Qualche considerazione ulteriore sul dibattito in corso intorno all’art. 18 oggi - dopo la vergognosa abdicazione di alcuni dirigenti della CGIL che hanno dimenticato la vittoriosa battaglia condotta qualche anno fa da uno dei suoi ultimi leaders all'altezza della storia del più grande Sindacato italiano - mi sembra particolarmente utile.
Difendere l’articolo 18 non vuol dire essere ideologici! Chi è privo di idee e senza principi è molto più ideologico di chi ha idee e principi. Lo Statuto del 1970 è stata una conquista dei lavoratori e questi ultimi, secondo me, lo devono difendere anche contro tutti i partiti e i sindacati.
f.v.PERCHE’ L’ARTICOLO 18 VA DIFESO E RIGUARDA TUTTI
di Piergiovanni Alleva
La
questione dell’abrogazione o mantenimento dell’art.18 dello Statuto
dei Lavoratori è più che mai al centro della scena politica e ed
è quindi davvero opportuno dedicarle tre sintetiche riflessioni
su punti di fondo.
La prima riflessione
riguarda le contraddittorie argomentazioni che si sentono da
parte datoriale e governativa: da una parte si minimizza il
problema asserendo che riguarda una piccola minoranza di
lavoratori, visto che le sentenze di reintegra nel posto di lavoro
ai sensi dell’art.18 sono appena 3.000 all’anno, ma dall’altra si
afferma che è invece questione centrale e vitale, perché senza
abrogazione dell’art.18 non si avrà ripresa né produttiva né
occupazionale.
Il vero è —
rispondiamo — che l’efficacia e la funzione vera dell’art. 18
è quella di prevenire i licenziamenti arbitrari: proprio perché
essi possono essere annullati, i datori di lavoro devono essere
prudenti e giusti nei loro comportamenti. Quelle 3.000 sentenze
evitano — per dirla in sintesi — altri 30.000 licenziamenti
arbitrari o più. L’art.18 è, e resta, una fondamentale norma
antiricatto, che ha dato dignità al lavoratore proprio perché lo
libera dal ricatto del licenziamento di rappresaglia, più o meno
mascherato.
Quanto poi
all’affermazione che l’art.18 costituirebbe un’ingiustizia verso
quella metà circa dei lavoratori che non ne fruiscono, perché
lavorano in imprese con meno di 16 dipendenti è, più ancora che
contraddittoria, paradossale: se solo la metà di una popolazione
ha il pane, il problema è di darlo a tutti, non di toglierlo a chi
ce l’ha.
La seconda riflessione
riguarda l’andamento del mercato del lavoro e dell’occupazione: dice
la Confindustria nonché Renzi ed i suoi accoliti che una volta che
avessero le mani libere di licenziare a loro arbitrio, i datori,
potendo «spadroneggiare», assumerebbero volentieri, e che
i lavoratori subirebbero magari una temporanea ingiustizia, ma
sarebbero poi compensati da un sistema di flexsecurity che troverebbe loro altro idoneo lavoro, garantendo, nel frattempo, il loro reddito.
Si tratta
di due clamorose bugie: le imprese assumono se lo richiede la domanda
di beni e servizi e non per altri motivi, come è storicamente
dimostrato, mentre laflexsecurity è un imbroglio e una
falsa promessa in tutta Europa, ed in particolare in Italia perché
quando la disoccupazione strutturale supera il 10% reperire altro
lavoro è difficilissimo, e le finanze pubbliche non possono
corrispondere indennizzi se non miseri, e per poco tempo: dal 2016,
ad esempio, sarà abrogata la indennità di mobilità triennale,
e resterà solo la cosiddetta Aspi, di breve durata e con importi
decrescenti.
La terza riflessione
è la più importante: questa smania di abrogare l’art.18 è solo
un’antica sfida di potere da parte datoriale o rientra in un ben più
complesso programma di «riassetto» socio-economico?
Tutto
dimostra ormai che è quest’ultima la risposta esatta perchè la
precarizzazione totale dei rapporti di lavoro, che si raggiunge
con i contratti a termine «acausali» ma per il resto, (e cioè, per
quella percentuale superiore al 20% consentita ai contratti
a termine), anche proprio con contratti a tempo indeterminato non
soggetti a reintegra in caso di licenziamento arbitrario, è la
condizione prima di un esasperato sfruttamento del lavoro che sta
raggiungendo rapidamente dimensioni mai sospettate.
Con il
lavoro «usa e getta», espletato comunque sotto ricatto e senza
nessuna certezza del futuro, ben si potrà giungere, invero, anche
a una drastica diminuzione dei salari sino alla soglia della
sopravvivenza.
Il futuro
che si prospetta è purtroppo quello di un lavoro non soltanto privo
di dignità ma anche sottopagato perché i lavoratori precari
e ricattati che diventeranno la normalità non potranno più
presentare rivendicazioni collettive e quindi, una volta caduti
di fatto i contratti nazionali, lo standard retributivo sarà quello
del salario minimo garantito, che non per nulla il governo Renzi si
propone di introdurre: già si conosce il livello di quel salario, si
tratterà di non più di 6 € l’ora al netto del prelievo fiscale
e contributivo, il che significa non più di 800 — 900 euro al mese.
Il nostro
è già un paese in cui il 10% della popolazione possiede addirittura
il 50% della ricchezza, e per converso il 50% della popolazione
deve accontentarsi di dividere un misero 10% della ricchezza stessa,
ma questo non basta ancora ai fautori del neoliberismo e di tutte
le altre cosiddette «libertà economiche», tra cui quella di
licenziare arbitrariamente. Non è soltanto un’antica aspirazione
di potere delle classi dominanti, ma è anche la condizione di un
ancor più accentuato sfruttamento e impoverimento delle grandi
masse.
Possiamo solo prepararci ancora una volta a una grande battaglia a difesa della dignità del lavoro.
da il manifesto del 27 settembre 2014
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