotto sotto si accusavano le aziende di versare nel “purgatorio” acqua con un’eccessiva  quantità ’olio. Ma, per amore di pace, si lasciava correre.
            In paese eravamo tutti amici e scherzando, ogni tanto ad un nostro amico, proprietario di frantoio, ripetevamo;”Si dice che dal “Purgatorio si passi in Paradiso, ma abbiamo l’impressione che tu a forza di frequentare il “purgatorio”, andrai a finire all’inferno.”
            Era un semplice sfottò che il nostro amico accettava volentieri.
            La stagione olearia, nei vecchi frantoi, durava alcuni mesi e si lavorava giorno e notte impiegando alcune squadre di operai.
            Ciò che restava dentro le coffe dopo la spremitura era formato dalle pellicine e dagli ossi delle olive.e il tutto si chiamava “nozzulu” o sanza.
            Questo materiale il proprietario del frantoio lo vendeva a speciali ditte che, con appositi macchinari, dopo particolari procedimenti, riuscivano a tirar fuori dal  “nozzulu” ancora dell’olio.
            Questo si vendeva come olio di seconda scelta:”Olio di sanza”. 
            A quei tempi l’olio d’oliva si vendeva facilmente.
Purtroppo, un bel giorno, il progresso ci fece conoscere l’ esistenza dell’olio di semi che, in grande quantità, invase i negozi di alimentari ad un prezzo molto inferiore a quello dell’olio d’oliva.
            A qualche contadino, (scarpe grosse e cervello fino), venne fuori l’idea che questo tipo di olio, prima sconosciuto, era molto limpido e si poteva senz’altro mescolare a quello d’oliva, ottenendo disonesti, ma facili guadagni.

            Il gioco durò un po’ e sarebbe durato a lungo se, gli acquirenti non avessero avuto un palato molto sensibile e capace di distinguere il sapore antico da quello moderno.
            Improvvisamente il commercio dell’olio si bloccò e, coloro che avevano bisogno di comprare l’olio per tutta l’annata, andarono a comprarlo direttamente ai frantoi, dove lo vedevano uscire puro e senza inganno.
            Da allora i produttori, fuori dal frantoio, hanno serie difficoltà nella vendita.
            Fu come per il peccato originale. Tutto si è guastato e si è persa la fiducia nel commercio dell’olio d’oliva. Grazie ai furbi.
            Prima o poi tutte le furberie si pagano e il guaio è che si fanno pagara anche a chi non ha alcuna colpa.
            Ancora oggi il mercato dell’olio è semiparalizzato  a causa di quella bravata che ha danneggiato irreparabilmente il rapporto fiduciario tra produttore e consumatore.


