Ottanta miliardari
in tutto il mondo detengono le risorse di 3,5 miliardi di persone. La
loro ricchezza è cresciuta del 50 per cento tra il 2010 e il 2014.
Cosmopolitici,
provinciali, senza responsabilità.
Perché la crisi
economica è stata un’opportunità per pochi.
A discapito dei
più.
Global Oligarchy Inc. Democrazia per pochi
Duccio Zola
«Possiamo avere una
democrazia oppure una ricchezza concentrata in poche mani, ma non
possiamo avere entrambe le cose». Non c’è davvero momento
migliore di quello attuale per rispolverare la fulminante battuta
formulata nel lontano 1941 da Louis Brandeis, avvocato progressista e
giudice della Corte Suprema statunitense.
A tal proposito, soltanto
un paio di dati tratti da un recente rapporto di Oxfam e riportati su
queste colonne nel numero del 17 febbraio scorso: nel 2014 l’1% più
ricco del globo ha posseduto il 48% dell’intera ricchezza mondiale,
mentre all’80% più povero ne è toccata appena il 5,5%. Gli 80
miliardari in testa alla classifica di Forbes detengono oggi una
ricchezza pari a quella di 3,5 miliardi di persone, la metà della
popolazione più povera del pianeta. La crisi economica è stata la
migliore alleata di questi personaggi, se è vero che tra il 2010 e
il 2014 la loro ricchezza è cresciuta del 50%, 600 miliardi di
dollari. Le cose vanno alla grande anche per i super-ricchi di casa
nostra, come mostra un altro studio de “la Repubblica” su dati di
Banca d’Italia. Nel 2008, agli albori della crisi, i 18 milioni di
italiani più poveri avevano il doppio del patrimonio complessivo
delle 10 famiglie più ricche (114 contro 58 miliardi di euro). Nel
2013, in soli cinque anni, è arrivato il sorpasso delle seconde sui
primi (98 contro 96 miliardi).
Cifre e tendenze che
parlano da sole, sufficienti a suggerire l’immagine di una
mutazione oligarchica della democrazia, un processo caratterizzato da
forme sempre più pervasive e sistematiche di influenza e controllo
sulla vita pubblica da parte dei detentori di grandi patrimoni.
All’insegna di una parola d’ordine che li mette tutti d’accordo:
wealth defense, protezione della ricchezza. Gli oligarchi di
oggi hanno in effetti ben poco da spartire – e ben poco vogliono
spartire – con il resto della società; molto più dei loro nonni e
padri, manifestano una vocazione secessionista. Vivono in quartieri
esclusivi e protetti, si formano in scuole e università elitarie,
condividono luoghi di vacanza e consulenti ed esperti che curano i
loro interessi, s’incontrano e accordano in occasione di eventi
dedicati in patria e all’estero, stabiliscono residenze e attività
imprenditoriali dove pagano meno tasse. I loro figli, i rich kids,
affollano palinsesti e copertine e sfoggiano sui social network il
lusso più sfrenato.
Provinciali cosmopoliti,
non sono portati a riconoscere vincoli e responsabilità nei
confronti di chi non appartiene alle loro cerchie né a contribuire
al benessere collettivo in proporzione alla loro ricchezza. Non amano
il welfare e i servizi pubblici perché non ne hanno bisogno. Amano
però proteggere i propri patrimoni: rappresentati da potenti lobby,
finanziano campagne elettorali a destra e sinistra e coltivano
rapporti privilegiati con i più alti esponenti politici e
istituzionali. E presidiano in forze gli snodi cruciali della
legislazione – dalla politica fiscale interna a quella economica
internazionale – assicurandosi che vengano respinte le potenziali
minacce alla loro ricchezza e ai loro investimenti, siano esse
imposizioni fiscali progressive, limiti alle speculazioni finanziarie
o accordi commerciali sfavorevoli per multinazionali e grandi
investitori.
Nel 1995 Christopher
Lasch scrisse: «La difficoltà di porre dei limiti al potere della
ricchezza fa capire che è la ricchezza stessa che deve essere
limitata. Quando il denaro parla, tutti sono costretti ad ascoltare.
Per questo una società democratica non può permettere
un’accumulazione illimitata». Si può forse dargli torto?
