Dostoevskij,
Solzenitsyn, la Russia di Putin e il ruolo degli intellettuali. Il
totalitarismo staliniano negava le libertà politiche, ma la società
spettacolare-consumistica ruba l'anima. Intervista a Svetlana
Aleksievic, di cui esce il romanzo “Tempo di seconda mano” sulla
dissoluzione dell'URSS.
Wlodek Goldkorn
“L’animo
russo vive ancora nei Gulag”
Alcuni decenni fa ormai,
il mondo degli intellettuali e letterati russi fu diviso da una
polemica fra due giganti. Da un lato Varlam Salamov, autore di
Racconti di Kolyma, un capolavoro di importanza analoga a Se questo è
un uomo di Primo Levi, e per 18 anni prigioniero dei Lager
staliniani; dall’altro, Aleksandr Solzenitsyn, diventato famoso con
Una giornata di Ivan Denisovic, autore dell’ Arcipelago Gulag , e
con otto anni di lavori forzati alle spalle.
Solzenitsyn sosteneva che l’esperienza del Lager rendesse forti perché nelle condizioni estreme si rivela la vera natura di ciascun uomo. Insomma, il Gulag come scuola di resistenza spirituale. Salamov invece era del parere che la vita nel Lager finisse per distruggere la personalità del prigioniero e che l’essere umano vissuto nel Gulag fosse condannato a vivere il resto dei suoi giorni come se non ne fosse mai uscito. Questa discussione, una variante della secolare disputa tra slavofili, i sostenitori di una Russia autocratica, ortodossa e imperiale, e “occidentalisti” la cita Svetlana Aleksievic, anche lei scrittrice, 66enne, di padre bielorusso e madre ucraina, l’anno scorso candidata, data dai bookmaker per certa, al Nobel per la Letteratura, nel frattempo insignita da molti e prestigiosi premi tra Francia e Germania.
In questi giorni
Aleksievic è in Italia per ritirare un altro riconoscimento (Masi
Grosso d’Oro Veneziano) e per incontrare i suoi lettori. Dice
Aleksievic: «Oggi vediamo che aveva ragione Salamov. Nella Russia di
Putin viviamo con la mentalità da Lager. Non si parla d’altro che
del pericolo che viene da fuori, dal presunto accerchiamento da parte
dei nemici esterni e della minaccia che viene da quelli interni. Il
lessico è dei tempi del passato ».
L’occasione della visita in Italia e di questa conversazione è l’uscita dell’ultimo libro di Aleksievic, Tempo di seconda mano (Bompiani), un racconto corale ed epico, oltre 700 pagine, sulla dissoluzione dell’Urss e sulle sue conseguenze per l’uomo comune.
Ci ha messo più di dieci
anni per scriverlo: ha viaggiato nelle remote province, ha
intervistato vecchi comunisti, contadine, minatori, professionisti.
Molti rivendicano i tempi dell’Unione Sovietica e dicono: sebbene
Stalin ci abbia fatto soffrire, ci ha permesso di credere negli
ideali. Colpisce l’uso che Aleksievic fa della lingua: il suo,
anche in questa intervista, è un russo ricercato, classico, quasi
ottocentesco, non contaminato dal gergo dell’ex Urss.
«Quando l’impero
sovietico è crollato - racconta la scrittrice - noi democratici
avevamo una visione romantica. Ci immaginavamo un avvenire simile ad
altri popoli europei. Ci dicevamo: dopo decenni di isolamento, la
Russia torna a far parte del mondo. Eravamo influenzati dalla
perestrojka, il tentativo di democratizzare il Paese, di portarlo
sulla strada di una riforma di stampo socialdemocratico. Pensavamo di
essere alla vigilia di una specie di seconda vita (ma non di seconda
mano): decente e dignitosa».
