Nel 1913 rimase
folgorato a Mosca dalla mostra di 147 icone antiche private delle
ridipinture. Decise così di dipingere un nuovo tipo di icona, radicalmente quadrata,
libera dal dovere del contenuto.
Giuseppe Frangi
Malevich
Era nato a Kiev, città
appartenente all’allora impero russo, nel 1879, da genitori
cattolici polacchi. Si era formato a Mosca come disegnatore tecnico e
lavorando per le ferrovie. Nel 1915 si rivelava al mondo con una
mostra in una galleria a San Pietroburgo. Città dove sarebbe morto
nel 1935, e che nel frattempo aveva cambiato nome in Leningrado. Nel
mezzo, anche un periodo di insegnamento a Vitebsk, in Bielorussia,
dove aveva preso la cattedra a cui l’aveva chiamato l’ebreo Marc
Chagall.
Bastano pochi cenni dalla
biografia di Kasimir Malevich per intuire come la mostra che la Tate
Gallery gli ha dedicato (Malevich, a cura di Achim Borchardt-Hume,
sino al 26 ottobre), sia oltre che l’occasione di esplorare uno dei
grandi innovatori del 900, anche un’opportunità per capire quale
siano la complessità e le stratificazioni che segnano un territorio
e la sua cultura. Quella di Malevich, in un certo senso, è quindi
una mostra di inattesa attualità.
Allestita al terzo piano
della Tate Modern, l’esposizione non si fa e non ci fa mancare
niente: solo il primo dei Quadrati neri, quello del 1915, non ha
potuto arrivare da Mosca per la sua fragilità. Per il resto i
prestiti sono di qualità eccezionale, grazie alla rete di
istituzioni che hanno fatto da promotori della mostra: dallo
Stedelijk Museum di Amsterdam, alla Khardzhiev Foundation, sempre
olandese, sino alla Costakis Collection di Tessalonica (quella della
Tate è la seconda tappa, dopo Amsterdam e prima della conclusione
alla Bundeskunsthalle di Bonn).
Black Square (1913) |
«Un artista russo»: non è il sottotitolo della mostra, che ai sottotitoli accalappia-visitatori giustamente non ricorre, ma è il titolo che è stato assegnato alla seconda sala. Siamo intorno 1910 e l’identità di Malevich, per quanto sia artisticamente ancora incerta, intellettualmente e poeticamente è già ben delineata. Ha avuto modo di vedere quel che un grande collezionista come Sergei Shchukin aveva portato da Parigi, in particolare i Picasso e i Matisse della grande accelerazione di inizio secolo, ma non se ne è lasciato contaminare. Malevich da subito marca la sua differenza, a costo di pagare il dazio di qualche ingenuità di troppo e di sperimentare stili espressivi in modo che a volte sembrano un po’ random.
Ma lui è russo (per
quanto parli anche polacco), e non ha né l’intenzione né la
tentazione di sottrarsi a questo suo destino. Si capisce presto
cammin facendo, che il suo è un obiettivo, o meglio una missione,
precisa: portare l’antica Russia, rispettandone sono in fondo
l’anima, in prima linea sulle frontiere della modernità. Il
primo aggancio tra Russia e modernità prende forma non su una tela
ma su un palcoscenico nel 1913, quando Malevitch cura,
nell’allora San Pietroburgo, costumi e scenografie per Vittoria sul
Sole, opera cubo-futurista musicata da Mihhail Matyushin con un testo
del poeta Velimir Khlebnikov.
Le scene sono in bianco e
nero, e dominate dalla ripetizione di forme quadrate: cinque in fuga,
per dare profondità di campo, e uno alle spalle dello spettatore,
per dargli la sensazione di essere chiuso nella dimensione intima di
un cubo. Il Quadrato nero arriverà due anni dopo, anche se
Malevich lo data al 1913. Lo avrebbe “svelato” il 15 dicembre
1915 con un’operazione che ha tutte le caratteristiche di un
passaggio storico.
La mostra “Ultima
esposizione futurista di quadri 0,10“ si tiene alla Dobychina di
San Pietroburgo. Lo zero sta indicare l’anno di inizio di una nuova
storia, il 10 il numero di artisti che inizialmente avrebbero dovuto
esporre (in realtà furono di più). Il riferimento al futurismo ha
qualcosa quasi di canzonatorio: il futuro dell’arte non va nella
direzione indicata dall’avanguardia che pur aveva fatto
maggiormente breccia nella cultura artistica russa. A documentare
quella sala ci resta un’unica, storica fotografia: dei 39 quadri
esposti riconoscibili, è nota la sorte di 12. Ben nove di questi
sono stati portati in mostra. Ma il cuore della sala è il Quadrato
nero su fondo bianco, posizionato con una scelta che più “russa”
non si sarebbe potuto, nell’angolo della stanza. Cioè rispettando
la tradizione con cui venivano appese le icone nelle case.
