30 settembre 2014

INTERVISTA A MARIO TRONTI




Tronti non ci ha mai molto convinto come teorico dell'operaismo. Tuttavia ci riconosciamo in questa lunga e bella intervista che esamina retrospettivamente un percorso che è stato quello della nostra generazione.

Antonio Gnoli

Mario Tronti 
Sotto la suola delle sue scarpe è ancora riconoscibile il fango della storia. «È tutto ciò che resta. Miscuglio di paglia e sterco con cui ci siamo illusi di erigere cattedrali al sogno operaio ». Ecco un uomo, mi dico, intriso di una coerenza che sfonda in una malinconia senza sbavature. È Mario Tronti, il più illustre tra i teorici dell’operaismo. Ha da poco finito di scrivere un libro su ciò che è stato il suo pensiero, come si è trasformato e ciò che è oggi. Non so chi lo pubblicherà (mi auguro un buon editore). Vi leggo una profonda disperazione. Come un diario di sconfitte scandito sulla lunga agonia del passato che non passa mai del tutto, che non muore definitivamente. Ma che non serve più.

«Sono gli altri che ti tengono in vita», dice ironico. Quando la vita, magari, richiede altre prove, altre scelte. Forse è per questo, si lascia sfuggire, che ha cercato un diversivo nella pratica del Tai Chi: «I gesti di quella tecnica orientale rivelano, nella loro lentezza, un’armonia segreta. Tutto si concentra nel respiro. L’ho praticato per un po’. Con curiosità e attenzione. Ma alla fine mi sentivo inadatto. Fuori posto. L’Oriente esige una mente capace di creare il vuoto. La mia vive di tutto il pieno che ho accumulato nel tempo».

Come è nata la curiosità per il Tai Chi?
«Grazie a mia figlia che ama e pratica la cultura orientale. Avrebbe voluto farsi monaca, poi ha scelto con la stessa profonda coerenza quel mondo che io ho solo sfiorato».

E come ha vissuto quella decisione familiare?
«Con il rispetto che occorre in tutte le cose che ci riguardano e ci toccano da vicino».

C’è un elemento di imprevedibilità nei figli?
«C’è sempre: negli individui, come nella storia».

Si aspettava che la storia — la sua intendo — sarebbe finita così?
«Ci si aspetta sempre il meglio. Poi giungono le verifiche. Sbattere contro i fatti senza l’airbag può far male. Sono stato comunista, marxista, operaista. Qualcosa è caduto. Qualcosa è rimasto. Ho capito e applicato la lezione del realismo politico: non si può prescindere dai fatti».


E i fatti parlano oggi di una grande crisi.
«Grande e lunga. Ci riguarda, a livelli diversi, un po’ tutti. Dura da almeno sette anni e non c’è nessuno in grado di dire come se ne uscirà. Viviamo un tempo senza epoca».

Cosa vuol dire?
«C’è il nostro tempo, manca però l’epoca: quella fase che si solleva e rimane per il futuro. La storia è diventata piccola, prevale la cronaca quotidiana: il chiacchiericcio, il lamento, le banalità».

L’epoca è il tempo accelerato con il pensiero.
«Non solo. È il tempo che fa passi da gigante. Si verifica quando accadono cose che trasformano visibilmente i nostri mondi vitali».

Nostalgia delle rivoluzioni?
«No, semmai del Novecento che fu anche il secolo delle rivoluzioni. Ma non solo. Dove sono il grande pensiero, la grande letteratura, la grande politica, la grande arte? Non vedo più nulla di ciò che la prima parte del Novecento ha prodotto».

Quando termina l’esplosione di creatività?
«Negli anni Sessanta».

I suoi anni d’oro.
«Ironie della storia. C’è stato un grande Novecento e un piccolo Novecento fatto di una coscienza che non è più in grado di riflettere su di sé».

È un addio all’idea di progresso?
«Il progressismo è oggi la cosa più lontana da me. Respingo l’idea che quanto avviene di nuovo è sempre meglio e più avanzato di ciò che c’era prima».

Fu una delle fedi incrollabili del marxismo.
«Fu la falsa sicurezza di pensare che la sconfitta fosse solo un episodio. Perché intanto, si pensava, la storia è dalla nostra parte».

E invece?
«Si è visto come è andata, no?».

Si sente sconfitto o fallito?
«Sono uno sconfitto, non un vinto. Le vittorie non sono mai definitive. Però abbiamo perso non una battaglia ma la guerra del ‘900».

