L’antico testo
indiano non è solo una guida ai comportamenti sessuali. Per alcuni
versi è un trattato politico per altri un repertorio romanzesco. Ma
il vero senso dell’opera si coglie risalendo alla sua natura di testo religioso.
Roberto Calasso
Kamasutra. Ci sono gli dèi dietro i segreti dell’erotismo
Universalmente
noto come repertorio di posizioni erotiche, talvolta passabilmente
acrobatiche e tali da mettere in soggezione un certo numero di amanti
occidentali, timorosi di essere poco inventivi, il “Kamasutra” di
Vatsyayana è anche, e forse soprattutto, un eccellente canovaccio
romanzesco, sotto specie di trattato ossessivamente classificatorio.
Ma per scoprirlo occorre una guida adatta — e nessuna potrebbe
essere migliore di Wendy Doniger, unica — per quanto so — fra i
grandi indologi viventi che sia anche un’autorità sui B-movies di
Hollywood, nonché sui vertiginosi intrecci di storie che possono
svolgersi intorno e dentro un letto, come ha dimostrato in un
sostanzioso volume — “The Bedtrick” — di qualche anno fa.
Così la sua edizione annotata del Kamasutra, pubblicata in
collaborazione con Sudhir Kakar nel 2002, è diventata subito — e
rimarrà — il testo di riferimento per questo classico che è stato
a lungo troppo famigerato per essere letto con la dovuta attenzione.
Le reazioni sono state subito vivaci e, nel corso dei quattordici anni successivi, Wendy Doniger ha avuto più volte occasione di tornare sul tema, inserendo il Kamasutra nella trattatistica indiana, che costituisce un immane corpus di testi. E soprattutto su uno di questi trattati si è appuntata la sua indagine: l’Arthashastra, che è il supremo compendio politico dell’India, considerato da molti di gran lunga più spietato e spregiudicato del Principe di Machiavelli. E Doniger infierisce ancora, scrivendo che «Kautilya fa sembrare Machiavelli come Madre Teresa». Anche se un parallelo trattato cinese, il Libro del Signore di Shang, che conosciamo grazie alla sapiente edizione di J.J.L. Duyvendak, può far apparire in paragone miti — anche se non proprio da Kindergarten — sia Kautilya sia Machiavelli.
L’arte erotica esposta
nel Kamasutra sarebbe dunque un ramo specifico di quell’arte degli
stratagemmi e degli inganni che Kautilya tratta magistralmente.
Dopotutto, spie, infiltrati e mezzani possono rivelarsi
indispensabili per conquistare una città come per sedurre una donna.
E il Kamasutra lo dimostra con dovizia di esempi. Il rapporto è
indiscutibile e Doniger lo illumina puntualmente, anche se — come
sempre in India — è disperante stabilire una sequenza temporale
rigorosa in cui situare i testi.
Ma una volta accertata la matrice trattatistica entro cui il Kamasutra è nato e va considerato, per il lettore di oggi il fascino — e anche il sottile divertimento — dell’opera è tutto nella straripante materia romanzesca di cui è intriso. Il libro può essere letto, da cima a fondo, come un repertorio delle situazioni erotiche in cui può venirsi a trovare un certo personaggio — e delle reazioni che può provocare nelle sue controparti femminili. Ma chi è questo personaggio? È il nagaraka, il man- about- town, come la lingua inglese concede di tradurre la parola, con perfetta corrispondenza idiomatica ( nagara vuol dire “città” in sanscrito).
