10 settembre 2014

IL "SONNO" DI AMELIA ROSSELLI










Se me li sono persi: “Sonno” di Amelia Rosselli

["Se me li sono persi", è una rubrica di letture inattuali di libri imperdibili, a cura di E. L.]

di Eugenio Lucrezi
AMELIA ROSSELLI, Sonno – Sleep (1953-1966), Rossi & Spera, Roma, 1989
Paradosso centrale di tutta la poesia di Amelia Rosselli è il primeggiare di due elementi coesistenti pur nel contrasto della polarizzazione netta: l’espressione non fluente ma risoluta di un soggetto che si dice rischiando sempre il travaso e la dispersione del senso e l’abbandono della forma; l’autonomia squisitamente linguistica di una scrittura che si propone alla ricezione ne suoi contorni materici, anzi nel pieno spessore di corpo vivente nella deformazione e nello scarto, nell’eccesso articolatorio e connotativo delle frasi. Dicevo di una disfluenza: segnale delle frequenti interruzioni dei liberi flussi psichici, opportunità per riprese, deviazioni, nuove intraprese; occasione d’uso di un vastissimo repertorio di figure iterative, ripetizioni con variazione che sono il motore retorico di questa poesia.
Il libro del quale ci occupiamo, edito nella collana di poesia erotica femminile diretta da Gianna Sarra, raccoglie venti testi tratti da un corpus assai più vasto di poesie in inglese scritte a partire dal 1953, accompagnati a fronte di pagina dalle traduzioni che Antonio Porta volle farne, credo pochissimo prima della scomparsa. «Mi piaceva l’energia delle sue invenzioni – ha detto l’autrice in una recente intervista –, però faticavo nella lettura perdendomi ritmicamente. Avrei voluto parlargliene: purtroppo non riuscimmo ad incontrarci». Traduzioni “energiche”, dunque. Vicine agli originali, se non nei risultati ritmici, nella resa espressiva complessiva (affinità tra i due poeti sono state d’altro canto già rilevate; per esempio da Mengaldo). Ha detto ancora la Rosselli: «Questi testi non rappresentavano una soluzione ma un esercizio. Li ho riuniti nel ’66, per mostrarli agli amici. Li consideravo assolutamente privati». E «qualcosa di momentaneo, di sperimentale» traspare dalla intera sequenza, nella quale fulminee visualizzazione di eventi psichici: «you seem to hear angels moching you, / you seem to cry out look the stars! / and run out rapid against a fence of spine» si alternano a figurazioni allegoriche e fiabe teatralizzate. In queste, le opposizioni diametrali degli antagonisti (angeli/diavoli, ghiaccio/fuoco, eros/thanatos, luce/buio) innestano movimenti interattivi di forte evidenza drammatica e scenica, figurale, appunto; e di scarsissima efficacia comunicativa, se le accese visioni dell’altro avvengono sempre nel silenzio dialogico, sotto le insegne, poco utili alle strategie dell’incontro, dell’antinomia attacco/distacco (e del conflitto di avvicinamento/allontanamento descritto da Freud). Ma per un soggetto-amore che «interamente dedica il suo tempo alla solitudine» (e qui citiamo dalla traduzione di Porta) due amanti che si abbracciano «in un accesso…, le loro sorti / legate strettamente alle loro ossa premute», è «come se in un accesso avessero rinunciato / a fare l’amore. Le loro ossa / crebbero, sembrarono enormi, un apparecchio / pesante da maneggiarsi. Come se ne / l’accesso d’amore rimanessero sconvolte / le digestioni».
Il corpo torturato, reso inadatto all’amore dalle proliferazioni neoplastiche delle proprie membra che l’incontro stesso scatena, trova il suo omologo nella smorfia sofferente del recitante, nell’eccesso di svelamento che illumina la scena della finzione rappresentativa: «Ancora la farsa illuminava il gioco degli attori / entravano in fila attraverso il palco e sopra: fra poco / sarebbe diventato buio; adesso è luce, perché / noi due non rispondiamo alla nostra vocazione». «…enon / it had been dark; it is light now, that / we two do not respond to our calling»: la scrittura si fa così teatro che riesce ad animare, nella luce piena della pagina, le sfide della finzione; riuscendo nella «usurpazione sfidante» (challenging usurpation) del buio e delle sue verità operative: «quick birds these verbs / do claim ignorance. The black branch of thought / leaves no life to thought; it resist all / cankering with craft, spice, tiresome desires / and tries, in its black fashion that it should / not die»: «uccelli agili questi verbi / reclamano ignoranza. Il ramo nero del pensiero / non lascia vita al pensiero; resiste ad ogni / gioco con astuzie, spezie, desideri
noiosi / e cerca, nella sua maniera nera, di / non morire».
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(da: “Altri termini”, IV serie, n°1, settembre-novembre 1990)

10 settembre 2014
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