Tra Gramsci e Gogol
di Domenico TaliaSe un narratore sceglie di usare la frase di un uomo politico come esergo del suo romanzo, il rischio di buttarla in politica va messo nel conto. Se il politico che ha scritto quella frase non è uno dei tanti ma è Antonio Gramsci, uno dei migliori che l’Italia ha saputo esprimere, il rischio aumenta. Che Saverio Strati volesse raccontare una storia in cui la coscienza politica del protagonista fosse la stella polare da seguire, lo si può intuire dal titolo del romanzo, È il Nostro Turno (Mondadori Editore, 1975), e da quella citazione di Gramsci:
«Nessuna azione è possibile se la massa stessa non è convinta dei fini che vuole raggiungere e dei metodi che vuole applicare.»
Frase che gronda di quella coscienza di classe che ha riempito la storia del Novecento e che oggi sembra soltanto un ferro vecchio che nessuno vuole più usare. Eppure, nonostante le categorie del Novecento sembrano ormai servire a poco in questi tristi anni Duemila, in quel romanzo di Strati, le considerazioni di uno studentello di paese che leggeva Gramsci e che durante la metà del secolo scorso viveva e studiava in una città di provincia nel profondo Sud italiano potrebbero fornire suggerimenti utili a comprendere il nostro tempo.
«Sarebbe importante studiare questo fenomeno che si sta affermando in Italia: la divisione del territorio nazionale in aree di potere. Bisognerebbe avere la fantasia di un Gogol e scrivere un romanzo dal titolo: Anime Morte, Italia Anni Cinquanta.»
Erano questi i pensieri che Saverio Strati ha messo in bocca al giovane protagonista di È il Nostro Turno. Pensieri di un giovane proletario che sa bene che soltanto la scuola e lo studio lo potranno salvare dalla sua condizione di povero meridionale. Pensieri che mettono insieme Gramsci e Gogol e che ancora oggi potrebbero essere utili strumenti per comprendere le forme di potere e le anime morte dell’Italia degli anni Duemila.
Saverio Strati è scomparso a Firenze nell’aprile scorso, qualche mese prima di compiere novant’anni (era nato nell’agosto del 1924), dopo aver scritto molti romanzi e un grande numero di racconti. La sua è una vasta produzione letteraria che è fortemente intrecciata con la storia del Novecento del Mezzogiorno d’Italia e allo stesso tempo costituisce una sorgente permanente di riflessioni molto attente sulla condizione umana. Tra i tanti romanzi e raccolte di racconti che Saverio Strati ha scritto, È il Nostro Turno è un romanzo che ha ricevuto non molta attenzione da parte della critica, almeno non quell’attenzione che hanno avuto il romanzo che l’ha preceduto, Noi Lazzaroni (Mondadori Editore, 1972), e quello che lo ha seguito, Il Selvaggio di Santa Venere (Mondadori Editore, 1977), con il quale Strati vinse il premio Super Campiello nel 1977. Eppure questo romanzo, più di altri, racconta la parabola dello scrittore contadino e muratore che è stato Saverio Strati. La storia di un giovane del Sud che cerca, attraverso lo studio, un modo per superare le difficoltà di una condizione di povertà ed emarginazione comune alla gran parte delle popolazioni meridionali nel dopoguerra e durante la metà del Novecento. Il racconto è costruito intorno al tema della ricerca e del conseguimento di un titolo di studio da parte dei figli dei poveri contadini meridionali. Il titolo di studio come elemento di superamento dell’emarginazione e come strumento di riscatto per chi nella vita si è dovuto piegare ai voleri dei potenti e ha sempre “faticato” senza mai avere dal lavoro la giustizia sociale e il progresso cui aspirava.
È il Nostro Turno mantiene e rafforza la tradizione, già presente fin dai racconti de La marchesina (Mondadori Editore, 1956), di un autore che, come aveva scritto Mario La Cava, «… vede sé come uno dei tanti personaggi della vita,…». In questo romanzo il protagonista è un giovane studente calabrese che racconta le sue avventure vissute in luoghi lontani dal suo piccolo paese, nei quali arriva spinto dalla necessità di ottenere un titolo di studio che potrà offrirgli un’esistenza diversa da quella dei suoi genitori e di tanti suoi paesani. A conferma degli aspetti autobiografici del romanzo, la storia si svolge tra Catanzaro, Reggio Calabria e Firenze. Luoghi in cui il protagonista vive per ragioni di studio, luoghi che nel racconto sono descritti con gli occhi di un figlio di contadini poveri che vive in un paese della Calabria interna e si sente inferiore in un mondo cittadino popolato da piccoli borghesi ipocriti e mediocri. La storia si sviluppa nella narrazione dei rapporti del protagonista con i suoi compagni di studi, con le persone conosciute nella sua vita da pensionante, con le prostitute e i poveri incontrati alla mensa cittadina, con le ragazze con cui intreccia piccoli amori mai perfettamente corrisposti, con donne più o meno mature con le quali i suoi primi rapporti sessuali sono quasi sempre furtivi e problematici.
