Una mostra a Alba,
alla Fondazione Ferrero, dedicata a Giacomo balla, mette in scena le
linee di forza di una poetica «mista»: le scomposizioni di colore
non derivano da ricerche scientifiche, secondo i dettami di primo
Novecento, ma da una sensibilità squisitamente pittorica.
Giuseppe Frangi
L'idea ancora estetica
del futurista gentile
Le mostre alla Fondazione
Ferrero di Alba hanno sempre qualcosa di sorprendentemente (e
piacevolmente) inconsueto. Qualcosa che mette in evidenza un senso
civile del fare cultura proprio di altre stagioni piuttosto lontane
della nostra storia. L’ingresso è gratuito; all’inizio del
percorso i visitatori sono invitati nell’auditorium, dove viene
proposto loro un video ben fatto e molto utile per capire la mostra
che di lì a poco vedranno; l’allestimento è sobriamente
essenziale; la guardiania è affidata a pensionati molto compresi nel
ruolo. La selezione delle opere, infine, obbedisce a criteri di
qualità senza perdere però mai di vista la funzione formativa e
divulgativa di una mostra, destinata a un pubblico largo.
Un’impostazione che è stata accuratamente rispettata anche in
occasione dell’ appuntamento con il Balla futurista e prefuturista,
curato da Ester Coen (FuturBalla, sino al 27 febbraio, catalogo
Skira).
Com’è giusto che sia, la prima opera che ci accoglie è un autoritratto datato 1894. Balla aveva 23 anni, ed era alla vigilia del suo trasferimento definitivo da Torino a Roma, capitale in grande fermento. Ha uno sguardo un po’ sfidante, più per posa che per natura: ci avverte che la sua autocoscienza artistica è fatto compiuto. I primi quindici anni di attività sono all’insegna di un verismo pieno di sentimento per un’umanità dolente e scartata. La tavolozza buia si accende di tanto in tanto, quasi per delle fiammate, a contatto con l’insegnamento divisionista. Nel 1910, quando già da un anno è scoppiata la bomba futurista, Balla dipinge un quadro molto intenso e poetico, intriso di neri morbidi e di luce soffusa. Il titolo dice tanto di lui: Affetti.
È l’allievo Boccioni a
squadernargli la novità, che Balla accetta con «meraviglioso»
slancio. Ecco come lo racconta Boccioni stesso, in una lettera
all’altro allievo Gino Severini: «Ci ammira e condivide le nostre
idee in tutto, è però ancora troppo fotografico ed episodico ma ha
42 anni, ha una volontà quasi vergine e intatta e lo spettacolo
della sua coraggiosa evoluzione ha commosso me e Marinetti come di un
eroismo di cui difficilmente si vedono esempi». Parole che disegnano
alla perfezione il profilo di Balla, e di cui non è difficile
trovare puntuali riscontri nel percorso della mostra.
Il 1912 è l’anno chiave. Una permanenza in Germania apre Balla alle esperienze dell’astrazione, nella forma di scomposizioni di colore che però, come chiarisce Ester Coen nel catalogo, non derivano da ricerche scientifiche, che pur avevano suggestionato tanti artisti, ma sono esito di «una ricerca squisitamente pittorica di accostamenti che simulano i timbri cromatici osservati in natura». Da Düsseldorf Balla torna con un piccolo quadro sorprendente e molto meditato: una veduta del Reno dalla finestra di casa, affondata in una luce biancastra. Quadro di uno sperimentalismo delicato, in cui l’audacia è temperata da un spirito di osservazione sempre attento e rispettoso.
Nel 1912 entrano in gioco
la luce e il movimento, due capisaldi della mens futurista. Ma Balla,
per quanto entusiasta e categorico nei suoi proclami, quando si mette
davanti al cavalletto torna sempre a essere fedele a se stesso. Il
suo così si palesa come un futurismo scevro da furori, un futurismo
gentile. In quell’opera caposaldo, arrivata da Buffalo, che è
Dinamismo di un cane al guinzaglio (1912), più che l’oltranzismo
da ricerca di avanguardia, prevale il senso del ritmo, la delicatezza
musicale della composizione.
L’eccitazione per
il nuovo è addolcita da un istinto che lo porta sempre a far
prevalere il dato di natura. Neanche nella bellissima sala in cui il
tema della velocità la fa da padrone e dove più si avverte la
vicinanza, o la pressione, di Boccioni, Balla viene meno a se stesso.
Non c’è ansia nei suoi dinamismi, regolati da armonie cromatiche e
da un immancabile senso di equilibrio. Non si avverte la tensione
visionaria del Boccioni a cui il rettangolo della tela davvero non è
più sufficiente e che sembra in procinto di andare definitivamente
oltre la tradizione.
Invece, come scrive Ester
Coen, «Balla è ancora pienamente immerso in un’idea estetica, in
una morale legata al concetto di rappresentazione». Più che
un’opzione culturale sembra proprio una questione di ordine
psicologico. Così, nonostante le colorite intemperanze dei messaggi
veicolati attraverso le sue cartoline creative (presenti in mostra),
alla fine Balla trova il vero se stesso su lidi ben più pacifici.
Questo spiega perché la Linea di velocità dell’aereo (da guerra,
ndr) Caproni, pastello del 1915, si trovi ad attraversare vortici di
un azzurro sereno, senza il minimo accenno bellicista. Eppure era il
1915…
Già due anni prima, in pieno tourbillon futurista, Balla aveva dipinto un quadro dominato da azzurri intensi che disegnano linee addolcite; un quadro dal titolo emblematico: Velocità astratta-L’auto è passata. Il sottotitolo potrebbe essere: è passata e l’abbiamo scampata. Torniamo all’amata pittura.
Il manifesto – 18
dicembre 2016
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