Certamente più delle
tambureggianti novità che venivano dall’Europa
occidentale, Malevich fu interessato da quella mostra evento che
si tenne a Mosca nel 1913, quando per la prima volta vennero
presentate 147 icone, dal XIV al XVII secolo, liberate dalle
ridipinture con cui nel tempo si era tentato di ovviare
all’ingiallimento delle tavole. Fu una mostra evento che colpì
tutta la nuova generazione di artisti, da Tatlin alla Gontcharova. Ma
come ha scritto Tatjana Vlibinkova, «l’interesse più coerente
mostrato per l’icona fu quello di Malevitch… Le composizione
delle icone, costruite con nitore, facilmente riconducibili a forme
geometriche impiegate talvolta in modo diretto, trovarono una
prosecuzione nella sua aspirazione a creare una “nuova icona”».
Quando qualche anno dopo
iniziò a insegnare a Vitebsk, in classe teneva spesso un’icona.
Non c’era un’adesione religiosa, evidentemente. Ma c’era
un’adesione a quel principio per cui l’arte si è liberata dal
dovere di un’espressività e anche da un contenuto, essendo che il
contenuto dell’icona è qualcosa che non appartiene a chi le
realizza. «L’arte nuova ha posto in primo piano il principio
secondo cui l’arte può ammettere solo se stessa come contenuto.
Così in essa troviamo non l’idea di qualche cosa, ma solo l’idea
dell’arte stessa», scrive nel testo fondante del Suprematismo.
Supremus N.50 |
È un’idea che si
radicalizza sino ai quadri bianco su bianco che Malevich ribattezza
come “morte della pittura” e confluisce in un percorso
pedagogico, negli anni dell’insegnamento a Vitebsk e poi a
Leningrado.
Alla mostra londinese
questa esperienza viene illustrata in una magnifica sala dove trovano
spazio le grandi tavole che spiegavano teorie e percorsi della Nuova
arte (UNOVIS, il collettivo che Malevitch aveva messo insieme era
l’acronimo di Utverditeli Novogo Iskusstva, cioè Campo della Nuova
Arte). Sono frutto di un lavoro collettivo, con scritte a volte anche
in tedesco, perché Malevich volle portarli con sé in una missione
all’estero nel 1927, a Berlino e in Polonia.
Durò poco quella
missione. Perché venne richiamato in Russia e Malevich dovette
lasciare quelle tavole a Berlino. Il clima, con la salita al potere
di Stalin era cambiato, e l’oscillazione che questa svolta aveva
sulla linea dell’arte russa la si può registrare nella grande sala
posta come snodo centrale della mostra, dove sono allineati un
centinaio di disegni, veri e proprio “pensieri” grafici messi su
carta, che coprono tutto l’arco della carriera di Malevich. L’input
era quello di tornare alla figurazione. Malevich non se ne sottrae e
inizia un percorso per “reinventare la pittura”.
Ancora l’icona funziona
da ancoraggio per queste sagome semplificate e rigorosamente frontali
che raccontano una Russia profonda e che contrassegnano la fine degli
anni 20. Sono volti svuotati di identità, che diventano quasi
emblema di quella stagione di totalitarismo cieco. Ma è chiaro che
quella non è strada che possa convincere Malevich, tanto più che
non lo protegge dalle malversazioni del potere (nel 1930 viene anche
arrestato con l’accusa di spionaggio a favore della Germania).
Gli ultimi anni sono gli
anni dell’eclissi. Malevich sparisce dalla sfera pubblica e
s’abbandona ad una pittura strana, affascinante, forzosamente
anacronistica. A chiudere la mostra c’è quel famoso
Autoritratto in cui posa con una strana solennità, con il costume di
Cristoforo Colombo. È un artista evidentemente rassegnato ad essere
quello che non avrebbe dovuto essere; rassegnato a dipingere secondo
un’idea per lui certamente fuori tempo massimo: ma per quanto
costretto ad essere straniero a se stesso, con questo Autoritratto
così scopertamente ingenuo, ci dice una cosa che colpisce e anche
commuove.
Che la libertà di un
artista vive anche dentro i muri di una costrizione ideologica ed
estetica che può sembrare intollerabile. Che la sua coscienza può
restare intatta, anche se non ha più spazi per esprimersi, anche se
costretta ad una sorta di mutismo. Non a caso nell’angolo,
l’Autoritratto, al posto della firma, come tante altre opere di
questi anni estremi, ha un piccolo quadrato nero, dipinto come lo
dipingerebbe un bambino. È un segno distintivo, che non ha più
l’esatta definizione di un tempo. Non ha più quella forza, quella
chiarezza, quella baldanza. Ma è lì, anche nel momento
dell’impotenza, a suggerire che quella comunque era la strada.
Malevich morì nel 1935.
Con lui venne accuratamente sepolta anche la sua opera. Per
rivedere in pubblico il Quadrato nero bisognerà addirittura
aspettare gli anni 80. Nel frattempo il monocromo aveva conquistato
gli artisti di mezzo occidente. Ma a dispetto dell’apparente
somiglianza, era tutta un’altra storia. Perché la Russia ha tutta
un’altra storia.
Il Manifesto/Alias – 21
settembre 2014
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