E chi ha prevalso?
«Il capitalismo. Ma senza più lotta di classe, senza avversario, ha smarrito la vitalità. È diventato qualcosa di mostruoso».

Si riconosce una certa dose di superbia intellettuale?
«La riconosco, ma non è poi una così brutta cosa. La superbia offre lucidità, distacco, forza di intervento sulle cose. Meglio comunque della rinuncia a capire. In tutto questo gran casino vorrei salvare il punto di vista ».


Il punto di vista?
«Sì, non riesco a mettermi sul piano dell’interesse generale. Sono stato e resto un pensatore di parte».

Quando ha scoperto la sua parte?
«Ero giovanissimo. Alcuni l’attribuiscono al mio operaismo degli anni Sessanta. Vedo in giro anche degli studi che descrivono il mio percorso».

In un libro di Franco Milanesi su di lei — non a caso intitolato Nel Novecento ( ed. Mimesis) — si descrive il suo pensiero. Quando nasce?
«Ancor prima dell’operaismo sono stato comunista. Un padre stalinista, una famiglia allargata, il mondo della buona periferia urbana. Sono le mie radici».

In quale quartiere di Roma è nato?
«Ostiense che era un po’ Testaccio. Ricordo i mercati generali. I cassisti che vi lavoravano. Non era classe operaia, ma popolo. Sono dentro quella storia lì. Poi è arrivata la riflessione intellettuale».

Chi sono stati i referenti? Chi le ha aperto, come si dice, gli occhi?
«Dico spesso: noi siamo una generazione senza maestri ».

Lei è stato, a suo modo, un maestro.
«Trova?».

Operai e capitale , il suo libro più noto, ha avuto un’influenza molto grande. Lo pubblicò Einaudi. Cosa ricorda?
«Fu un caso fortunoso. Non avevo rapporti con la casa editrice torinese. Mi venne in mente di inviare il manoscritto senza immaginare nessuna accoglienza positiva. So che ci fu una grossa discussione e molti dissensi tra cui, fortissimo, quello di Bobbio».

Era prevedibile.
«Assolutamente, viste le posizioni. A quel punto scrissi direttamente a Giulio Einaudi spiegando quale fosse il senso del mio libro».

E lui?
«Lo comprese pienamente. Contro il parere di quasi tutta la redazione si impuntò e il libro venne pubblicato. L’edizione andò rapidamente esaurita. Era il 1966. Avevo 35 anni. Quel testo, poi rivisto con l’aggiunta di un poscritto, ancora oggi gira per il mondo». Ne è soddisfatto?
«È un libro nel quale sono tutt’ora rimasto intrappolato. Per la gente rimango ancora quella roba lì. È difficile far capire che, nel frattempo, sono cambiato. Pensano che sia restato l’operaista di una volta».



Non è così?
«L’operaismo per me ricoprì una stagione brevissima. Poi è iniziata quella, maledetta da tutti, dell’autonomia del politico».

Maledetta perché?
«Mi resi ostile anche alle generazioni post-operaiste ».

Allude al Sessantotto?
«Lì ha inizio il piccolo Novecento. Dove è cominciata la deriva».

Fu un grande equivoco?
«Ammettiamolo: fu un fatto generazionale, antipatriarcale e libertario. Non sono mai stato un libertario».

Dove ha fallito il ‘68?
«C’è stata una doppia strada, entrambe sbagliate. Da un lato si è radicalizzato in modo inutile e perdente giungendo al terrorismo. Per me che sono appassionato del tragico nella storia lì ho visto l’inutilità e l’insensatezza della tragedia».

E dall’altro?
«Alla fine il ‘68 fu il grande ricambio della classe dirigente. La corsa a imbucarsi nell’establishment».

Niente male come ironia della storia.
«Sono i suoi paradossi e le sue imprevedibilità».

E il mito della classe operaia? La “rude razza pagana” come disse e scrisse.
«Non era certo quella che noi pensavamo. Gli operai volevano l’aumento salariale, mica la rivoluzione. Fu una delle ragioni che mi spinsero a scoprire le virtù del realismo politico».

Fu un addio alle illusioni?
«Vedevamo rosso. Ma non era il rosso dell’alba, bensì quello del tramonto».