Questo uomo di mondo
innanzitutto è ricco e non ha obblighi di alcun genere. La sua unica
mira è espandere e acutizzare i suoi piaceri, in numerose direzioni,
anche se l’eros spicca fra tutte. È devoto soltanto al kama, al
“desiderio”. Non intende accrescere il suo “potere” e i suoi
“interessi” (sfera dell’artha). Quanto al dharma, “ordine”
o “legge”, lo rispetta e lo ignora. Come il giovane Ovidio a Roma
due secoli prima, frequenta i riti e le feste religiose perché sono
ottime occasioni per individuare donne belle, passibili di diventare
un giorno oggetto di conquista. La sua vita è al tempo stesso
variegata e altamente ripetitiva. Ma tale non è forse anche quella
di un uomo d’affari, di un cortigiano o di un religioso? Se il
culmine e coronamento di ogni sua attività è l’atto sessuale —
così come lo era il concubitus per il giovane Ovidio dell’Ars
amatoria -, l’uomo di mondo sarà tenuto ad addestrarsi anche nelle
«sessantaquattro arti che deve imparare chiunque (maschio o femmina)
tratti in modo veramente serio il piacere ».
E qui è solo una delizia
scorrerne l’elenco, che include la capacità di ritagliare sagome
dalle foglie, fare musica sugli orli di bicchieri d’acqua (come il
Mozart dei pezzi per Glasharmonika), preparare letti, mescolare
profumi, insegnare a parlare a pappagalli e gracule, praticare la
stregoneria, conoscere lessici e dizionari di sinonimi, essere
esperti di presagi e delle scienze strategiche. Infine, al
sessantaduesimo posto, appaiono “le buone maniere”. Entrambi gli
amanti devono gareggiare in tutte queste arti — e la loro pratica,
secondo il “Kamasutra”, non fa che accrescere l’esaltazione
erotica.
Le stesse conoscenze
appartengono all’educazione di una cortigiana di lusso. La quale,
se ne è esperta, «ottiene un posto nel consesso pubblico». Nulla è
arbitrario o accidentale: alle sessantaquattro arti corrispondono le
sessantaquattro varianti dell’amplesso. Che non differiscono molto,
per pure ragioni anatomiche, da quelle suggerite dalle massime
autorità occidentali in materia, che rimangono l’Aretino e
l’autore dei dialoghi di Aloisia Sigea.
E qui si impone una glossa: l’Occidente ha prevalentemente affidato la dottrina delle posizioni erotiche a voci femminili: i Ragionamenti dell’Aretino e i dialoghi di Aloisia Sigea sono conversazioni fra donne che sanno molto della vita sessuale o sono avide di saperne di più. Mentre l’unico trattato dell’antichità classica paragonabile al Kamasutra (e ahimè perduto) era attribuito a una certa Elephantis, il cui nome — secondo la Pauly-Wissowa — «può essere situato nel folto gruppo di nomi di etère che sono derivati da animali». Nulla rimane di tale testo, tuttavia sappiamo da Suetonio che le sue tabellae — ovvero illustrazioni — vennero fatte copiare dall’imperatore Tiberio sulle pareti della sua villa a Capri, come manuale di istruzioni per i suoi ospiti e per se stesso.
Ma, più che nell’elenco delle veneris figurae o modi coeundi — come si usava dire a Roma -, la peculiarità del Kamasutra sta nella sistematicità e nella implacabile precisione del dettaglio. Come anche nel fatto che questa puntigliosa cronaca fisiologica e psicologica include in sé sia una descrizione dell’orgasmo femminile quale nessun autore occidentale avrebbe azzardato sia un elenco degli accorgimenti con cui una cortigiana può liquidare un amante molesto. Lettura in- cantevolmente profana, che al tempo stesso non può comunque fare a meno di richiamarsi all’antichità vedica e, di là da essa, alla vita degli dèi. Perché di fatto già nel Rigveda si diceva che «il desiderio, kama, è il primo seme della mente».
Così veniamo a sapere
che Vatsyayana è solo il tardo redattore di un trattato di materia
erotica che nel corso del tempo si era sempre più ridotto e
semplificato. Suo primo autore era stato il mite toro Nandin, che
vegliava sulla porta della camera da letto dove Shiva e Uma erano
congiunti in un interminabile coito, durato mille anni degli dèi.