Dietro tutte queste vicende, a volte misere, che si sviluppano quotidianamente in quel contesto cittadino, c’è l’essenza del romanzo che già il suo titolo rivela: la formazione di un giovane intellettuale meridionale che si interroga sul ruolo storico che lui e i giovani istruiti come lui dovrebbero avere nella costruzione di una società meridionale libera dagli antichi poteri che l’hanno costretta all’arretratezza, condannandola ad un miseria diffusa e al dominio dei corrotti. Strati e il suo personaggio si chiedono se non sia giunto il tempo (il turno) di una nuova classe di persone istruite e libere da condizionamenti che possa diventare la classe dirigente di un nuovo meridione. Lungo questa traccia si sviluppa il percorso della narrazione che, dietro le vicende quotidiane dei personaggi, affronta in maniera originale e profonda il rapporto tra le potenzialità dei giovani meridionali e il mancato sviluppo del Sud. È questa la ragione principale che rende questo romanzo di strettissima attualità, anche se sono trascorsi quarant’anni da quando Strati lo ha scritto e più di cinquanta dall’epoca in cui la storia è ambientata.
Infatti, insieme a un piano “interno” che fornisce una sorta di contributo ideologico-politico che esprime la necessità di acquisire una coscienza sociale generatrice di una nuova classe dirigente, il romanzo di Strati, contiene anche un piano “esterno” descrittivo che ha valore di memoria storica ed è costituito dal racconto dei luoghi e dei contesti sociali narrati, come, ad esempio, avviene nella prima parte del romanzo con le descrizioni dettagliate del paesaggio urbano e del contesto sociale di Catanzaro. Descrizioni che oggi rappresentano una singolare testimonianza sui luoghi e sulla vita di quella città nei decenni della metà del secolo scorso.
Il titolo, come abbiamo detto, indica in una forma evidente il significato delle vicende narrate e segue una tradizione presente in altri romanzi di Strati come Mani Vuote (Mondadori Editore, 1960) e Noi Lazzaroni i quali, come La Cava aveva notato in una sua recensione, sono titoli che indicano «espressioni isolate che hanno una funzione orientativa nell’insieme dei motivi ispiratori di un’opera.» La stessa funzione orientativa si scorge nell’esergo gramsciano del romanzo. E a confermare l’ispirazione gramsciana del piano ideologico-politico del romanzo c’è il suo carattere anti-borghese («che c’entro io in questo mondo di borghesi!») che spesso emerge nella narrazione e nelle tante frasi tramite le quali si richiama il ruolo degli intellettuali come soggetti che hanno il compito di «studiare la realtà, minuziosamente, per essere in grado di cambiarla laddove sia necessario.» Il protagonista del romanzo racconta esplicitamente di aver letto le Lettere dal Carcere di Gramsci e di averne tratto ragioni di riflessione. In un passo del romanzo è anche narrato un episodio in cui regala quel libro ad una sua compagna di studi che mostra di non apprezzarlo e questo atteggiamento superficiale della ragazza per lui è motivo di delusione. Volendo sottolineare gli aspetti autobiografici del romanzo si può notare che proprio nello stesso anno in cui Strati ha sostenuto per la prima volta l’esame per la licenza ginnasiale a Catanzaro, la casa editrice Einaudi ha pubblicato le Lettere dal Carcere.
L’ispirazione gramsciana spinge il protagonista a meditare sulla condizione degli studenti figli di poveri contadini e lo conduce ad acquisire una coscienza del ruolo sociale che quelli come lui devono avere. Giovani studenti che non debbono accontentarsi di vivere una vita più agiata dei loro padri, ma devono assumere un ruolo di guida nella trasformazione sociale del Mezzogiorno:
«Non è più possibile che ci respingano ai margini … Non c’è scampo per i nostri avversari; questo è il nostro turno.»
