Che in Italia da tempo
non ci sia più una sinistra è un dato di fatto. Un libro cerca di
capirne le ragioni. Una lettura consigliata ai nostalgici del vecchio PCI e di quella stagione politica.
Ernesto Galli
Della Loggia
«Riformisti»
con il culto di Lenin
L’ala riformista del
Partito comunista, i cosiddetti «miglioristi», ha rappresentato con
il Psi di Craxi la grande occasione mancata della sinistra italiana.
E al tempo stesso gli uni e l’altro insieme hanno probabilmente
rappresentato la grande occasione mancata che ebbe l’intero sistema
politico della Prima Repubblica di rinascere dalle ceneri a cui lo
stavano avviando quegli anni Ottanta che furono la sua ultima
stagione. Un invito a riflettere su questa pagina importante della
nostra storia politica è il libro di Umberto Ranieri giunto da
pochissimi giorni in libreria (Napolitano, Berlinguer e la luna. La
sinistra riformista tra il comunismo e Renzi , Marsilio): una pagina
che l’autore, come si sa, ha vissuto per così dire dal di dentro,
sia come dirigente del Pci a Napoli e nel Mezzogiorno sia come
esponente nazionale di rilievo del partito.
Il libro di Ranieri contribuisce a dare risposta a una domanda cruciale: e cioè perché mai l’Italia sia stato l’unico Paese dell’Europa occidentale nel quale per tutto il Novecento il massimalismo si è dimostrato sempre più forte del riformismo. E per quale motivo, quindi, essa non ha mai avuto un governo realmente di sinistra, cioè un governo socialdemocratico. Le sue pagine ce lo fanno capire ripercorrendo, in particolare, le tappe di quello che fu il vano tentativo dei «miglioristi», guidati a partire dagli anni Settanta da Giorgio Napolitano, di convincere il Partito comunista della necessità di adottare una linea che andasse per l’appunto verso l’affermazione nella sinistra di una prospettiva riformista.
Il fatto è, a me pare, che i «miglioristi» non seppero o non vollero rendersi conto (e si direbbe che lo stesso Ranieri oggi stenti a vedere la questione con la necessaria chiarezza) di un punto che viceversa era il punto: vale a dire che, lungi dal poter essere la soluzione del riformismo in Italia, proprio il Pci ne rappresentava viceversa il massimo ostacolo. Per l’ovvia ragione che la nascita e poi tutta la storia di quel partito — all’ombra della rivoluzione bolscevica e dell’esperienza sovietica — non solo non avevano nulla a che fare con il riformismo medesimo, ma ne avevano sempre costituito una coerente antitesi. Come del resto i «miglioristi» per primi avrebbero dovuto ben sapere: non erano infatti stati per l’appunto quell’origine e quella storia, con tutte le loro relative mitologie, ad avere spinto ognuno di loro, in tempi diversi, ad entrare nelle file del Pci? Sicuramente sì, non certo la prospettiva di qualche placida evoluzione socialdemocratica della società italiana!
Il Partito comunista,
insomma, non poteva diventare in alcun modo qualcosa in
contraddizione con il proprio Dna. E quando dico Dna, non intendo
solo la sua radice storica e la sua natura profonda, ma soprattutto
lo sfondo mitico-ideale, le aspettative in parte escatologiche, la
cultura politica di base dei suoi militanti (vorrà pur dire
qualcosa, ad esempio, che ancora nel 1970, per il centenario della
nascita di Lenin, il Pci lanciasse una massiccia e capillare campagna
per la pubblicazione, la diffusione e la lettura dei suoi scritti).
Intendo cioè tutto il deposito di effettiva predisposizione al
massimalismo che era propriamente il suo e che esso si trovava
oggettivamente e continuamente ad alimentare.
Ciò che, a dispetto di quanto ora ho detto, spinse i «miglioristi» a coltivare il loro sogno fu probabilmente il fatto che tuttavia tale massimalismo — a differenza di quello sgangheratissimo dei socialisti del «biennio rosso» — non giunse mai a concepire o predicare apertamente alcuna rottura istituzionale. Si fece anzi scrupolo costante di porsi a difesa delle istituzioni, sebbene lo facesse però in nome di una versione sommamente ambigua della categoria di antifascismo: che il Pci concepì sempre per un verso come legittimazione dell’ordinamento repubblicano, ma per l’altro anche come promessa di una futura, anche se mai meglio precisata, «rivoluzione democratica» .
Riuscire a combinare una prassi quotidiana democratica con il costante richiamo al mito massimalista-rivoluzionario dell’Ottobre e dell’Urss fu per l’appunto, come si sa, il capolavoro politico del togliattismo. E al togliattismo la destra comunista rimase subalterna fino all’ultimo.
Come il libro di Ranieri
testimonia puntualmente — e direi quasi dolorosamente — fino
all’ultimo essa, per esempio, non ebbe il coraggio di dire con la
chiarezza necessaria che cosa era in realtà il regime sovietico;
fino all’ultimo s’inchinò reverente al mito dell’«unità del
partito» (la prima volta che osò votare contro fu quando in undici
si dissociarono dalla designazione di Occhetto a vice del segretario
Natta: nel 1987, allorché in pratica stava venendo giù tutto); e
pure all’ultimo, come scrive Ranieri, i miglioristi «lasciarono
che ancora una volta i conti con la durezza della storia fossero
rinviati», avallando il ridicolo tentativo della strategia del
«nuovo Pci», mentre quello vecchio stava ormai per essere travolto
dal crollo del Muro di Berlino. Desiderosi di stare comunque nella
maggioranza insieme a coloro che fino al giorno prima avevano
avversato.
Il maggior pregio del libro di cui si sta dicendo alla fine sta proprio qui. Nell’essere una ricostruzione attenta e personalmente partecipe (non scevra di una cosa in Italia rarissima, di cui va dato il giusto merito al suo autore: l’autocritica ) del tortuoso itinerario, dei contraddittori passaggi, di una posizione politica che, nata per essere alternativa ai suoi avversari, non ebbe però mai né la lucidità né il coraggio per esserlo davvero.
Il Corriere della sera –
17 settembre 2014
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