Marzabotto 29
settembre 1944. Parla una sopravvissuta alla strage: “Per i
tedeschi non eravamo persone ma bestie, piante, polvere”
Michele Smargiassi
Ritorno a
Marzabotto
«E tu, quanti?».
Come ogni anno davanti a questo altare sbrecciato ci si rinfresca
la memoria: «Io cinque, e tu?», «Io sette». Non sono i figli.
Neppure i nipoti. Sono i morti ammazzati. I passi di Tina van da
soli, fra questi ruderi. Da settanta dei suoi ottantasei anni
viene a trovarli, i suoi fantasmi, su questo calvario di
settecentosettanta cristi in croce che si chiama Monte Sole, nome
splendente di una storia buia. Gli italiani la conoscono, ammesso
che la ricordino ancora, come “la strage di Marzabotto”, ma a
Marzabotto non accadde quasi niente, quel 29 settembre 1944.
«Marzabotto è il paese dove ogni anno mettono i banchi di mortadella e i politici pronunciano il loro bla-bla di circostanza», mormora Tina, «i nostri morti sono quassù». Passeggiamo sullo sterrato verso Casaglia. Sui pendii galleggiano i ruderi di sasso delle case bruciate, delle chiese fatte esplodere coi fedeli dentro. «La nostra Pompei», scrive un vecchio partigiano, Francesco Berti Arnoaldi. Com’è vero. Una colata di lava sanguigna seppellì tutto, qui, lasciando la pace disabitata delle pietre. «Ecco, qui spararono alla Vittoria, perché non voleva camminare, era paralitica...
Questa croce di
ferro... Qui fucilarono don Ubaldo Marchionni». Sull’altare,
come Thomas Becket. Aveva appena ingoiato tutte le ostie
consacrate, per proteggere col suo corpo almeno Cristo. Un
cagnolino da tartufi guizza da chissà dove, cerca il padrone.
«Qualcosa di vivo, finalmente... Solo le lumache fanno compagnia
ai morti». Furono centoquindici massacri che in una settimana
fecero il grande massacro. È un trekking, oggi, il golgota dei
contadini. Prendi la mappa giù al centro visitatori, tra boyscout
in gita e famigliole al picnic, calchi i passi delle SS di Walter
Reder, 16esima Panzergrenadier-Division , vieni su dalla valle del
Setta o da quella del Reno, su su fino al crinale, e ogni cento
passi trovi una lapide, una croce.
«Qui sono morti tre
dei miei cinque: zia Maria, le cugine Dirce e Marisa». Tina Lera
Bugané non c’era, nei giorni dell’apocalisse. Abitava a
Serravalle Scrivia, Alessandria, con papà che costruiva la prima
autostrada d’Italia. Una lontananza che le è pesata, che
sublimò vent’anni dopo, diventata redattrice di riviste,
romanzando le storie di famiglia in un libro, Sole nero a
Casaglia. «Pensi che eravamo noi, là, ad aver paura, dicevano:
gli Alleati sbarcano in Liguria, arriva la guerra...». E i
parenti rimasti qui le scrivevano preoccupati: «Torna da noi...
Qui sei al sicuro...». Sì, certo, sull’Appennino bolognese il
fronte vero era vicino. Linea Gotica. Gli americani poco più su.
Lampi nel cielo di notte. Bombe sulla ferrovia. Ma come immaginare
l’inimmaginabile, visto che i tedeschi già da mesi bussavano
alle porte, cercando i partigiani, e «a donne, bambini e vecchi
non avevano mai fatto nulla». Quel giorno, invece, qualcuno capì
che il vento era cambiato. «Ma questo glielo racconta mio cugino
Lillo. Lui c’era. Aveva quattordici anni».
Scendiamo a Gardelletta. Lillo Bugané è appena tornato a casa dalla dialisi. È un po’ frastornato, ma ricorda tutto. «Si vedeva il fumo. I tedeschi vengon su, bruciano le case!», i suoi occhi chiari li vedono ancora. Scappare, ma dove? Dove si è abituati ad andare, tutte le domeniche: lungo il sentiero medievale dell’Enfialugo, quello coi cippi antichi, su fino a Casaglia, alla chiesa parrocchiale di San Michele. Il 29 settembre è il suo giorno, il giorno dell’angelo custode, ci custodirà. Una cappella di pochi metri quadri, bastano poche decine di persone per stiparla, «in chiesa non ci faranno nulla ». Ma Lillo ha paura, mica di morire, no, «paura che i tedeschi mi prendano per portarmi in Germania». E allora, la mamma gli grida dal sagrato «Lillo vieni dentro!» ma lui in un secondo prende la decisione, «mi volto indietro e corro nel bosco», la voce gli si rompe, «io sono vivo perché ho disobbedito a mia madre».
Nascosto fra querce e
larici, vede tutto. La pattuglia che scardina la porta della
chiesa, fa uscire tutti facendo il verso beffardo che si fa ai
maiali, «brrr! brrr!», la colonna di donne vecchi bambini
avviata verso il cimitero, appena cento metri, ecco, saltano anche
i cancelli del camposanto, tutti in fila lungo il muro, la
mitragliatrice montata, i colpi... Lillo non va più avanti, ora
piange come il ragazzino terrorizzato che era.
Eccolo, il cimitero di Casaglia. C’è la tomba di don Giuseppe Dossetti, “l’onorevole di Dio”, il monaco che riconsacrò Monte Sole. Ci sono poche vecchie croci di ferro. Qualcuna mostra ancora i fori dei proiettili. «Volevano uccidere anche i morti...». Sono fori bassi. Ad altezza di bambino. «Volevo tornare a cercare la mamma», si riprende Lillo, «lì in quel mucchio di morti. Ma i tedeschi non se ne andavano. Ho girato due giorni nei boschi. Poi ho preso un camion che andava a Firenze», piange ancora. Sì, Lillo, basta, basta così.
