Ognuno di noi ha la sua divinità tutelare. Anche le città hanno la loro. Ma occore fare attenzione, può essere anche malvagia.
Giulio Giorello
Genius loci
Nel mito antico il genio
è la divinità tutelare dell’esistenza di ogni individuo. Per un
poeta rinascimentale come Luigi Pulci era «lo Iddio che nasce
insieme con l’uomo»: una sorta di talento che contrassegna gli
individui eccezionali, destinati a cambiare il mondo in cui vivono.
Negli ultimi secoli si è insistito sul suo aspetto creativo: il
genio si dispiega producendo nuove cose, mettendo a fuoco diversi
percorsi possibili, costituendo un dono che viene offerto alla
comunità. Sembra una forza potentemente interiore dell’individuo,
che, però, è destinata a emergere nelle relazioni esteriori.
Ha scritto Eric Weiner
che dobbiamo «incominciare a pensare alla creatività non come a una
dote genetica» (come voleva il positivismo ottocentesco) ma come a
«qualcosa che si conquista, lavorando sodo ma, anche, coltivando
attentamente le circostanze favorevoli». Non è «un lusso privato»,
bensì «un bene pubblico». La creatività «non si verifica qui
dentro o là fuori, ma nello spazio intermedio: rapporto che si
svolge all’incrocio tra persona e luogo».
Weiner, che «la Lettura»
aveva intervistato il 31 gennaio, ha dedicato un poderoso volume alla
Geografia del genio , vera e propria ricerca dei luoghi più creativi
del mondo dall’antica Atene alla Silicon Valley. Lui stesso lo
definisce un viaggio «donchisciottesco». Ora il volume compare in
versione italiana presso Bompiani, e i lettori avranno così modo di
seguire le peregrinazioni di Weiner nei dettagli della sua «geografia
del genius loci », che altro non è che «il luogo dove abita il
genio».
L’autore dispiega una
gamma di casi storici in cui la genialità ha trovato il posto più
adatto ove fiorire: dall’Atene di Pericle alla Silicon Valley,
passando per le città imperiali dell’antica Cina, per la Firenze
dei Medici che univa denaro e cultura, o per la fumosa Edimburgo con
i suoi inquieti club, per non dire della caotica Calcutta o della
grande Vienna tra Ottocento e Novecento. Gli esempi si potrebbero
moltiplicare. Non c’è forse un genius loci , poniamo, anche, nella
Roma classica o nella Venezia di Marco Polo o, magari, nella Dublino
di Joyce? Si impone sempre il carattere pubblico del genio: che ne
faremmo di una meravigliosa collezione di teoremi matematici che non
escono dal cassetto di un pur grandissimo scienziato o delle
partiture musicali di un artista non meno intelligente, che però
nessuno ha mai preso in considerazione?
Il pubblico a cui il
genio si rivolge non è puramente passivo: viene stimolato e indotto
a pensare a nuovi modi di vedere o di sentire con cui collabora con
impegno. Ma proprio per questo «i luoghi del genio appaiono fragili.
È molto più facile distruggerli che crearli. La civiltà perde in
novità ed entusiasmo, e compare l’arroganza. Atene e Firenze non
hanno conosciuto anche una decadenza, tanto più impressionante
quanto erano stati potenti i risultati prima conseguiti? Il punto è
che — e qui mi sembra che l’analisi di Weiner sia piuttosto
convincente — perché si formasse quell’impalpabile connessione
tra le varie figure geniali che hanno segnato un luogo e un’epoca,
era necessaria una «società aperta», cioè quella che i moralisti
chiamerebbero troppo permissiva proprio per la sua capacità di dare
spazio a concezioni nuove e stimolanti, anche a costo di mettere a
repentaglio alcuni dei suoi stessi presupposti.