“Sbilanciamoci.Info”
27 febbraio 2015
Corsi e ricorsi. Soldi e
potere da Aristotele a Machiavelli (Carlo Donolo)
Oligarchi/Le
vecchie oligarchie elitarie erano caratterizzate da legittimazioni di
qualche tipo: cultura, carismi, tradizione, merito. Le attuali non ne
hanno e non ne hanno bisogno
«...pertanto si può
dire con maggior ragione che si ha democrazia quando i liberi
governano, oligarchia quando governano i ricchi, ma accade che gli
uni siano molti e gli altri pochi, perché i liberi sono molti e i
ricchi pochi» (Aristotele, Politica, IV, 1290). «...così ci
sono pure state parecchie costituzioni oligarchiche, che sembrano
avere qualche somiglianza con quelle aristocratiche, nonostante siano
lontanissime tra loro» (Polibio, Storie, VI, 3). «...questo
è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate
e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi;
perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita, che possa
passare molte volte per queste mutazioni, e rimanere in piede»
(Machiavelli, Discorsi, I, 2).
Quando un secolo fa ci si
riferiva alle oligarchie si pensava a gruppi ristretti apicali nelle
istituzioni politiche. Oggi invece ci si riferisce in primo luogo a
gruppi ristretti di ricchi e super-ricchi e in seconda battuta a
élite tecnocratiche, dominanti nei gangli decisionali dei
processi politici, amministrativi e imprenditoriali. Tra i ricchi la
componente finanziaria è particolarmente eminente, nelle tecnocrazie
prevale la componente gestionale, malgrado il peso crescente di
minoranze di competenti tecnici, essenziali per il controllo delle
grandi strutture reticolari del nostro tempo.
Ciò che colpisce di
questi gruppi ristretti è l’estremo oligopolio sia del denaro che
del potere politico. In questi gruppi sono concentrarti grandi poteri
di disposizione sia per l’economia che per la politica. Essi sono
entrenched, corazzati, in quanto sono in grado di difendere
questo processo di accumulazione (anche simbolica) da ogni
interferenza. Lo fanno esercitando direttamente il potere,
condizionando i processi democratici (finanziamento della politica),
premendo come lobby, bloccando qualsiasi regolazione loro avversa,
come si è visto bene nella crisi attuale.
Le vecchie oligarchie
elitarie erano caratterizzate da legittimazioni di qualche tipo:
cultura, carismi, tradizione, merito. Le attuali non ne hanno e non
ne hanno bisogno. Il loro rapporto di dominio è essenzialmente
fattuale, alla lettera: pre-dominio. Non partecipano al discorso
pubblico, ma operano per voci intermedie (media o agenzie di rating)
o per alleanze interistituzionali (come più frequente nel caso di
oligarchie tecnocratiche). Si raccolgono in parlamenti interni –
fori privati – a Davos e altrove, dove predominano l’informale,
l’accordo tacito, magari il contratto. Va sottolineata questa
dimensione essenzialmente globale delle oligarchie, perché solo
tenendosi in tali reti allentate riducono i conflitti interni, che
pure esistono, e moltiplicano il proprio peso decisionale (e anche
quello estrattivo di risorse).
Si parla di oligarchie
come estrema concentrazione del denaro e del potere al vertice in
gruppi ristretti (ma in espansione numerica), denotati da
un’altrettanta estrema indifferenza per le forme democratiche, che
vengono localmente tollerate come soluzione ancora preferibile ad
altri tipi di regimi. In questi contesti, del resto, la politica è
stata resa del tutto dipendente dalla finanza, almeno in occidente.
Le oligarchie in cui finanza e ricchezza siano componenti prevalenti
sono plutonomie o plutocrazie: oggi sappiamo quanto possiedano e
quindi quanto pesino nei rapporti di forza poche decine di persone.
Aristotele intende
oligarchia come forma degenerata dell’aristocrazia, come passaggio
da un’élite del valore a un gruppo di estrattori di risorse, non
democratico e non orientato al bene comune. Noi vediamo invece
l’oligarchia crescere dal seno stesso della democrazia, non più
nel senso indicato dai teorici realisti di primo novecento (Mosca,
Michels, Pareto) come legge ferrea e inesorabile, corretta magari
dalla circolazione delle élite, bensì come deperimento del processo
democratico, usato direttamente per selezionare nuovi magnati e
potentati.
Il carattere sempre più
naturalistico dei processi economici con i loro imperativi sistemici,
come la crescente tecnicizzazione delle materie, aiuta questa spinta
oligarchica segregando quelli capaci di estrarre da quelli resi
incapaci di pesare nelle decisioni. E l’entropia
tecnicistico-finanziaria della Ue molto agevola questo processo anche
a livello nazionale. Del resto la democrazia diventa sempre più
impotente quanto più le oligarchie si sentono ben trincerate da
istituti, regole del gioco e privilegi continuamente accordati. In
questo contesto, gli stessi istituti e processi democratici si sono
dimostrati fragili e incapaci di correggere queste vistose devianze,
e continuano a perdere rilevanza a fronte di Global Oligarchy Inc.
www.sbilanciamoci.info. ,
27 febbraio 2015
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