26 settembre 2014

OMAGGIO ALLE DEE DELLA FERTILITA'

Jean Fouquet, Madonna del latte in trono con bambino (1450)




Dee della fertilità e fonti miracolose. Un viaggio nella valle della Grande Madre

Marino Niola

La valle incantata che nasconde Madonne in attesa

Le dee acquatiche sono ancora fra noi. E il loro ultimo rifugio è la Valtiberina. Da questo imponente anfiteatro che, inseguendo il cammino del Tevere, scende dalle alture del monte Fumaiolo fino a Città di Castello, le ninfe non sono partite. Con buona pace di T. S. Eliot sono ancora loro le testimoni delle notti d'estate, le signore di fiumi e sorgenti che scorrono nelle vene di questa terra in stato di grazia. Fonti sulfuree, laghetti incantati, polle fumiganti, ruscelli saltellanti, zampilli trasparenti. Una natura in stato di perpetua effervescenza. Dove nulla è immobile e tutto è vivo, animato da un soffio epifanico.

Sembra l'immagine del panta rei eracliteo. Non a caso Plinio trovava qualcosa di sacro in questo pendio che, passando per Sansepolcro e Anghiari, declina dolcemente verso valle. Come l'acqua che scorre. Un movimento fluviale interrotto solo da borghi, cappelle, sacelli, tabernacoli e pievi che sembrano essere stati messi lì apposta per separare le acque dalle acque. Uno scenario da Genesi che aiuta a capire perché in principio di tutto fu l'acqua, madre degli esseri e delle cose. E perché da queste parti la generazione è da sempre il culto per antonomasia, il tabernacolo liquido dell'immaginario.

Molto prima che il cristianesimo trionfante insediasse le sue Madonne in Maestà, qui regnarono le Grandi Madri italiche. L'etrusca Uni, creatrice della vita, la romana Cerere, dea delle messi, Lucina, colei che porta i bambini alla luce. E una miriade di divinità minori partorite dal ventre di una terra madre sempre gravida di forme. Come le cosiddette pietre della gravidanza, ex voto a foggia di utero, e le pietre lattaiole, chiamate anche "mamme longobarde", che venivano usate come amuleti da appendere al collo delle puerpere perché la montata lattea fosse abbondante. Ma anche per difendere il seno materno dalle dame bianche, quelle che rubavano il latte.

Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, le donne evitavano di portare nei boschi i bambini non svezzati per paura del sortilegio delle pallide silfidi. Mentre, per propiziarsi la protezione delle antiche signore dell'acqua, le donne incinte immergevano gli abitini dei nascituri nelle fonti sacre. E offrivano pane, miele, spighe di grano. Ma anche gigli, i fiori di Giunone. E delle focacce di farro che venivano chiamate addirittura placente. Gli stessi doni che dopo la cristianizzazione vengono offerti alle Madonne del latte, che raccolgono il testimone delle dee pagane. Non a caso fino a pochi decenni fa in queste campagne si usava mettere le placente in vasi a forma di utero e calarle nei pozzi vicini alle chiese e alle fontane benedette per favorire la lattazione.

Una vera e propria archeologia della maternità che ha il suo perturbante epicentro sacrale a Monterchi, dove regna sovrana la Madonna del Parto di Piero della Francesca. La più enigmatica delle Vergini col pancione. Che in questa parte d'Italia erano numerosissime, fino a quando la Chiesa a fine Cinquecento non considerò sconveniente l'esibizione del ventre gonfio, cancellando la maternità vera di Maria in favore di un dogma senza corpo. Madre-bambina e matrona implume, la definì Pasolini, che fece della giovinetta dallo sguardo adulto e dalla cera impassibile l'archetipo della maternità.

Un affresco che non è un affresco. Ma piuttosto una reincarnazione della genitrice primigenia, della Grande Madre nascosta sotto il manto della Madonna. E non è un caso che Piero l'abbia dipinta per la cappella di Santa Maria della Selva, in quel luogo silvano abitato da sempre dagli spiriti della natura. Perché anche il suo immaginario era abitato da quelle stesse potenze femminili, da quell'abisso materno che si riflette negli occhi di nostra signora del parto.

E proprio come una padrona della vita e della morte l'ha sempre trattata il popolo della valle del Cerfone. Il fiume che fu sacro a Cerfia, la dea italica che regolava i destini femminili. È dalla fine del Quattrocento che le donne qui hanno fatto di questa icona mariana la protettrice delle puerpere, la santa delle gravidanze impossibili, la suprema levatrice celeste.

Piero Della Francesca, La Madonna del parto ( 1455)


E quando nel 1944 Goering ordinò alla Wehrmacht di portare l'affresco in Germania, il soprintendente di Arezzo corse a murarla nottetempo per sottrarla alla razzia. Ma si trovò accerchiato da una schiera di donne armate di falci, roncole e forconi, decise a linciarlo perché lo avevano scambiato per un ladro. La stessa cosa nel 1954, quando si sparse la voce che la Madonna sarebbe andata in prestito a Firenze per una mostra sul Rinascimento, la popolazione muliebre insorse. E non ci fu verso di far muovere il dipinto. «Come facciamo noi senza di lei», si giustificarono le ribelli, «il parto è pericoloso e un conforto a noi non ce lo dà nessuno, è solo lei che ci protegge e che ci aiuta a sopportare il dolore».

Una volta le puerpere bevevano l'acqua di una fonte vicina alla chiesa e per scongiurare il taglio cesareo toccavano il vestito e la pancia di Maria. E ancora oggi le partorienti le offrono fiori e spighe, nonostante non si trovi più nella cappella originaria, ma in un museo ospitato in una ex scuola. Facendo cortocircuitare l'immagine di culto e il culto dell'immagine. Che da oggetto di devozione diventa oggetto d'arte. Eppure non tutto è perduto. Visto che qualche mese fa mi è capitato di vedere una visitatrice che ha estratto un bouquet di spighe e roselline dalla borsa e dopo averlo appoggiato furtivamente sulla sua pancia lo ha deposto ai piedi dell'icona. Una scena da Tarkovskij. Che proprio alla Madonna di Piero dedica la bellissima sequenza iniziale di Nostalghia .

«Anche lei desidera un bambino? O vuole la grazia per non averne?», dice il sacrestano alla protagonista, Eugenia, che assiste attonita a un rito di fertilità che sembra sbalzato fuori dalla notte dei tempi. E poi aggiunge, «Purtroppo, quando c'è qualcuno che è distratto, estraneo all'invocazione, allora ‘un succede nulla!». E questo antico legame di pancia tra donne e madonne resta nelle pieghe del regolamento museale che, per disposizione di Comune e Soprintendenza, concede l'ingresso gratuito a tutte le signore in attesa. Evidentemente le antiche madri non si lasciano strappare le chiavi della vita.

La Repubblica – 19 luglio 2014

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