Amelia Crisantino
Michele Amari
Michele Amari è personaggio-simbolo
del Risorgimento in Sicilia, anche se la sua importanza come studioso
travalica di molto i confini isolani. La sua biografia parecchio
tribolata ci offre un privilegiato punto di vista, non solo sulle
vicende isolane ma anche su come la Sicilia si inserisce nella comunità
nazionale. Schematizzata per grandi linee, ecco la parabola attraversata
da un protagonista del “secolo della storia”.
Gli inizi. Michele Amari nasce a
Palermo il 6 luglio 1806, in una famiglia della piccola borghesia
impiegatizia. Cresce a stretto contatto con la politica e alla politica
deve il carico di responsabilità che gli piomba addosso a 15 anni,
quando viene scoperta una congiura carbonara per un’insurrezione che si
voleva far scoppiare a Palermo nel gennaio 1822. Suo padre, che era uno
dei capi, viene imprigionato e condannato a morte. Si salva perché
confessa, degli uomini vengono giustiziati e le carte relative a tutto
il processo sono pubblicate in un fascicolo senza commenti, coi
documenti in ordine cronologico: un instant-book, con cui
l’amministrazione borbonica decide di mostrare l’insipienza dei
congiurati e il loro tradimento.
Dal 1819 il giovanissimo Michele è alunno
nella Segreteria degli Affari Interni, vale a dire futuro impiegato: ha
carattere ardente, da un pezzo vive a stretto contatto con i
cospiratori e sogna la rivoluzione. Le disavventure politiche del padre
lo rendono capo di una famiglia dove la madre, due sorelle e due
fratelli dipendono dal suo misero soldo al Ministero. Ancora peggio è
l’umiliazione, l’essere figlio di un traditore le cui dichiarazioni
erano divenute pubbliche. Per sette lunghi anni il ragazzo abbandona i
libri, vuole solo educare il corpo alla vita del guerrigliero. Riprende
gli studi per amore di Agatina Peranni, nel 1831 pubblica la traduzione
di un poema epico di Walter Scott: molto tempo dopo avrebbe scritto “da
selvatico cacciatore entrai d’un salto nella misera compagnia dei
letterati del paese”. È tanto indeciso da pensare di arruolarsi nella
legione straniera, ma la cooptazione nel “partito siciliano” sarà
decisiva per il suo futuro.
Diventare uno storico. Il
“partito siciliano” di Domenico Scinà e Salvatore Vigo è la famiglia
elettiva di un Amari che si definisce “orfano vivente il padre”; il
nuovo ambiente è di tendenze costituzionali e autonomiste, favorevole al
ripristino della Costituzione del 1812; la nuova identità politica è
molto differente da quella democratica-carbonara in cui era stato
cresciuto dal genitore. Come altri giovani educati da Domenico Scinà,
anche Amari coltiva il progetto di riscattare la Sicilia per riportarla
al destino eroico già conosciuto al tempo degli antichi Greci. Ma di
insurrezioni organizzate male e finite peggio il giovane Amari aveva
fatto dolorosa esperienza personale; per la libertà della Sicilia
bisognava trovare altre armi. E Palermo conosceva da un pezzo l’uso
pubblico di una Storia dove passato e presente si incontrano, ed era
possibile adoperare il passato per creare il futuro: una Storia che
facilmente sconfinava con la politica, che creava un campo di battaglia
in cui fare incursioni armati di ragioni antiche.
Nell’inverno fra il 1834 e il 1835 Amari
è in crisi, il tempo passato a inselvatichirsi adesso pesa: ha 28 anni e
il futuro gli appare incerto, ma l’amicizia con Scinà e Vigo lo spinge
verso gli studi di storia. Gli ideologi del “partito siciliano” hanno
deciso che è necessario scrivere un libro sulla storia recente di
Sicilia, per presentarsi al mondo e riempire di contenuti virtuosi
un’identità siciliana sempre oppositiva. Nell’aprile del 1834 il futuro
storico comincia a lavorare, la costituzione del 1812 e la rivoluzione
del 1820 saranno i centri della narrazione.
