10 dicembre 2016

P. SLOTERDIJK SUI QUADERNI NERI DI HEIDEGGER



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Anselm Kiefer, La forma del pensiero antico (gm)

Negli ultimi due anni la pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger ha suscitato un dibattito molto vivace. Mimesis ha da poco pubblicato un volume collettivo intitolato I Quaderni neri di Heidegger, a cura di Donatella Di Cesare. Ne fa parte il saggio di Peter Sloterdijk di cui pubblichiamo un estratto 

Imprigionato nei Quaderni neri

di Peter Sloterdijk

In Fichte si deve scorgere il fondatore della filosofia della storia, sia sotto un profilo cronologico sia sotto un profilo logico. Nella sua opera del 1804 I tratti fondamentali dell’età presente Fichte descrisse lo schema della storia mondial-filosofica come quel processo del mentale perdersi e ritrovarsi, che diventò matrice di tutto ciò che più tardi, in diverse declinazioni, e gradi differenti, fu chiamato filosofia della storia, processo progressivo, storia dello spirito e infine storia dell’essere.
In quell’opera Fichte delinea uno schema della storia spirituale del mondo in cinque gradi. Spetta un rango intermedio all’epoca presente, concepita come terzo atto del grande dramma. Il presente coincide con una crisi di civiltà senza quartiere. Nel terzo stadio dello spirito Fichte vuole riconoscere «l’epoca della piena peccaminosità», cioè l’era della estraneazione assoluta e della sottrazione violenta del singolo da ogni verità unificante. Questo eccesso di critica torna in Heidegger che, in una citazione quasi letterale da Fichte, definisce il proprio presente «l’età del pieno oblio dell’essere». La prossimità di Heidegger a Fichte affiora inoltre nella possibilità, prospettata sia da lui che dal furioso idealista, di pensare il risanamento dell’«oblio» (della «peccaminosità») solo come opera del ricordo. Fichte concepisce ovviamente il ricordo come l’esito del progresso del genere umano: è così che, nel quarto e nel quinto atto del dramma, l’umanità riesce a liberarsi dall’aberrazione. Dopo la discesa sino alla estraneazione estrema, è l’ascesa in programma verso la riappropriazione.
Heidegger, invece, delinea all’orizzonte un ricordo salvifico inteso come evento di cui, da parte umana, non si può disporre. Non siamo noi a ricordarci, quando ci piace e pare di ricordarci. L’Essere si ricorda di noi, mediante noi – o forse no. Questa prospettiva non vale, inoltre, per gli appartenenti a quel genere, cui non è possibile comunque prestare soccorso, bensì solo per quei “pochi” assennati, che chiama anche gli «unici».
Alla fine degli anni Trenta Heidegger sviluppò una forma di critica del presente che non ha quasi precedenti. Dopo il 1933 aveva sperimentato come i suoi interventi dilettanteschi negli sconvolgimenti politici del tempo erano finiti sotto le ruote delle reali battaglie di potere. Fu in seguito che emerse un nuovo modo di discutere la situazione del presente in cui il suo errore avrebbe dovuto divenire la chiave per decifrare la storia del mondo. Si possono leggere i passi corrispondenti dei Quaderni neri come una rimobilitazione delle tesi sul “si”, sul Man, in Essere e tempo. Verso la fine degli anni Trenta si produce nel Man una polarizzazione dove i molti e i pochi si separano, senza cessare per questo di essere Man. Nelle Überlegungen di Heidegger risuonano le reminiscenze dell’antica distinzione tra hoi polloi e hoi oligoi. Se nel pensiero classico, però, i molti giocano la parte della volgarità e dell’esistenza vegetativa, mentre i pochi rappresentano l’aristocrazia e l’esistenza piena di spirito, con un golpe Heidegger finisce per abrogare questa distinzione. Deluso dalla sua escursione nella “politica”, stabilisce che i pochi (in termini moderni le élites), quanto a smarrimento, non sarebbero da meno dei molti. Al contrario, i pochi – gli oligarchi della modernità – rappresentano la punta della lancia di quel che tradizionalmente si imputa ai molti inconsapevoli. I pochi sono i molti, ma nel modo peggiore.
Per Heidegger l’essenza della modernità, così come si rivela nel bolscevismo, nel nazionalsocialismo, nell’anglicismo o nell’americanismo, è una oligarchia onnicomprendente. Questa nuova tesi sull’oligarchia consente a Heidegger di proporre le sue famigerate equiparazioni tra grandezze ineguali: comunismo e liberalismo sono tutt’uno. L’agricoltura meccanizzata e la produzione di cadaveri nei lager vengono dalla stessa fonte. Fascismo e democrazia sono la stessa cosa. «Gli antifascisti sono gli infimi schiavi di quel grande fascismo che in America e in Russia si chiama democrazia»[1]. Il mondo viene accecato da differenze apparenti e perciò trattenuto dal riflettere su ciò che è propriamente vero.
I Quaderni neri appartengono al patrimonio della de-differenziazione. Gli oligarchi sono per Heidegger non già i ricchi (per i quali il termine adeguato sarebbe plutocrati), bensì tutti coloro che figurano in cima a quelle piramidi di potere dimentiche dell’essere. La moderna oligarchia costituisce un mob ontologico che non si ferma davanti a niente e a nessuno[2]. E non importa che parli inglese, russo, tedesco o francese.
