28 dicembre 2016

G. GIORELLO, GENIUS LOCI


Ognuno di noi ha la sua divinità tutelare. Anche le città hanno la loro. Ma occore fare attenzione, può essere anche malvagia.

Giulio Giorello

Genius loci

Nel mito antico il genio è la divinità tutelare dell’esistenza di ogni individuo. Per un poeta rinascimentale come Luigi Pulci era «lo Iddio che nasce insieme con l’uomo»: una sorta di talento che contrassegna gli individui eccezionali, destinati a cambiare il mondo in cui vivono. Negli ultimi secoli si è insistito sul suo aspetto creativo: il genio si dispiega producendo nuove cose, mettendo a fuoco diversi percorsi possibili, costituendo un dono che viene offerto alla comunità. Sembra una forza potentemente interiore dell’individuo, che, però, è destinata a emergere nelle relazioni esteriori.

Ha scritto Eric Weiner che dobbiamo «incominciare a pensare alla creatività non come a una dote genetica» (come voleva il positivismo ottocentesco) ma come a «qualcosa che si conquista, lavorando sodo ma, anche, coltivando attentamente le circostanze favorevoli». Non è «un lusso privato», bensì «un bene pubblico». La creatività «non si verifica qui dentro o là fuori, ma nello spazio intermedio: rapporto che si svolge all’incrocio tra persona e luogo».

Weiner, che «la Lettura» aveva intervistato il 31 gennaio, ha dedicato un poderoso volume alla Geografia del genio , vera e propria ricerca dei luoghi più creativi del mondo dall’antica Atene alla Silicon Valley. Lui stesso lo definisce un viaggio «donchisciottesco». Ora il volume compare in versione italiana presso Bompiani, e i lettori avranno così modo di seguire le peregrinazioni di Weiner nei dettagli della sua «geografia del genius loci », che altro non è che «il luogo dove abita il genio».

L’autore dispiega una gamma di casi storici in cui la genialità ha trovato il posto più adatto ove fiorire: dall’Atene di Pericle alla Silicon Valley, passando per le città imperiali dell’antica Cina, per la Firenze dei Medici che univa denaro e cultura, o per la fumosa Edimburgo con i suoi inquieti club, per non dire della caotica Calcutta o della grande Vienna tra Ottocento e Novecento. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Non c’è forse un genius loci , poniamo, anche, nella Roma classica o nella Venezia di Marco Polo o, magari, nella Dublino di Joyce? Si impone sempre il carattere pubblico del genio: che ne faremmo di una meravigliosa collezione di teoremi matematici che non escono dal cassetto di un pur grandissimo scienziato o delle partiture musicali di un artista non meno intelligente, che però nessuno ha mai preso in considerazione?

Il pubblico a cui il genio si rivolge non è puramente passivo: viene stimolato e indotto a pensare a nuovi modi di vedere o di sentire con cui collabora con impegno. Ma proprio per questo «i luoghi del genio appaiono fragili. È molto più facile distruggerli che crearli. La civiltà perde in novità ed entusiasmo, e compare l’arroganza. Atene e Firenze non hanno conosciuto anche una decadenza, tanto più impressionante quanto erano stati potenti i risultati prima conseguiti? Il punto è che — e qui mi sembra che l’analisi di Weiner sia piuttosto convincente — perché si formasse quell’impalpabile connessione tra le varie figure geniali che hanno segnato un luogo e un’epoca, era necessaria una «società aperta», cioè quella che i moralisti chiamerebbero troppo permissiva proprio per la sua capacità di dare spazio a concezioni nuove e stimolanti, anche a costo di mettere a repentaglio alcuni dei suoi stessi presupposti.

Weiner ha ancora ragione a sottolineare che quel tipo di incrocio che è il genius loci è «come tutti gli incroci, pericoloso e spietato». Forse, il nostro geografo della genialità avrebbe potuto sottolineare di più questo carattere ambiguo e sospettoso del genius loci . È difficile non ricordare l’amara fine di Socrate ad Atene o, se è per quello, anche quella di Gesù in Palestina. Firenze ha cacciato molti dei suoi artisti inducendoli a una migrazione pressoché forzata. Il «fiorentino Galileo Galilei» (che così era definito politicamente: il nostro Carlo Emilio Gadda amava chiamarlo «il maligno pisano», in onore della riottosa città in cui aveva avuto i natali) doveva venir costretto all’abiura a Roma nel 1633 «per aver osato pensare in astronomia diversamente da come volevano i suoi censori domenicani e francescani», per dirla con le parole del poeta John Milton, suo appassionato ammiratore. I poeti a un tempo struggenti e raffinati dell’antica Cina dovevano troppo spesso venir umiliati da una burocrazia invadente e oppressiva.

La stessa Edimburgo ove, come diceva Charles Darwin, uno poteva studiare geologia, biologia e medicina con maggior libertà che in qualsiasi scuola d’Inghilterra, rischiava di considerare i propri «illuministi» come troppo «pericolosi». Quanto a Vienna nel periodo che va dal successo musicale di Mozart alla «grande città» del primo Novecento, che accoglie Freud e che assiste alla sensualità della pittura di Gustav Klimt e alla severità della geometria architettonica di Adolf Loos, che vede fiorire la nuova filosofia di Ludwig Wittgenstein, non conteneva i germi di una perniciosa dissoluzione?
C’è una storia di cui Weiner non tratta e che, tuttavia, è importante raccontare, perché costituisce una specie di doppio, forse ancor più tragico e impressionante, del processo e morte di Socrate. In uno dei tanti caffè di Vienna avevano cominciato a riunirsi fisici, matematici, logici ed economisti, insofferenti del sapere tradizionale e decisi a un rinnovamento della filosofia alla luce delle grandi novità scientifiche che avevano cominciato a segnare il trapasso dall’Ottocento al Novecento. Nel 1922 in città era arrivato Moritz Schlick e grazie soprattutto al suo impegno doveva nascere il Circolo di Vienna, dedicato alla costituzione di un’autentica concezione scientifica del mondo.
I membri si incontravano ogni giovedì sera al pianterreno dell’università, dove erano collocati tradizionalmente gli Istituti di matematica e di fisica. Fu negli inquieti anni Trenta che capitò l’evento che doveva drammaticamente segnare la storia del Circolo. Schlick aveva esaminato e bocciato uno studente nazista, tale Johann Nelböck, autore di una tesi di etica; e nel 1936 mentre saliva la scalinata dell’università il docente veniva ucciso con un colpo d’arma da fuoco da quel pessimo studente. Il quale fu sì condannato alla pena capitale, ma si fece solo un breve periodo di prigione perché fu rilasciato quando Hitler occupò Vienna nel 1938. L’assassino fece richiesta di completa assoluzione nel 1941: non aveva forse compiuto un’opera meritoria eliminando «un professore ebreo»?

Nelböck non aveva le idee chiare nemmeno qui. Schlick non era affatto ebreo, bensì discendente della nobiltà prussiana. Al suo uccisore toccò un posto nel reparto geologico dell’amministrazione degli oli minerali dell’economia di guerra, dove «pacificamente» lavorò fino alla fine del secondo conflitto mondiale. Morì nel 1954. Anche Hitler, dopotutto, era austriaco. Il che mostra non solo la faccia paradossale e inquietante di quel genius loci che era Vienna, ma soprattutto quanto il genio (nella fattispecie filosofico) possa venir stroncato dalla malvagità che irrompe sulla scena della storia.


Il corriere della sera/La lettura – 30 ottobre 2016

Nessun commento:

Posta un commento