La scelta del Vespro. Cresciuto
fra le riunioni dei democratici, ma spinto dai tormentosi casi della
vita ad adottare le ragioni dei loro avversari, il giovane Amari elabora
un metodo storico che ha la sua novità nell’uso dei documenti per
puntellare l’edificio probatorio della narrazione. L’istinto lo porta a
diffidare dei testimoni interessati: somma indizi, memorie, giornali,
proclami, confronta versioni ingarbugliate degli stessi episodi. È
diffidente e al contempo ansioso di appartenere. Purtroppo le sue fonti
raccontano tutte la stessa verità, disponendosi su uno stretto ventaglio
interpretativo da cui derivano molte omissioni. Per il “partito
siciliano” le glorie recenti di Sicilia coincidono con l’età dell’oro da
ricomporre, ma il giovane aspirante storico non riesce a generare un
racconto edificante che ne preservi la memoria. Guardare il Mito da
vicino ne ha mostrato la vacuità e l’indipendentismo gli si offre senza
veli, caparbio nelle forme e angusto nelle prospettive. Meglio rimanere a
rispettosa distanza. Dopo oltre due anni di lavoro Amari abbandona il
manoscritto ormai voluminoso – che sarà pubblicato solo nel 2010 – e
alla fine della vita, nel gennaio 1888, esplicita la sua decisione:
“risalendo alla Costituzione siciliana trovai la sua forma più netta
alla fine del XIII secolo dopo il Vespro e pensai che la storia di
quella grande rivoluzione avrebbe preparato gli animi alla riscossa
molto meglio che il racconto della effimera riforma costituzionale del
1812 o della inconcludente rivoluzione del 1820. Perciò lasciai questo
argomento e posi mano al Vespro”. A quella Guerra del Vespro che gli darà fama immediata ed europea.
A Parigi. La ricerca di un evento
simbolico dal forte impatto evocativo non poteva che approdare al
Vespro: da tutti conosciuto, che pone l’accento sulla dimensione della
collettività di cui sottolinea l’aspetto etnico. Nell’incipit presto
famoso, “la riputazione della forza per la quale si tengon gli Stati
mutabilissima è…” echeggia una volontà titanica: la mutabilità della
forza consente il giuoco, la scommessa per ricrearla dopo secoli di
decadenza.
Il passato di cui Amari scrive è un
tempo astorico nonostante le scansioni cronologiche, sempre espressione
di una volontà che rifiuta ogni trasformazione sociale. L’opposizione a
Napoli, fondata sugli antichi diritti, si nutre della fiducia nella
grandezza che, una volta libera, la Sicilia avrebbe saputo ritrovare. E,
divenuto personaggio dalla visibilità internazionale, dal volontario
esilio parigino Amari contribuisce a rilanciare il mito della
costituzione del 1812 quale vessillo delle perdute libertà. Unico e
sommo obiettivo è la liberazione dai Borbone. Senza soffermarsi sulla
necessità di un’educazione che, come prevedibile ma indesiderato
corollario, avrebbe finito per cambiare la società. Nella nazione
siciliana il popolo, già glorioso protagonista della sua libertà, non è
maturo, non è pronto, non è abituato, non saprebbe comprendere e
decidere. L’unica classe politicamente rilevante resta sempre il
baronaggio, e a metà Ottocento la “nazione” siciliana si identifica
ancora col baronaggio.
A Parigi, in mezzo alle difficoltà
economiche, Amari diventa l’autore del grande libro sui Musulmani in
Sicilia. Ne riparleremo presto.
Pezzo ripreso da http://www.lidentitadiclio.com/michele-amari/
22 dicembre 2016
Pezzo ripreso da http://www.lidentitadiclio.com/michele-amari/
22 dicembre 2016
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