Wright Mills |
Scritta alla fine
negli anni Cinquanta, "L'immaginazione sociologica" è
un’opera che mantiene intatta la forza analitica nella denuncia
della sottomissione dello «scienziato sociale» alle élite
dominanti.
Riccardo Mazzeo
Charles Wright Mills,
un classico per trovare il regno della libertà
È piuttosto
raro che libri fondamentali ma esorbitanti
dalle mode o da filoni recuperati e rilanciati
da particolari editori (come numerosi testi
antropologici citati da Edgar Morin ne L’uomo e la
morte nel 1951 e ripubblicati, in questi anni,
da Adelphi) giungano a una nuova edizione dopo
più di mezzo secolo, ed è quindi con grande ammirazione
che ho salutato la ripubblicazione da parte de
Il Saggiatore di un testo cardinale del
pensiero del Novecento come L’immaginazione
sociologica di Charles Wright Mills, che era uscito
nel 1959 e che viene ora ripoposto da il Saggiatore.
È degno di nota anche
che l’evento non sia dipeso né da un anniversario
né da qualche congiuntura favorevole al
rilancio del libro. Vero è che Zygmunt Bauman
ne ha sottolineato il valore e la forza
dirompente nel suo ultimo libro La scienza della libertà, ma
le due opere sono uscite di recente in Italia quasi in
contemporanea e quindi si può escludere
qualunque influenza che non fosse la pregnanza del
testo di Wright Mills in sé e per sé.
Cercherò quindi di
spiegare perché la riedizione sia preziosa
e utile per i lettori di oggi e quali ne siano
le motivazioni.
Innanzitutto
si tratta di un libro intenso e appassionato di uno
«scienziato sociale» che già allora coglieva per un verso la
missione fondamentale della sociologia,
poiché «non si può comprendere la vita dei
singoli se non si comprende quella della società,
e viceversa», l’allargamento di prospettiva
che sarebbe stato reso esplicito dalla globalizzazione
allora solo in nuce («la storia che incide oggi su ogni uomo
è storia mondiale»), e i rischi di
tradimento della missione dei sociologi che sono
oggi sempre più inclini a barattare la nobiltà del
compito di allargare la consapevolezza
della verità e della ragione al più vasto numero possibile
di persone con i trenta denari di un avanzamento
di carriera, dell’immissione nei circuiti
finanziariamente proficui delle
fondazioni o delle consulenze pagate dai
potenti, o semplicemente con la
rassicurazione di uno status tanto più
solido quanto più sterile offerto dall’autoreferenzialità,
dal dialogo tra «pari» in un gergo per iniziati, nella
dimensione aridamente «scientifica» dei
teorici che discutono fra di loro della gente comune
dimenticando che sarebbe loro dovere parlare proprio
alla gente comune per migliorare la loro condizione.
Wright Mills, morto
a soli 46 anni, è stato una delle voci più critiche
delle componenti artefatte e illusorie
della democrazia del suo Paese: «Gli Stati Uniti di oggi
sono democratici essenzialmente nella forma
e nella retorica dell’aspettativa. Nella sostanza
e nella pratica sono molto spesso non democratici,
e ciò appare in modo chiarissimo in determinati
campi. L’economia delle grandi società non è gestita né
sotto forma di assemblee di cittadini né mediante un
complesso di poteri responsabili verso coloro che
subiscono direttamente le conseguenze della
loro attività. Lo stesso può dirsi sempre più per la
macchina militare e per lo stato politico». Non
era ottimista riguardo alle probabilità
che i sociologi potessero «salvare il mondo»
ma riteneva che, dato che comunque potrebbe essere
possibile riuscirvi, essi avessero in ogni caso
il dovere di tentare l’impresa di «risistemare gli
affari umani secondo gli ideali di libertà e di ragione».
Ma soprattutto era
capace di «antivedere» alcune problematiche
allora inimmaginabili, in un tempo che riponeva
una fiducia senza riserve nella tecnica di cui si
coglievano unicamente le valenze salvifiche:
«Non dobbiamo forse, nella nostra epoca, prepararci
alla possibilità che la mente umana, come fatto
sociale, si deteriori qualitativamente
e si abbassi ad un livello culturale inferiore,
senza che molti se ne accorgano, sopraffatti come siamo
dalla massa delle piccole invenzioni tecnologiche?
Non è forse questo uno dei significati della
frase “razionalità senza ragione”? Del termine
“alienazione umana”? (…)L’accumularsi degli
espedienti tecnologici nasconde questo
significato: coloro che se ne servono, non li
capiscono; coloro che li inventano, non comprendono
molto di più. Ecco perché non possiamo, se non con molti
dubbi e riserve, prendere l’abbondanza tecnologica
come indice di qualità umana e di progresso
culturale».
La sociologia,
per seguire la propria vocazione, deve alzare lo sguardo
oltre la «riserva» del proprio territorio
e interessarsi alle altre scienze umane: la storia
(«per molti problemi (…) possiamo ottenere
informazioni adeguate soltanto nel passato»), la
psicanalisi («Il prossimo passo degli studi
psicanalitici sarà di fare largamente
e pienamente per le altre zone istituzionali
ciò che Freud ha cominciato a fare così
splendidamente per le istituzioni di
parentado di un tipo scelto») e naturalmente il
cinema, l’arte, la letteratura eccetera. Basti
pensare che fra il 1940 e il 1950 aveva letto l’opera
omnia di Balzac («ed ero stato profondamente
colpito dal fatto che si fosse assunto volontariamente
il compito di “coprire” tutte le principali
classi e tutti i principali tipi della società
dell’epoca che voleva far propria».
Forse l’epitome più
fedele e acuta di Wright Mills è stata data proprio
da Bauman ne La scienza della libertà: «distinse
autorevolmente l’immaginazione sociologica
dalla sociologia e mostrò come la pratica di
quest’ultima non abbia alcuna necessaria connessione
con la prima. Wright Mills fornì argomenti irrefutabili
a sostegno del perseguimento di
un’immaginazione sociologica che cercasse di
imbastire una conversazione con le donne e gli
uomini (per) mostrare come i “guai personali” siano
inestricabilmente legati a “questioni
pubbliche”.
L’immaginazione
sociologica rende ciò che è personale
politico [(E), al pari della narrativa e del
giornalismo, rende possibile lo sviluppo
di una “qualità della mente” che permette alle donne
e agli uomini di capire e raccontare ciò che
accade loro, ciò che sentono e ciò a cui aspirano».
Il Manifesto – 4
settembre 2014
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