Insieme guardiano, voyeur e scriba, Nandin aveva annotato il sapere
erotico che un giorno anche gli uomini avrebbero dovuto apprendere,
sebbene parzialmente, essendo incapaci di applicarlo nella sua
interezza. Procedimento usuale nell’India classica, presupponente
all’inizio una conoscenza sterminata, che si contrae e inaridisce
nel tempo, fino alle bassure del Kali Yuga, in cui viviamo.
Concezione specularmente opposta a quella evoluzionistica
occidentale, che presuppone all’inizio una successione di bruti
inarticolati, che poi si innalzano fino alle sommità della Ragione.
Il vero gusto del Kamasutra non si coglie se dalle sue minuziose descrizioni di schermaglie e trappole erotiche, dove graffi e morsi ricordano sempre che l’eros è comunque un duello — e talvolta mortale -, non si risale a quella remota cornice divina. Perché in India, fin dall’origine e fin dai riti esposti nei Brahmana, l’eros è ubiquo e onnipresente. Non meno illuminante di Nandin è il secondo autore leggendario del Kamasutra: Shvetaketu, colui che ridusse i mille capitoli scritti da Nandin a quei cinquecento destinati a essere poi, nel corso del tempo, ulteriormente ridotti, fino a diventare i centocinquanta di Babhravya del Panchala e i trentasei di Vatsyayana.
Chi era Shvetaketu? Lo vediamo apparire, a ventiquattro anni, nella Chandogya Upanishad. Dopo dodici anni di studi, si presenta al padre come «contento di sé, fiero delle sue conoscenze, orgoglioso ». Il padre gli dice che ancora nulla sa, anche se aveva studiato tutti i Veda. Ora gli sarebbe toccato andare oltre. E a questo punto il padre di Shvetaketu avviava una sequenza rapinosa di pensieri, che culminava con l’atman, il Sé, e si condensava in tre parole: Tat tvam asi, “Ciò tu sei”. Quelle tre parole sono il grano di senape che schiude l’immensità vedica. E a noi sono giunte in quanto parole dette a questo giovane brahmano, il quale — in un momento successivo della sua vita — avrebbe redatto una versione abbreviata della dottrina erotica di Nandin. Così Shvetaketu era stato un anello fra gli anelli da cui è nato il Kamasutra. A dimostrazione del fatto che, se c’è stato un luogo dove tout se tient, tale era l’India vedica. In Occidente sarebbe difficile immaginare una leggenda che facesse risalire a Parmenide il trattato erotico dell’etèra Elephantis.
Wendy Doniger ha
finalmente reso giustizia al Kamasutra, innanzitutto traducendolo in
modo adeguato, senza i malintesi e le superfetazioni stilistiche di
Burton, e ricollocandolo in una posizione eminente nella
trattatistica indiana. Utile contravveleno a quelle «pratiche
pervasive e spesso violente di polizia morale » che hanno
attanagliato una parte dell’India e della diaspora indiana in
questi ultimi anni, soprattutto dopo il ritorno al governo del
Bharatiya Janata Party, con le sue squadre di fondamentalisti indù
del Bajrang Dal, che intervengono brutalmente per impedire i
festeggiamenti per San Valentino, considerati un esempio di
“capitalismo pornografico”.
Giustamente, come
considerazione finale, Doniger ha ricordato che il dio Kama, ovvero
Desiderio, dopo esser stato incenerito da Shiva, venne a trovarsi
infuso, con le sue particelle, «in un certo numero di altre
sostanze, che facevano agire la magia di Kama in modo ancora più
efficace — la luce lunare, le sopracciglia arcuate delle donne
belle e così avanti». E Shiva stesso è contraddistinto dalla più
vasta oscillazione fra estremi che conosciamo. Lo dice anche il
titolo di un libro prezioso che Doniger pubblicò nel 1973: Shiva.
L’asceta erotico. Ma quell’oscillazione vale anche per l’India
in genere. Di Kama nessuno sarà in grado, per fortuna, di
sbarazzarci.
La Repubblica – 2
dicembre 2016
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