Questa mattina i principali quotidiani nazionali (Corriere della Sera e La Repubblica) hanno pubblicato in prima pagina due editoriali assai critici nei confronti di Renzi. Gli argomenti usati dalle due brillanti penne del giornalismo italiano (Ernesto Galli della Loggia ed Ezio Mauro) hanno più di un fondamento. Eppure trovo strano che i due giornali, non sempre d'accordo tra loro, pur essendo espressione, entrambi, della borghesia nazionale, dopo aver sostenuto il rampante politico fiorentino nei suoi primi mesi attività, abbiano contemporaneamente deciso di abbandonarlo all'indomani della sua prima vera sconfitta.
Di seguito ripropongo l'editoriale del Corsera . fv
Le cinque ragioni di una sconfitta
La
rovinosa disfatta di Matteo Renzi manifesta un rifiuto profondo che via via ha
preso corpo nei confronti della personalità dell’ormai ex premier, il rigetto
della sua proposta in un certo senso «a prescindere», la crescita di
un’insofferenza radicale per la sua immagine e il suo discorso
La personalizzazione
controproducente, certo; e poi l’eccessiva invadenza mediatica; poi ancora il fatto di avere contro 4/5 dei
partiti del Paese e perfino buona parte del suo: tutto vero, sicché sembra
essercene abbastanza per spiegare la sconfitta di Matteo Renzi al referendum di
domenica.
Invece non basta, credo. In quel
risultato c’è qualcos’altro. Le sue proporzioni rovinose manifestano qualcosa di più: un rifiuto profondo
che via via ha preso corpo nei confronti della personalità stessa dell’ormai ex
presidente del Consiglio, il rigetto della sua proposta in un certo senso «a
prescindere», la crescita di un’insofferenza radicale per la sua immagine e il
suo discorso
Lo dirò molto alla buona: il
risultato del referendum più che mostrare la devozione degli italiani al testo della Costituzione indica che alla
maggioranza di essi Matteo Renzi era ormai diventato insopportabilmente
antipatico. «Poco convincente», se si preferisce un termine politologicamente
più nobile.
Eppure Matteo Renzi non è mai stato
il giovane Achille Starace, anche se in tutte
queste settimane i suoi avversari di sinistra e di destra — uniti in un
lodevole afflato di impegno antifascista — si sono sforzati di dipingerlo in
qualcosa di simile a un pericolo per la democrazia e di descrivere la sua
riforma come la potenziale anticamera di una dittatura. Invece, particolarmente
oggi, nel giorno della sua sconfitta, sarebbe più che ingeneroso spregevole
dimenticare le non poche buone leggi che il suo governo ha promosso, l’impulso
dinamico che ha cercato d’imprimere in certi settori dell’amministrazione
pubblica, la sua continua insistenza sulla necessità di svecchiare, sveltire,
semplificare. Ma perché allora il risultato così negativo di domenica, perché
l’ondata di antipatia e di avversione che ha travolto Renzi? Per effetto dei
suoi errori, naturalmente, che hanno oscurato tutto il resto. Ecco un elenco
disordinato di quelli che specie sul piano della comunicazione e dell’immagine,
ma non solo, mi sembrano essere stati i più gravi.
1) Il profluvio dell’ottimismo,
degli annunci sull’uscita dal tunnel, del «ce la stiamo facendo», «ecco ormai ce l’abbiamo fatta». Ai tanti
italiani che viceversa se la passano tuttora male, talvolta malissimo e senza
speranza, sentirsi dire che invece e contrariamente alla loro esperienza
quotidiana le cose si stavano mettendo bene, deve essere suonata come una beffa
e deve aver provocato un effetto di esclusione e di immeritata
colpevolizzazione. Specie al Sud — verso il cui declino storico la comprensione
politico-intellettuale e la personale empatia di Renzi non sono riusciti a
mostrarsi se non eguali pressoché allo zero — l’effetto è stato catastrofico.
2) A una conferenza stampa o a una
riunione di responsabili acquisti di una catena di supermercati si può comunicare all’uditorio attraverso
le slide: a una massa di cittadini elettori no. Di un discorso complesso la
gente comune può capire spesso la metà, ma capisce che se le si rivolge in quel
modo significa che la si tiene in considerazione, che la si ritiene importante.
Renzi non ha mai parlato al Paese in modo «alto» ed «eloquente»: starei per
dire in modo «serio». La sola cifra di serietà del suo discorso è stata
solitamente quella del sarcasmo: non proprio l’ideale, come si capisce, per
suscitare simpatia. Per il resto la sua irresistibile propensione al tono
leggero e alla battuta ne hanno inevitabilmente diminuito la statura politica.
3) La mancanza di posizioni critiche
vere, argomentate e conseguenti di qualunque tipo
verso le élite del potere che non fossero le élite politico-parlamentari o
mediatiche italiane. In un’epoca invece nella quale — almeno a mio giudizio con
più di un fondamento — è largamente diffuso un sentimento opposto, questo
orientamento di Renzi non gli ha procurato alcuna simpatia. Che a mia memoria
al capo del nostro governo non sia mai uscita di bocca un’espressione di
censura verso i dirigenti dell’inefficiente e per più versi marcio mondo
bancario o verso la Consob, responsabili della rovina di decine di migliaia di
cittadini italiani, è apparso quanto mai significativo. Egualmente
significativo, per esempio, che per tanto tempo egli non sia mai andato al di
là delle battute circa il modo spudorato con cui l’Unione Europea si stava
comportando con l’Italia a proposito della questione dei migranti. Cose come
queste hanno allontanato Renzi dal modo d’essere e di sentire prevalente nel
Paese. La sintonia con il quale non credo che sia stata di molto accresciuta
dalla sua frequentazione intensa, a tratti si sarebbe detta compulsiva, con gli
ambienti dell’industria e della finanza.
4) La politica dei bonus: dagli 80
euro ai lavoratori dipendenti, ai 500 euro a insegnanti
e neo-diciottenni. Personalmente, così come dubito che i primi siano stati
cruciali per il successo di Renzi alle Europee del 2014, invece sono sicuro che
tanto i primi che i secondi non siano serviti ad aggiungergli il minimo
consenso domenica scorsa. Il fatto è che l’attribuzione di tali somme (con quel
termine «bonus», degno della pubblicità di un casinò volta ad attrarre clienti
alle slot machine) è stata sentita probabilmente non già come il riconoscimento
di un compenso atteso e meritato quanto, più che altro, come l’elargizione di
una mancia umiliante, concessa per acquistarsi il buon volere e la gratitudine
del «beneficato». È facile immaginare la popolarità derivatane al
«benefattore».
5) Il tratto marcato di «consorteria
toscana» che Matteo Renzi non ha esitato a dare all’intera, vasta cerchia dei suoi collaboratori. È ovvio
come ciò lo abbia fatto percepire dal resto del Paese come murato in una posizione
«chiusa», non disposta ad accogliere e a colloquiare con apporti diversi. Si
aggiunga il carattere non proprio di rango di un gran numero di tali
collaboratori, così come dei tanti nominati in una miriade di posti: troppo
spesso scelti con ogni evidenza più che per i loro meriti per la loro sicura
fedeltà (vedi il caso, esemplare tra i tanti, per il risultato grigissimo
verificabile quotidianamente da tutti 24 ore su 24, dei vertici Rai).
EDITORIALE DEL CORRIERE DELLA SERA,
5 dicembre 2016
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