Weiner ha ancora ragione
a sottolineare che quel tipo di incrocio che è il genius loci è
«come tutti gli incroci, pericoloso e spietato». Forse, il nostro
geografo della genialità avrebbe potuto sottolineare di più questo
carattere ambiguo e sospettoso del genius loci . È difficile non
ricordare l’amara fine di Socrate ad Atene o, se è per quello,
anche quella di Gesù in Palestina. Firenze ha cacciato molti dei
suoi artisti inducendoli a una migrazione pressoché forzata. Il
«fiorentino Galileo Galilei» (che così era definito politicamente:
il nostro Carlo Emilio Gadda amava chiamarlo «il maligno pisano»,
in onore della riottosa città in cui aveva avuto i natali) doveva
venir costretto all’abiura a Roma nel 1633 «per aver osato pensare
in astronomia diversamente da come volevano i suoi censori domenicani
e francescani», per dirla con le parole del poeta John Milton, suo
appassionato ammiratore. I poeti a un tempo struggenti e raffinati
dell’antica Cina dovevano troppo spesso venir umiliati da una
burocrazia invadente e oppressiva.
La stessa Edimburgo ove,
come diceva Charles Darwin, uno poteva studiare geologia, biologia e
medicina con maggior libertà che in qualsiasi scuola d’Inghilterra,
rischiava di considerare i propri «illuministi» come troppo
«pericolosi». Quanto a Vienna nel periodo che va dal successo
musicale di Mozart alla «grande città» del primo Novecento, che
accoglie Freud e che assiste alla sensualità della pittura di Gustav
Klimt e alla severità della geometria architettonica di Adolf Loos,
che vede fiorire la nuova filosofia di Ludwig Wittgenstein, non
conteneva i germi di una perniciosa dissoluzione?
C’è una storia di cui
Weiner non tratta e che, tuttavia, è importante raccontare, perché
costituisce una specie di doppio, forse ancor più tragico e
impressionante, del processo e morte di Socrate. In uno dei tanti
caffè di Vienna avevano cominciato a riunirsi fisici, matematici,
logici ed economisti, insofferenti del sapere tradizionale e decisi a
un rinnovamento della filosofia alla luce delle grandi novità
scientifiche che avevano cominciato a segnare il trapasso
dall’Ottocento al Novecento. Nel 1922 in città era arrivato Moritz
Schlick e grazie soprattutto al suo impegno doveva nascere il Circolo
di Vienna, dedicato alla costituzione di un’autentica concezione
scientifica del mondo.
I membri si incontravano
ogni giovedì sera al pianterreno dell’università, dove erano
collocati tradizionalmente gli Istituti di matematica e di fisica. Fu
negli inquieti anni Trenta che capitò l’evento che doveva
drammaticamente segnare la storia del Circolo. Schlick aveva
esaminato e bocciato uno studente nazista, tale Johann Nelböck,
autore di una tesi di etica; e nel 1936 mentre saliva la scalinata
dell’università il docente veniva ucciso con un colpo d’arma da
fuoco da quel pessimo studente. Il quale fu sì condannato alla pena
capitale, ma si fece solo un breve periodo di prigione perché fu
rilasciato quando Hitler occupò Vienna nel 1938. L’assassino fece
richiesta di completa assoluzione nel 1941: non aveva forse compiuto
un’opera meritoria eliminando «un professore ebreo»?
Nelböck non aveva le
idee chiare nemmeno qui. Schlick non era affatto ebreo, bensì
discendente della nobiltà prussiana. Al suo uccisore toccò un posto
nel reparto geologico dell’amministrazione degli oli minerali
dell’economia di guerra, dove «pacificamente» lavorò fino alla
fine del secondo conflitto mondiale. Morì nel 1954. Anche Hitler,
dopotutto, era austriaco. Il che mostra non solo la faccia
paradossale e inquietante di quel genius loci che era Vienna, ma
soprattutto quanto il genio (nella fattispecie filosofico) possa
venir stroncato dalla malvagità che irrompe sulla scena della
storia.
Il corriere della sera/La
lettura – 30 ottobre 2016
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