Questa visione che il romanzo esprime ha ricevuto alcune critiche nel periodo successivo alla sua pubblicazione da chi ha ravvisato un approccio narrativo eccessivamente ideologico e troppo schierato politicamente per un romanzo che in alcuni passaggi contiene diverse invettive contro i mali della società meridionale e italiana che a taluni sono apparse quasi velleitarie. Eppure, a quarant’anni dalla sua pubblicazione, questo romanzo che non ha avuto la fortuna di altre opere di Strati, mantiene molti elementi di attualità soprattutto a causa delle condizioni di difficoltà in cui ancora oggi si trova il Sud, per l’estrema incertezza – accresciuta anche a causa della crisi – in cui vivono i giovani meridionali e per la persistente arretratezza sociale, di infrastrutture e di servizi che il Sud registra rispetto al resto del Paese. Il libro mostra tramite una narrazione realista anche l’incapacità e le pratiche corruttive non rare nella classe politica e i suoi dimostrati rapporti con la malavita. Tutti questi elementi, ancora oggi molto attuali, sono analizzati tramite le vicende e gli atteggiamenti dei personaggi e sono denunciati senza giustificazioni in questo romanzo “politico” che Strati ha scritto nel periodo che va dal 1973 al 1974.
È sufficiente citare alcuni brevi passaggi del libro per mostrarne l’attualità e l’analisi lucida di mali sociali purtroppo ancora oggi ben presenti nel Meridione d’Italia:
«Le forze vive che potrebbero curare i bubboni sono via, partono ogni giorno. … e i governi e i politici al potere non si preoccupano minimamente di creare condizioni respirabili di vita.»
E ancora
«Se non si è conosciuti, negli ospedali, dicono si rischia di crepare.»
Momenti di sconforto in cui il protagonista mostra di avere perso ogni speranza sul futuro del suo mondo:
«Non ci ritornerò mai più al Sud. Il Sud è come una carcassa d’asino abbandonata agli elementi.»
Fino a considerazioni e domande che sembrano essere state scritte oggi e che dimostrano come le difficoltà del Mezzogiorno non siano poi così cambiate di molto rispetto a quelle che Strati denunciava:
«E il Sud, il Sud scadrà sempre di più? Ha superato ormai da tempo i limiti di ogni depressione. Più in basso non è possibile scendere. Ora che è arrivato al fondo, scatterà … o soggiacerà per sempre?»
Insomma, dopo mezzo secolo molte cose non sono cambiate e l’analisi lucida che Strati conduce si dimostra tuttora valida e lo è anche quando il giovane protagonista del suo romanzo riflette su se stesso e si scopre essere diventato uno dei tanti «indifferenti consumatori», uno di quelli che sarebbero dovuti essere classe dirigente ed invece sono «diventati degli squallidi impiegati».Infine, un ultimo aspetto che testimonia l’attualità del romanzo sta negli accenni al nuovo ruolo della ‘ndrangheta che precedono l’analisi dettagliata che Strati ha condotto tramite una narrazione dall’interno, contenuta ne Il Selvaggio di Santa Venere. Accenni che rivelano come i rapporti tra malavita e politica erano ben presenti nella narrazione storicistica di Strati:
«La mafia infatti è diventata classe di potere e nell’amministrazione e nella scuola; classe di potere nei neonati governi regionali la cui funzione è pressoché nulla; è inutile, è di peso e d’intralcio; è covo di ruffiani, di mediocri, e sede di mafiosi».
L’insieme di tutti questi aspetti inseriscono questo romanzo nella traccia narrativa che Strati ha saputo costruire con le molte sue opere fondate sulla descrizione impietosa dei mali del Sud, raccontati tramite le vite dei suoi personaggi e per mezzo di un linguaggio spesso crudo e diretto, non mediato da alcuna diplomazia espressiva o da compromessi con le mode letterarie del suo tempo. Una lingua che è formale, misurata, monocorde quando a parlare sono i piccolo borghesi che popolano il romanzo, mentre diventa forte, rude, a volte rabbiosa ed efficace quando esce dalla bocca delle persone del popolo, dei poveri che usano espressioni dialettali dirette e piene di significato. Le diverse costruzioni linguistiche sono uno degli strumenti con cui Strati riesce a esplicitare le differenze tra i gruppi sociali che descrive, esprimendo un chiaro punto di vista che la sua narrazione non vuole nascondere e che, seppure quando è diventata invettiva non ha ricevuto giudizi positivi, conferisce una caratteristica di verità e chiarezza alla sua opera letteraria.
Pubblicato oggi da http://www.nazioneindiana.com/
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