Il dominio dei pochi, democraticamente mascherato, non sarebbe certo praticabile, se la tendenza dell’epoca, l’oblio dell’essere che agisce autorizzando tutto, non gli spianasse la strada. Quel mob di pochi, che governano per lo più in modo anonimo (sebbene di tanto in tanto mandino avanti portatori di nomi di culto come Stalin o Hitler), è a sua volta solo strumento di una tendenza più comprensiva, di qualità “ontostorica” e con ciò destinale. Convenzionalmente viene chiamata “tecnica”. Heidegger germanizza l’espressione traducendola con la parola idiosincratica Machenschaft, macchinazione. Attraverso le accezioni dell’espressione tedesca la tecnica viene stigmatizzata come fenomeno dell’ingiustizia ontologica.
Se la modernità è l’epoca della Machenschaft, senza aggettivi, la questione che si pone è se sia concepibile un tempo “dopo di essa”. Dato che le rivoluzioni sono realizzate, secondo natura, in modo macchinoso, la svolta verso un reale “poi” dovrebbe compiersi senza macchinazione. Chi sarebbero, però, gli agenti, ovvero i mediatori, e i mezzi, di questa rivoluzione non rivoluzionaria? Anche per questa domanda Heidegger sembra aver pronta una risposta, seppure molto provvisoria e insufficiente. Una volta che la classica distinzione tra i molti e i pochi è divenuta ai suoi occhi inutilizzabile, occorre fare una scelta ulteriore tra i pochi, per trovare quei rari che non sarebbero gli agenti della macchinazione.
I rari, scelti tra i pochi, vengono chiamati nei Quaderni neri gli «unici». Qui Heidegger sembra non darsi insolitamente cura della terminologia, come se non sapesse di calcare, con quella espressione, il terreno sdrucciolevole dello stirnerianismo. Che avesse presente il pericolo? Forse avrà pensato a Kierkegaard piuttosto che a Stirner. Il filosofo danese aveva osato opporre il singolo credente all’universo storico della chiesa, anzi all’intera communio sanctorum, per sganciarlo dal consenso del collettivo. Quel che in Kierkegaard si chiama “fede” è un “salto”, un golpe contro la verosimiglianza e suoi gruppi comunitari d’ausilio. La chiesa danese del 1848 è il prototipo del Man, del “si”. Sotto questo aspetto Heidegger resta un kierkegaardiano e, come tale, un antisociologo senza speranza. L’unica “società”, a cui può pensare, sarebbe una “contro società” di non-seguaci della macchinazione, fra loro quasi svincolati. Come dovrebbe essere immaginata? Forse come una rete impercettibile di altruisti che, dopo essere stati eletti vescovi, sono andati a rifugiarsi nelle stalle per le oche.
La critica di Heidegger al mondo presente riprende un motivo che originariamente era stato sviluppato da Agostino, il patriarca della critica cristiana all’egoismo. Non è difficile seguire il modo in cui la prima Inquisi-zione cattolica andò estendendo la critica, rivolta dapprima contro il satana ispirato dall’egoismo, a una critica moderno-scettica della soggettività, in seguito a una critica della razionalità e della volontà di potenza, per sfociare poi in una critica della macchinazione. Si fa strada qui l’idea che il mondo, nel suo complesso, sia una falsificazione. L’unica maniera per rimetter-lo a posto consisterebbe in una conversione integrale dei falsificatori. Hannah Arendt ha certamente ragione quando in Heidegger vede all’opera la tradizione sotterranea della antica gnosi occidentale. Solo che in Heidegger, al posto dello stolto demiurgo, è subentrata la soggettività intramondana. Che la falsificazione del mondo sia da imputare a un dio incompetente (che poteva esercitare la creazione solo come falsificazione di quel che doveva creare) oppure a una civiltà soggettivistica, non è in fondo decisivo per il giudizio sulla falsificazione. Significativo resta invece non divenire succubi del mondo falsificato e mantenere il ricordo del dio estraneo e dell’altro inizio che ha ispirato.
Non voglio mancare qui di onorare Heidegger come autore che ha introdotto nella filosofia lo slapstick[3]. Nelle Überlegungen XIII cita indirettamente Agostino che aveva definito il peccato in senso esistenzial-formale come incurvatio in se ipsum, incurvatura in se stessi. In Heidegger ciò è reso così: «L’avvitarsi della vita su se stessa è lo scatenamento dell’esperire nell’assenza di misura e di rango di un inarrestabile sorseggio»[4].
[…] Vorrei infine aggiungere alcune osservazioni sull’“antisemitismo” di Heidegger. A tal fine occorre muovere dalla sua teoria del linguaggio. Heidegger aveva capito che un segno non equivale a un segno, il linguaggio non equivale al linguaggio. Ai suoi occhi, o alle sue orecchie, c’è un linguaggio prima del linguaggio. Prima della molteplicità delle lingue, in cui si può dire questo e quello, si muove un lógos, che dice quell’Uno, che deve essere detto. Occorre figurarsi ciò nel senso che è necessario distinguere tra la lingua come medium della comunicazione condizionata e la lingua come medium della missione incondizionata.
