11 settembre 2014

PER GIACOMO GIARDINA



    Gli amici che seguono questo blog hanno potuto già leggere cosa ho scritto ( e  pubblicato anche sulla rivista nuova busambra) sul poeta pecoraio di Godrano (PA).
    Domani, in questo stesso spazio, pubblicheremo alcuni suoi versi. Oggi recuperiamo un articolo di Anna Maria Bonfiglio pubblicato su      http://viadellebelledonne.wordpress.com/2009/04/11/giacomo-giardina-l%E2%80%99ultimo-futurista/                 qualche anno fa.

  


Giacomo Giardina, l’ultimo futurista

di  Anna Maria Bonfiglio

Il Movimento Futurista, di cui quest’anno si celebra il centenario, ebbe in Sicilia vasta eco ed annoverò grandi artisti. Fra i tanti, pittori, poeti, scrittori, merita di essere ricordato Giacomo Giardina che, pur avendone percorso solo un breve tratto trasversale, fu da Marinetti incoronato, in una cerimonia che si svolse a Napoli, “poeta record meridionale”. La definizione di “poeta futurista” Giardina se la portò appresso per tutta la vita ma nella realtà la sua poesia ebbe due fasi: la prima fu appunto quella contraddistinta dal segno dell’avanguardia marinettiana e andò dalla fine degli anni Venti ai primi anni Quaranta, la seconda iniziò nel 1959 e si protrasse fino ai primi anni Ottanta.
Nato a Godrano il 30 luglio del 1903, Giacomo Giardina frequentò le prime due classi elementari con scarso profitto, sebbene seguito dal padre che era un insegnante, e ancora giovinetto iniziò a fare il pecoraio. Da autodidatta cominciò a scrivere i primi versi ispirati alla vita pastorale, finché venne a contatto con il Futurismo e con Marinetti che lo presentò ufficialmente al pubblico palermitano durante una sua escursione in Sicilia, dove il movimento aveva parecchi seguaci, e che curò la prefazione della sua prima raccolta di poesie, “Quand’ero pecoraio”, pubblicata nel 1931 dall’editore Vallecchi. Del libro si occupò quasi tutta la stampa italiana e Giardina esplose come caso letterario. Con la morte di Marinetti, avvenuta nel 1944, sul Futurismo cala a poco a poco il silenzio, Giacomo Giardina accantona la poesia e intraprende l’attività di venditore ambulante. Finché nel 1959 il critico d’arte Francesco Carbone e il pittore Nicolò D’Alessandro lo traggono dall’isolamento riuscendo a fargli riprendere l’esercizio della poesia. Avviene allora che Giardina entra nel clima artistico che anima Bagheria, dove fra gli altri vivono ed operano Renato Guttuso e Ignazio Buttitta, e dove diviene un personaggio sia per la sua poesia che per la sua figura fisica, definita da Marinetti “corpo di gabbiano assottigliato”, tanto da venire ingaggiato dal regista Francesco Rosi per due film. Iniziano le sue frequentazioni con artisti di rango quali appunto Guttuso, Carlo Levi, Bruno Caruso, ma contestualmente continua a mantenere il contatto con la sua realtà densa di figure popolari, di contadini e di venditori ambulanti, e rallegrata da un rapporto vivo e intenso con la natura ed il mondo degli animali. Ed è da questa dimensione rurale, dall’immersione in una socialità agro-pastorale che Giardina trae un dato universale: la nozione di natura come forza primigenia e generatrice, nucleo dal quale parte tutto il ciclo vitale.
Figura unica, quella di Giacomo Giardina, nel mondo della poesia siciliana del secondo Novecento, e figura atipica, i cui testi esplodono autonomi, non asserviti ad alcuno stile ancorché inquadrati all’interno del movimento futurista per i percorsi aerei della parola, per la dirompenza dei versi, per una formale rottura con il potere della logica precostituita, che gli valsero l’appellativo di “ultimo futurista”. Ma dal futurismo ortodosso Giardina si distanzia per una sostanziale diversità di modelli: mentre il futurismo postula l’avvento e l’incremento della tecnologia, l’ascesa e il prevalere della macchina sull’uomo, la poetica del Nostro è un segno di riconversione all’interno del Movimento, perché si muove nell’area della natura, del paesaggio bucolico, dell’umore agreste, e pone al centro del suo manifestarsi un interesse antropologico e sociale il cui universo è fissato nel territorio del poeta. Giardina ha vissuto la sua terra, l’ha spolpata attraverso la parola, si è eretto contro la sua Rocca Busambra, nel cuore dell’entroterra palermitano, e senza mai spiccare il volo fisico si è librato sulle vicende di un paese assurto a metafora di una condizione. Preferendo vivere appartato, senza clamori e lontano dalle polemiche, e affidando ai suoi amici artisti la sua vita e la sua poesia, ha permesso che la sua opera rimanesse privilegio della sua terra, suo “infinito solco siciliano”. Al di là dei suoi dati biografici vale la pena di soffermarsi sulla sua poesia-racconto che ci narra della sua vita di giovane pecoraio, del suo mestiere di venditore ambulante, del suo status di poeta autodidatta perseguitato fino alla morte dalla povertà, considerato alla stregua di fenomeno per la sua capacità di scrivere poesia nonostante le scarse nozioni scolastiche. E forse un fenomeno Giacomo Giardina lo fu. Perché seppe cogliere la poesia dell’esistenza attraverso le cose più semplici e genuine, perché seppe dialogare con i fiori e con il popolo, perché seppe colmare il suo lungo tragitto terreno di umori densi, gonfi di amare realtà e di trasognate sensazioni. Nella sua poesia visse un’arcadia neorealista nella quale confluirono natura e uomo, contemplazione bucolica e lotte sociali, spirito agreste e mentalità urbana. Morì a Bagheria nel 1994.

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