Poi abbassa la voce: «Oggi è diventato invece evidente che in Russia niente di buono riesce bene. A partire dal terzo mandato di Putin (2012) è chiaro che stiamo tornando indietro. Certo, siccome sarebbe difficile parlare della ricostituzione dell’Unione Sovietica, si usa il termine Unione euroasiatica». Si tratta di un’idea di Aleksandr Dugin, filosofo di estrema destra, ben visto nell’entourage del presidente e che risale ai circoli di emigrati bianchi dei primi anni Venti. Esuli che più tardi avrebbero dimostrato molta simpatia per Stalin; alcuni tornarono in Urss per finire ovviamente prigionieri del Gulag o fucilati.
Aleksievic riflette: «Sta
tornando il passato; senza idee nuove. O forse sì, qualcosa di nuovo
c’è. Abbiamo una variante degli stalinisti, ma sono cristiani
ortodossi. L’idea è quella di una Grande Russia e dell’unicità
del popolo russo. Putin dice che il crollo dell’impero sia stato
una catastrofe geopolitica. No, non è ridicolo. Basti vedere come la
Crimea sia stata annessa manu militari e temo che la stessa sorte
spetti all’Ucraina orientale. Tutto questo mentre l’86 per cento
della popolazione appoggia il capo dello Stato».
Da vera scrittrice che la realtà la capisce se organizzata in uno schema narrativo letterario, Aleksievic cita Dostoevskij, acutissimo analista dell’animo umano. «Dostoevskij diceva che l’uomo russo “vuole sempre di più”. Non gli basta un po’ di benessere materiale. Per il russo l’idea, se appare nobile, è in cima a ogni cosa». Alza la voce: «Stando a un recente sondaggio, alla domanda “siete disposti a sacrificare la vostra vita e la vita dei vostri familiari perché la Russia torni grande?”, il 37 per cento del campione ha risposto di sì». E quando pronuncia la frase “La Russia torni grande” il tono della voce tra ironia e indignazione imita quello solenne degli speaker di radio Mosca di una volta.
Il sincretismo dei simboli lo si è visto alla parata militare il 9 maggio a Mosca: stella rossa e coccarde zariste di San Giorgio. «È l’ethos imperiale che ha vinto, non importa se zarista o stalinista», dice Aleksievic e aggiunge con tristezza: «Stalin non è più oggetto di critica. Sono usciti moltissimi film e libri che lo elogiano. A Perm stanno chiudendo il museo del Gulag». Il Lager Perm-36 è stato costituito nel 1946, come luogo di lavoro forzato e morte per stenti. Chiuso da Gorbaciov è stato trasformato in un luogo della memoria. Continua la scrittrice: «In Russia viene riscritto il passato. Si arriva a dire che i democratici siano stati dei delinquenti e c’è chi chiede di trascinare Gorbaciov davanti a un tribunale». Riflette: «Il 21 settembre ci sono state manifestazioni contro la guerra. A Mosca sono scese in piazza 20mila persone. Ma la grande maggioranza la pensa diversamente».
Le ragioni di questa involuzione? Aleksievic risponde: «Viaggiando nel Paese ho toccato con mano la sensazione di risentimento, sentivo racconti di gente derubata, ingannata dagli oligarchi». E poi introduce il concetto della “cucina”. Ai tempi del comunismo, i dissidenti stavano molto in cucina; a bere il tè e discutere dei libri proibiti. Dice: «Noi dalla cucina non siamo mai usciti. Pensavamo che il popolo volesse vedere stampati i libri di Solzenitsyn, di Lev Razgon (17 anni nel Gulag) di Salamov. E invece i libri sono rimasti invenduti. Ma sono fallite pure le élite. Si sono messe al servizio di Putin e dei potenti. Si tratta di interessi molto materiali: chi ha un ristorante, chi un figlio in carriera. Ognuno ha una giustificazione per il proprio conformismo». E conclude: «Erano belli i tempi in cui eravamo dissidenti nei confronti del potere. Essere invece in dissenso con il popolo, come avviene oggi, è terribilmente e tragicamente complicato ».
La Repubblica – 25
settembre 2014
Svetlana Aleksievic
Tempo di seconda mano
Bompiani, 2014
euro 24
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