Dove si colloca lo “sconfitto” Mario Tronti?
«Sono un uomo fuori da questo tempo. Ho sempre condiviso la tesi del vecchio Hegel che un uomo somiglia più al proprio tempo che al proprio padre. Il mio tempo è stato il mondo di ieri: il Novecento. Che comunque non sarà mai la casa di riposo per anime belle ».

Con quale riverbero affettivo lo ricorda?
«La mia tonalità è oggi quella di una serena disperazione. Forse per questo motivo non vado quasi mai a incontri pubblici. È troppo patetico andare in giro per parlare di quel mondo. E poi, dico la verità, la sua fine non è all’altezza della sua storia. Non c’è niente di tragico ».

Lei è passato dall’operaismo a Machiavelli e Hobbes e ora alla teologia politica, ai profeti, alla figura di Paolo.
«Se me lo avessero pronosticato trent’anni fa non ci avrei creduto. Però, vede, Paolo è stato il grande politico del cristianesimo. Nelle sue Lettere c’è il Che fare? di Lenin. Guardo molto alla dimensione cattolica, al suo aspetto istituzionale. C’è forza e lunga durata».



L’accusano di flirtare un po’ troppo con il pensiero reazionario.
«Dal punto di vista intellettuale trovo molto stimolante l’orizzonte che comprende figure come Taubes, Warburg, Benjamin, Kojève, Rosenzweig. Una costellazione anomala e irriferibile alla tradizione ortodossa. Uomini postumi».

Lo chiamerebbe eclettismo?
«Non lo è. Prendo quello che mi serve. La mia bussola mentale è molto spregiudicata. Mi chiedeva del pensiero reazionario. Ebbene, non rinuncio ai filosofi della restaurazione se mi fanno capire la rivoluzione francese molto più degli illuministi».

Si sente ancora un uomo di sinistra?
«È una bella contraddizione, me ne rendo conto. Ma come potrei essere di sinistra con il pessimismo antropologico che ricavo dal mio realismo? Dichiararsi illuministi, storicisti, positivisti — come fa in qualche modo la sinistra — è illudersi che i problemi che abbiamo di fronte siano semplici».

Dove si collocherebbe oggi?
«Dalla parte sconfitta. In un senso benjaminiano. Ha presente la figura dell’Angelo? Egli guarda indietro con le ali che si impigliano nella tempesta».

È una bella immagine. Fa pensare al Dio terribile e inclemente della Bibbia. Lei in cosa crede o ha creduto?
«A chi divide il mondo fra credenti e non, rispondo che non sono né l’una cosa né l’altra. Sto, per così dire, su di una specie di confine che ha ben descritto Simone Weil: non attraversare, ma non tornare neppure indietro. Al tempo stesso, penso che il “legno storto” dell’umano per sopravvivere abbia bisogno di qualche forma di fede».

E lei l’ha incontrata?
«In un certo senso sono stato credente anch’io. Ho creduto che si poteva abbattere il capitalismo, fare il socialismo e poi il comunismo. Niente di tutto questo aveva la benché minima parvenza scientifica».

Non è rimasto niente di quella fede?
«Sono più cauto. Avverto molto chiaramente il nesso tra realismo e passione. Il realismo da solo è opportunismo, puro adattamento alla realtà. Per correggere questa visione occorre una forma di passione».

Viviamo il tempo delle passioni tristi e spente.
«Tristi, certamente. Ma non spente del tutto. Il guaio è che oggi la storia non si controlla».

Ossia?
«La fase è molto confusa. Ogni cosa va per conto proprio. Agli inizi del ‘900 si parlava della grande crisi della modernità. Poi questa è arrivata. E ora che ci siamo dentro fino al collo non sappiamo in che direzione andare. È lo stallo. Si guarda senza vedere realmente».

Le sue preoccupazioni sembrano quelle di un uomo superato.
«In un certo senso è così. Ma non mi preoccupo. Perché dovrei? Ricordo certi vecchi che in prossimità della morte dicevano: purtroppo me ne devo andare. Mio padre credeva in un mondo migliore. Avrebbe voluto vederlo. Beato lui. Io dico ai giovani: meno male che non ho la vostra età. E sono contento che tra un po’ non vedrò più questo mondo. Questo dico».

Non si aspetta altro?
«Il futuro è tutto catturato nel presente. Non è possibile immaginare niente che non sia la continuazione del nostro oggi. Questo è l’eterno presente di cui si parla. E allora ben lieto di essere superato. Mi consola sapere che chi corre non pensa. Pensa solo chi cammina».


La Repubblica – 28 settembre 2014

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