«Forse, fossero scappati tutti nei boschi... disperdendosi, come Lillo...», si chiede Tina. «Ma credevano nell’inviolabilità della Chiesa. Rimasero tutti assieme e facilitarono il lavoro ai tedeschi». Scrisse con triste sintesi una delle sentenze dei processi del dopoguerra: “Rimase chi credeva di essere protetto dalla propria debolezza”. O magari dai partigiani. Ma loro avevano già perso la partita, fin dalla mattina. All’alba i tedeschi avevano sorpreso e ammazzato a Cadotto il Lupo, il capo della brigata Stella Rossa. Qualcuno dice: avevano fatto festa la sera prima, erano certi che gli americani stessero arrivando, che fosse ormai finita. Chissà. Di certo, in quei giorni non ci fu nessun vero combattimento. Solo massacro, che i partigiani ormai sbandati guardarono attoniti dalla cima di Monte Sole, poche centinaia di metri più su di Casaglia, impreparati e impotenti di fronte a una guerra fatta così.
Perché non fecero un
tentativo disperato? È la domanda che da settant’anni infiamma
le polemiche fra le due narrazioni rivali del martirio, quella
partigiana-comunista che rivendica la lotta impari, e quella
cattolica che li accusa di aver attirato l’ira dei tedeschi per
poi lasciar sola la popolazione coi suoi sacerdoti. Ma ormai si
sa, che cosa vennero a fare i tedeschi. Di andare a stanare
ribelli armati uno per uno, nei boschi, sul loro terreno, non
avevano la minima intenzione. Il piano di Reder era chiaro,
lucido, razionale.
Era “guerra
sterminazionista”, come l’hanno definita gli storici Luca
Baldissara e Paolo Pezzino nel libro Il massacro. L’ordine era:
fare terra bruciata attorno ai partigiani. Case, cibo, persone,
distruggere tutto. L’obiettivo, primario e anzi unico, erano i
civili. Tutti i civili indifferentemente. Il massacro di Monte
Sole non fu un’eruzione inspiegabile di bestialità, di “male
assoluto”, non fu un crudele inutile irrazionale supplemento
alla guerra: era la guerra. Era la guerra ai civili, la guerra
inventata dal Novecento, la guerra che non punta a sconfiggere il
nemico, vuole annientarlo, la stessa guerra che continua a
seminare, nel mondo, anche oggi, la domanda agghiacciante: «E tu,
quanti?».
A Monte Sole niente follia disumana, ma genocidio militarmente pianificato. Auschwitz sull’Appennino. La lapide nel sacrario, giù a Marzabotto, celebra le vittime «dell’amor di patria», ma di quale patria erano mai patrioti i settecentosettanta abitanti di questa prua di rocce e boschi, mondo di storia lenta, di uova sotto la cenere e mele sotto il letto? Vittime senza neppure la ricompensa dell’eroismo, scrive Tina nel suo romanzo, «morirono l’uno sull’altro, senza nessun motivo che li inorgoglisse per il sacrificio », senza nomi di condottieri o di ideali da gridare, solo quelli di figli, sorelle e madri. Testimoni rovesciarono al processo cataratte di episodi atroci, stupri, sevizie indicibili, un groviglio di terribili verità e mitologie dell’orrore che gli storici fanno ancora fatica a dipanare.
Ma basterebbe dire:
duecentosedici bambini. Una delle lapidi riporta «Ferretti
Annamaria, di mesi uno». Come può un uomo, Tina? «I tedeschi
erano ragazzi, sì, avevano madri, sorelle, forse figli. Ma per
loro quelle erano persone. Razza dominatrice del mondo. Noi no,
per loro eravamo bestiame, piante, polvere». Andiamo a trovare
nonno Mingòn. Lo ammazzarono a Cerpiano, un chilometro oltre il
crinale. I tedeschi lo trovarono seduto sulla panca di legno che
aveva scavato in un tronco. Prima di sparargli, il soldato del
Reich gli tolse dal taschino l’orologio d’oro, orgoglio di una
vita, e glielo fece dondolare davanti agli occhi, ridendo.
Ecco, fra gli sterpi,
la chiesa distrutta con le bombe a mano con quarantanove persone
dentro. «Zia Amelia cercò di uscire dall’inferno, la
falciarono sulla soglia». Vide tutto Antonietta Benni, la maestra
della scuolina degli sfollati, che si salvò fingendosi morta fra
i cadaveri, e salvò due bambini tappando loro la bocca.
«Lasciarono lì la zia per due giorni. I maiali le mangiarono la
testa». Come riesce a raccontarlo, Tina? Esita. «Vede, quando
Reder ci chiese la grazia, a noi sopravvissuti, disse che doveva
rivedere la madre inferma prima che morisse». Tina è una dolce
signora, una nonna da libri d’infanzia. Sospira: «Lei capisce,
vero? Perdonare sarebbe stato disumano».
Tina saluta in silenzio i suoi spiriti, è un saluto speciale, «non so quante altre volte potrò tornare». Risaliamo la mulattiera verso Casaglia. Ha piovuto tutta la notte, proprio come settant’anni fa. La macchina scivola, s’impantana. Il salvatore che ci trascina fuori col suo fuoristrada mormora con disapprovazione: «i morti, bisogna lasciarli in pace».
La Repubblica – 21
settembre 2014
Nessun commento:
Posta un commento