Il vino

“Marinè sutta la Rocca, abbunnanti di vinu e scarsu d’acqua”
            Per anni fu il biglietto da visita del nostro paese.
I Marinesi eravamo celebri per essere ottimi produttori di ottimo vino.
Anch’io, fin da piccolo, vissi in mezzo alla vigna. E, fin da piccolo, sentii dire che “Vigna “ era uguale a “Tigna” che tradotto in linguaggio più semplice suona cosi: “ come avere la tigna procura molto fastidio, altrettanto fastidio provoca il possedere una vigna.”
A quel tempo, non c’erano i trattori né le motozappe, per cui bisognava scritturare un gruppo di braccianti per la coltivazione del vigneto.
Ricordo di aver visto questa fila di zappatori che partendo dal basso, tutti con lo stesso ritmo, avanzavano fino al raggiungimento del confine superiore.
Poi se ne tornavano giù e ricominciavano a zappare la striscia di terreno posta accanto a quella già  coltivata. e questo, logicamente, per tutta la vigna.
Oltre la zappa, ogni bracciante aveva, legata al cinto “la rasola”, un aggeggio, fabbricato come la zappa dai nostri fabbri, che serviva per ripulire la zappa specialmente quando la  terra umida per recenti piogge vi si appiccicava.
Settant’anni fa, pur essendo la paga dei vignaioli molto modesta, quasi da essere vergognosa, la vendita del vino prodotto da un vigneto  bastava quasi appena a pagare le spese
Bisognava essere coltivatori diretti  per poter ottenere qualche utile dal possesso di una vigna.
I braccianti che venivano a coltivare il terreno erano sempre gli stessi, tanto che io  conoscevo sia loro che le famiglie e con i loro figlioli eravamo amici.
Erano tempi molto tristi e la povertà la si toccava con mano dovunque ti voltassi.
A teatro le farse erano sempre basate sui sotterfugi che bisognava mettere in pratica per poter superare i continui bisogni fondamentali, onde mettere insieme il pranzo con la cena.Ricordo che, tra i braccianti, uno era particolarmente pieno di humour.
Un giorno, parlando della cena che avrebbe trovato a casa, mi disse che lui aveva consigliato alla moglie di preparargli una pietanza di pesce e letteralmente le disse in ottimo siciliano: “Senti, stasira vulissi manciari pisci, allura tu si oggi nni vennu, pisci, si nun nni vennu, lassi iri”. A dieci anni circa fui in grado di capire perfettamente lo spirito della battuta e come vedete la ricordo ancora perché mi fece ridere a crepapelle.
 Veramente, cu ddi lustri di luna” c’era poco da ridere. Meno male che, provvidenzialmente, madre natura,  nei momenti difficili, suggerisce delle reazioni che attutiscono la pesantezza della vita.
La coltivazione della vigna si ripeteva due o tre volte ed erano sempre momenti di sospiri e di tristezza. In verità si era poveri tutti: lavoratori e datori di lavoro.
Alla coltivazione, succedeva la potatura che ogni proprietario era in grado di fare da solo e poi la “mpupatura, cioè il legame dei tralci a un “pupo” cioè a un palo per evitare che i grappoli finissero per terra.
Poi c’era lo spargimento dello zolfo sui grappoli, per evitare alcune malattie tipiche dell’uva. come la “peronospora”.
La vendemmia, però finalmente, era un sicuro momento di allegria.
Quel giorno era un gruppetto di donne di mezza età che con i panieri in mano passavano da una vite all’altra spogliandole dai loro grappoli che, per alcuni mesi, le avevano adornate.
Con le donne veniva convocato anche un uomo che portava con se il mulo sul quale caricava “li varrili” pieni d’uva e li andava a scaricare in un nostro magazzino che era attrezzato per il “estaggio”dell’uva.
A fine vendemmia, due operai entravano dentro il “palmento”, una specie di vasca in cemento, elevata circa un metro dal suolo, dentro cui era stata versata tutta l’uva. I pigiatori  cominciavano una danza sui grappoli che provocava lo schiacciamento degli acini dai tanti colori. Per evitare gli scivoloni, si tenevano a due funi che penzolavano dal soffitto
Il mosto, attraverso un buco nel pavimento del palmento, passava in un capiente tino, dal quale si prelevava e si passava dentro le botti già precedentemente pulite e disinfettate con la bruciatura degli zolfanelli.
Praticamente si impiegava tutta una giornata e forse qualcosa in più, a seconda delle annate.
Il giorno della vendemmia era l’unico nel quale era permessa la partecipazione delle ragazze ai lavori campestri. Era giorno di festa e di allegria e soprattutto era usanza, per cui in quell’occasione la presenza delle ragazze in aperta campagna, non produceva danni al loro onore.
Per ottenere un maggior contenuto alcoolico nel vino, in un angolo del magazzino, una grande caldaia piena di mosto era posta su un tripode sotto il quale ardevano dei robusti ciocchi. Il mosto ribolliva e spandeva per l’aria quell’ “aspro odor dei vini” che secondo Carducci, nella poesia S.Martino,” va l’animo a rallegrar”.
La bollitura del mosto provocava una tale evaporazione che il liquido si restringeva in una sostanza densa e dolcissima.
Tale sostanza era purissimo fruttosio. Esso veniva aggiunto al mosto delle botti e intensificava la gradazione zuccherina e quindi alcoolica  del vino nuovo.
Un po’ di quel fruttosio si portava a casa per fare dei dolci tipici “li mustazzoli” che si ottenevano dall’impasto della farina con il fruttosio dell’uva.
Sono dolci di cui ricordo ancora il sapore, ma che non gusto più da quando ero bambino.
Si portava a casa anche qualche bottiglia di mosto purissimo che si mescolava ad una certa percentuale  di alcool  etilico.  Dopo qualche giorno diveniva un delizioso liquore nel quale si intingevano i biscotti di S.Martino. Era il “Calamo”.
Anche il vino nuovo avremmo gustato in occasione della prossima festa di  S. Martino che a quel tempo non veniva mai ignorata.
            La vigna, croce e delizia di mio padre, era stata piantata da suo padre, il mio nonno Girolamo o”don Cilormu”
            A casa mia c’era una botticella di un centinaio di litri che conteneva uno specialissimo vino:”il perpetuo”.
            L’aveva riempita di vino vecchio mio nonno in occasione della nascita di mio padre.
            Il vino di quella botticella si beveva soltanto nelle grandi occasioni o si donava a particolari amici per particolari ricorrenze.
            Ogni anno, prima mio nonno e poi mio padre versavano nella botticella la quantità di vino che era stata sottratta nel corso dell’anno precedente,  cosicché quel recipiente era sempre pieno e il vino non si esauriva mai. Ecco perché “perpetuo”!
Avevo appena dodici anni quando, per vecchiaia, quella vigna fu spiantata e il terreno mutato in “seminativo”.
            Per mio padre fu la fine di tutto un romanzo che portava con sé una grande quantità di ricordi lieti e tristi e nelle cui ultime pagine, contemporaneamente, si riverberava soprattutto la sofferenza nel vedersi rapire da un impietoso male la compagna della sua vita, mia madre, che proprio quell’anno veniva a mancare a lui e ai suoi figli.
            Il cambio di cultura, dalla vite al grano, in quella campagna fu il segno di una particolare attenzione da parte della Provvidenza che ci diede la possibilità di potere attingere al mucchietto di grano prodotto dal terreno dell’ex vigna, per avere il pane necessario durante la guerra e nel dopoguerra, senza di cui la nostra esistenza avrebbe avuto un sapore molto più amaro.


































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