23 dicembre 2016

A. CRISANTINO SU MICHELE AMARI


Amelia Crisantino


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Michele Amari


Michele Amari è personaggio-simbolo del Risorgimento in Sicilia, anche se la sua importanza come studioso travalica di molto i confini isolani. La sua biografia parecchio tribolata ci offre un privilegiato punto di vista, non solo sulle vicende isolane ma anche su come la Sicilia si inserisce nella comunità nazionale. Schematizzata per grandi linee, ecco la parabola attraversata da un protagonista del “secolo della storia”.
Gli inizi. Michele Amari nasce a Palermo il 6 luglio 1806, in una famiglia della piccola borghesia impiegatizia. Cresce a stretto contatto con la politica e alla politica deve il carico di responsabilità che gli piomba addosso a 15 anni, quando viene scoperta una congiura carbonara per un’insurrezione che si voleva far scoppiare a Palermo nel gennaio 1822. Suo padre, che era uno dei capi, viene imprigionato e condannato a morte. Si salva perché confessa, degli uomini vengono giustiziati e le carte relative a tutto il processo sono pubblicate in un fascicolo senza commenti, coi documenti in ordine cronologico: un instant-book, con cui l’amministrazione borbonica decide di mostrare l’insipienza dei congiurati e il loro tradimento.
Dal 1819 il giovanissimo Michele è alunno nella Segreteria degli Affari Interni, vale a dire futuro impiegato: ha carattere ardente, da un pezzo vive a stretto contatto con i cospiratori e sogna la rivoluzione. Le disavventure politiche del padre lo rendono capo di una famiglia dove la madre, due sorelle e due fratelli dipendono dal suo misero soldo al Ministero. Ancora peggio è l’umiliazione, l’essere figlio di un traditore le cui dichiarazioni erano divenute pubbliche. Per sette lunghi anni il ragazzo abbandona i libri, vuole solo educare il corpo alla vita del guerrigliero. Riprende gli studi per amore di Agatina Peranni, nel 1831 pubblica la traduzione di un poema epico di Walter Scott: molto tempo dopo avrebbe scritto “da selvatico cacciatore entrai d’un salto nella misera compagnia dei letterati del paese”. È tanto indeciso da pensare di arruolarsi nella legione straniera, ma la cooptazione nel “partito siciliano” sarà decisiva per il suo futuro.
Diventare uno storico. Il “partito siciliano” di Domenico Scinà e Salvatore Vigo è la famiglia elettiva di un Amari che si definisce “orfano vivente il padre”; il nuovo ambiente è di tendenze costituzionali e autonomiste, favorevole al ripristino della Costituzione del 1812; la nuova identità politica è molto differente da quella democratica-carbonara in cui era stato cresciuto dal genitore. Come altri giovani educati da Domenico Scinà, anche Amari coltiva il progetto di riscattare la Sicilia per riportarla al destino eroico già conosciuto al tempo degli antichi Greci. Ma di insurrezioni organizzate male e finite peggio il giovane Amari aveva fatto dolorosa esperienza personale; per la libertà della Sicilia bisognava trovare altre armi. E Palermo conosceva da un pezzo l’uso pubblico di una Storia dove passato e presente si incontrano, ed era possibile adoperare il passato per creare il futuro: una Storia che facilmente sconfinava con la politica, che creava un campo di battaglia in cui fare incursioni armati di ragioni antiche.
Nell’inverno fra il 1834 e il 1835 Amari è in crisi, il tempo passato a inselvatichirsi adesso pesa: ha 28 anni e il futuro gli appare incerto, ma l’amicizia con Scinà e Vigo lo spinge verso gli studi di storia. Gli ideologi del “partito siciliano” hanno deciso che è necessario scrivere un libro sulla storia recente di Sicilia, per presentarsi al mondo e riempire di contenuti virtuosi un’identità siciliana sempre oppositiva. Nell’aprile del 1834 il futuro storico comincia a lavorare, la costituzione del 1812 e la rivoluzione del 1820 saranno i centri della narrazione.
La scelta del Vespro. Cresciuto fra le riunioni dei democratici, ma spinto dai tormentosi casi della vita ad adottare le ragioni dei loro avversari, il giovane Amari elabora un metodo storico che ha la sua novità nell’uso dei documenti per puntellare l’edificio probatorio della narrazione. L’istinto lo porta a diffidare dei testimoni interessati: somma indizi, memorie, giornali, proclami, confronta versioni ingarbugliate degli stessi episodi. È diffidente e al contempo ansioso di appartenere. Purtroppo le sue fonti raccontano tutte la stessa verità, disponendosi su uno stretto ventaglio interpretativo da cui derivano molte omissioni. Per il “partito siciliano” le glorie recenti di Sicilia coincidono con l’età dell’oro da ricomporre, ma il giovane aspirante storico non riesce a generare un racconto edificante che ne preservi la memoria. Guardare il Mito da vicino ne ha mostrato la vacuità e l’indipendentismo gli si offre senza veli, caparbio nelle forme e angusto nelle prospettive. Meglio rimanere a rispettosa distanza. Dopo oltre due anni di lavoro Amari abbandona il manoscritto ormai voluminoso – che sarà pubblicato solo nel 2010 – e alla fine della vita, nel gennaio 1888, esplicita la sua decisione: “risalendo alla Costituzione siciliana trovai la sua forma più netta alla fine del XIII secolo dopo il Vespro e pensai che la storia di quella grande rivoluzione avrebbe preparato gli animi alla riscossa molto meglio che il racconto della effimera riforma costituzionale del 1812 o della inconcludente rivoluzione del 1820. Perciò lasciai questo argomento e posi mano al Vespro”. A quella Guerra del Vespro che gli darà fama immediata ed europea.
A Parigi. La ricerca di un evento simbolico dal forte impatto evocativo non poteva che approdare al Vespro: da tutti conosciuto, che pone l’accento sulla dimensione della collettività di cui sottolinea l’aspetto etnico. Nell’incipit presto famoso, “la riputazione della forza per la quale si tengon gli Stati mutabilissima è…” echeggia una volontà titanica: la mutabilità della forza consente il giuoco, la scommessa per ricrearla dopo secoli di decadenza.
Il passato di cui Amari scrive è un tempo astorico nonostante le scansioni cronologiche, sempre espressione di una volontà che rifiuta ogni trasformazione sociale. L’opposizione a Napoli, fondata sugli antichi diritti, si nutre della fiducia nella grandezza che, una volta libera, la Sicilia avrebbe saputo ritrovare. E, divenuto personaggio dalla visibilità internazionale, dal volontario esilio parigino Amari contribuisce a rilanciare il mito della costituzione del 1812 quale vessillo delle perdute libertà. Unico e sommo obiettivo è la liberazione dai Borbone. Senza soffermarsi sulla necessità di un’educazione che, come prevedibile ma indesiderato corollario, avrebbe finito per cambiare la società. Nella nazione siciliana il popolo, già glorioso protagonista della sua libertà, non è maturo, non è pronto, non è abituato, non saprebbe comprendere e decidere. L’unica classe politicamente rilevante resta sempre il baronaggio, e a metà Ottocento la “nazione” siciliana si identifica ancora col baronaggio.
A Parigi, in mezzo alle difficoltà economiche, Amari diventa l’autore del grande libro sui Musulmani in Sicilia. Ne riparleremo presto.

Pezzo ripreso da   http://www.lidentitadiclio.com/michele-amari/
22 dicembre 2016

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