Jean Fouquet, Madonna del latte in trono con bambino (1450) |
Dee della fertilità
e fonti miracolose. Un viaggio nella valle della Grande Madre
La valle incantata che
nasconde Madonne in attesa
Le dee acquatiche sono
ancora fra noi. E il loro ultimo rifugio è la Valtiberina. Da questo
imponente anfiteatro che, inseguendo il cammino del Tevere, scende
dalle alture del monte Fumaiolo fino a Città di Castello, le ninfe
non sono partite. Con buona pace di T. S. Eliot sono ancora loro le
testimoni delle notti d'estate, le signore di fiumi e sorgenti che
scorrono nelle vene di questa terra in stato di grazia. Fonti
sulfuree, laghetti incantati, polle fumiganti, ruscelli saltellanti,
zampilli trasparenti. Una natura in stato di perpetua effervescenza.
Dove nulla è immobile e tutto è vivo, animato da un soffio
epifanico.
Sembra l'immagine del
panta rei eracliteo. Non a caso Plinio trovava qualcosa di sacro in
questo pendio che, passando per Sansepolcro e Anghiari, declina
dolcemente verso valle. Come l'acqua che scorre. Un movimento
fluviale interrotto solo da borghi, cappelle, sacelli, tabernacoli e
pievi che sembrano essere stati messi lì apposta per separare le
acque dalle acque. Uno scenario da Genesi che aiuta a capire perché
in principio di tutto fu l'acqua, madre degli esseri e delle cose. E
perché da queste parti la generazione è da sempre il culto per
antonomasia, il tabernacolo liquido dell'immaginario.
Molto prima che il
cristianesimo trionfante insediasse le sue Madonne in Maestà, qui
regnarono le Grandi Madri italiche. L'etrusca Uni, creatrice della
vita, la romana Cerere, dea delle messi, Lucina, colei che porta i
bambini alla luce. E una miriade di divinità minori partorite dal
ventre di una terra madre sempre gravida di forme. Come le cosiddette
pietre della gravidanza, ex voto a foggia di utero, e le pietre
lattaiole, chiamate anche "mamme longobarde", che venivano
usate come amuleti da appendere al collo delle puerpere perché la
montata lattea fosse abbondante. Ma anche per difendere il seno
materno dalle dame bianche, quelle che rubavano il latte.
Fino alla fine della
Seconda guerra mondiale, le donne evitavano di portare nei boschi i
bambini non svezzati per paura del sortilegio delle pallide silfidi.
Mentre, per propiziarsi la protezione delle antiche signore
dell'acqua, le donne incinte immergevano gli abitini dei nascituri
nelle fonti sacre. E offrivano pane, miele, spighe di grano. Ma anche
gigli, i fiori di Giunone. E delle focacce di farro che venivano
chiamate addirittura placente. Gli stessi doni che dopo la
cristianizzazione vengono offerti alle Madonne del latte, che
raccolgono il testimone delle dee pagane. Non a caso fino a pochi
decenni fa in queste campagne si usava mettere le placente in vasi a
forma di utero e calarle nei pozzi vicini alle chiese e alle fontane
benedette per favorire la lattazione.
Una vera e propria
archeologia della maternità che ha il suo perturbante epicentro
sacrale a Monterchi, dove regna sovrana la Madonna del Parto di Piero
della Francesca. La più enigmatica delle Vergini col pancione. Che
in questa parte d'Italia erano numerosissime, fino a quando la Chiesa
a fine Cinquecento non considerò sconveniente l'esibizione del
ventre gonfio, cancellando la maternità vera di Maria in favore di
un dogma senza corpo. Madre-bambina e matrona implume, la definì
Pasolini, che fece della giovinetta dallo sguardo adulto e dalla cera
impassibile l'archetipo della maternità.
Un affresco che non è un
affresco. Ma piuttosto una reincarnazione della genitrice primigenia,
della Grande Madre nascosta sotto il manto della Madonna. E non è un
caso che Piero l'abbia dipinta per la cappella di Santa Maria della
Selva, in quel luogo silvano abitato da sempre dagli spiriti della
natura. Perché anche il suo immaginario era abitato da quelle stesse
potenze femminili, da quell'abisso materno che si riflette negli
occhi di nostra signora del parto.
E proprio come una
padrona della vita e della morte l'ha sempre trattata il popolo della
valle del Cerfone. Il fiume che fu sacro a Cerfia, la dea italica che
regolava i destini femminili. È dalla fine del Quattrocento che le
donne qui hanno fatto di questa icona mariana la protettrice delle
puerpere, la santa delle gravidanze impossibili, la suprema levatrice
celeste.
Piero Della Francesca, La Madonna del parto ( 1455) |
E quando nel 1944 Goering
ordinò alla Wehrmacht di portare l'affresco in Germania, il
soprintendente di Arezzo corse a murarla nottetempo per sottrarla
alla razzia. Ma si trovò accerchiato da una schiera di donne armate
di falci, roncole e forconi, decise a linciarlo perché lo avevano
scambiato per un ladro. La stessa cosa nel 1954, quando si sparse la
voce che la Madonna sarebbe andata in prestito a Firenze per una
mostra sul Rinascimento, la popolazione muliebre insorse. E non ci fu
verso di far muovere il dipinto. «Come facciamo noi senza di lei»,
si giustificarono le ribelli, «il parto è pericoloso e un conforto
a noi non ce lo dà nessuno, è solo lei che ci protegge e che ci
aiuta a sopportare il dolore».
Una volta le puerpere
bevevano l'acqua di una fonte vicina alla chiesa e per scongiurare il
taglio cesareo toccavano il vestito e la pancia di Maria. E ancora
oggi le partorienti le offrono fiori e spighe, nonostante non si
trovi più nella cappella originaria, ma in un museo ospitato in una
ex scuola. Facendo cortocircuitare l'immagine di culto e il culto
dell'immagine. Che da oggetto di devozione diventa oggetto d'arte.
Eppure non tutto è perduto. Visto che qualche mese fa mi è capitato
di vedere una visitatrice che ha estratto un bouquet di spighe e
roselline dalla borsa e dopo averlo appoggiato furtivamente sulla sua
pancia lo ha deposto ai piedi dell'icona. Una scena da Tarkovskij.
Che proprio alla Madonna di Piero dedica la bellissima sequenza
iniziale di Nostalghia .
«Anche lei desidera un
bambino? O vuole la grazia per non averne?», dice il sacrestano alla
protagonista, Eugenia, che assiste attonita a un rito di fertilità
che sembra sbalzato fuori dalla notte dei tempi. E poi aggiunge,
«Purtroppo, quando c'è qualcuno che è distratto, estraneo
all'invocazione, allora ‘un succede nulla!». E questo antico
legame di pancia tra donne e madonne resta nelle pieghe del
regolamento museale che, per disposizione di Comune e Soprintendenza,
concede l'ingresso gratuito a tutte le signore in attesa.
Evidentemente le antiche madri non si lasciano strappare le chiavi
della vita.
La Repubblica – 19
luglio 2014
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