Se il linguaggio è medium della missione incondizionata, allora ne risulta una conseguenza inquietante. Heidegger si vede proiettato al centro di questa inquietudine, dato che intravede una lotta tra varie assolutezze. Le missioni incondizionate sono inizialmente legate alle culture che impongono ai propri membri di assumerle come tali. In seguito le missioni vengono impartite da programmi spirituali che vanno al di là dei confini delle singole culture.
Tipici commissionari sono da sempre quegli individui, disponibili nella comunicazione mediatica, i quali dalle culture provengono. Si possono in fondo distinguere tre forme di discorso che affida una missione incondizionata. Anzitutto quello profetico, nel quale il singolo essere parlante viene chiamato a essere mezzo degli interventi di Dio nelle vicende della vita. A questo si aggiunge inoltre il discorso poetico evocativo che si rivolge a coloro che, nelle culture, sono dotati di sensibilità, per comunicare loro una disposizione d’animo comune. E infine vi è il discorso filosofico che mira al consenso degli avveduti (per non trattare qui la loro mediale figura di decadenza, cioè la moderna produzione ideologico-propagandistica di rarefatto etere di menzogne).
I tre lógoi vengono associati a tre ambiti di provenienza, ovvero a tre contesti funzionali. Al modo profetico sono da annoverare i discorsi ebraici, cristiani e islamici. Qui emerge che il monoteismo non è possibile senza collisioni interprofetiche. Al modo poetico corrispondono le opinioni pubbliche nazionali i cui membri sono in grado di comprendere entusiasmanti e spesso intraducibili tonalità musicali della lingua. La parola di Goethe Weltliteratur, “letteratura mondiale”, evoca la concertante coesistenza delle poesie. È la volta, quindi, del discorso filosofico, che pensa di poter essere efficace ovunque. Viene però privato della sua efficacia dalla entropia delle inesauste discussioni laceranti e, alla fine del giorno accademico, svanisce in scepsi.
Su questo sfondo si staglia il personaggio tragicomico di Heidegger. Pronto a fungere da medium dell’Essere, che voleva parlare, fu incapace di distinguere persino i modi contradditori della medialità. Alla fin fine sembrava come se, in un confuso slancio di profetismo, avesse voluto unificare, in un punto focale, filosofia e poesia. Per quel che attiene al rapporto tra profezia e filosofia, la sua ambizione non era del tutto priva di prospettive. In effetti si può intendere la filosofia come una forma di profezia concettuale, altrettanto entusiastica, altrettanto indispensabile, e di regola altresì vana. Sarebbe facile illustrare ciò nella produzione del neokantismo ebraico-tedesco, in particolare nell’opera di Hermann Cohen.
Heidegger rovinò tutto, facendo la caricatura del profetismo ebraico ridotto a una divinazione al servizio della Machenschaft. Non entro qui nel merito della questione se questa cruda e sbagliata concezione vada attribuita al complesso dell’“antisemitismo”. Nel contesto dei Quaderni neri gli ebrei non compaiono come attori, bensì come coloro che danno l’input a fatalità che avrebbero comunque potuto abbattersi sul mondo.
Nel contesto attuale si dovrebbe dire che la scortesia di Heidegger verso «ciò che è ebraico» era espressione di una inesplicabile rivalità profetologica. Se Heidegger fosse stato capace di un confronto aperto, avrebbe dovuto dire e provare che il veggente dello spazio greco-germanico vede e sa più del profeta del Medio Oriente con tutti i suoi discendenti ecclesiali. Heidegger non ne fu capace. Restò lui stesso, da martinista qual era, essenzialmente un profeta cripto-ebraico che reca conforto ai perdenti della storia, agli umili e ai semplici. In questo ruolo gli resta una parola di conforto anche per il proprio esorbitante sé di un tempo, umiliato dal corso del mondo.
L’opera tarda di Heidegger costituisce un’opera d’arte del naufragio. È qui che mette allo scoperto le carte della sua impotenza. Cerca rifugio nella poesia, senza essere poeta. Quel che in ultima istanza postulava, senza poterlo dire esplicitamente, era diventare uno Isaia con la forza di parola di uno Hölderlin e quella di pensiero di un certo professore di Friburgo. Sembra che abbia trovato alla fine una via per perdonarsi il fallimento.
Chi era l’autore che in una poesia autobiografica aveva scritto: «Sappiamo di essere caduchi. Dopo di noi non verrà nulla degno di nota»?

[1] M. Heidegger, Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), GA 97,
Klostermann, Frankfurt 2015, p. 249. Il passo è forse del 1946.
[2] Mob vuol dire in inglese ressa, moltitudine [nota del traduttore].
[3] Slapstick (abbreviazione di slapstick comedy) è un sottogenere del film comico.
[4] M. Heidegger, Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), cit. p. 80.


Pezzo ripreso

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