Pubblicato l'epistolario tra i due coniugi scrittori
che nella loro opposizione (realista lui, poetica lei) rappresentano i due assi
della letteratura italiana del secolo scorso.
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Moravia-Morante: lettere da un matrimonio del '900
di Massimo Onofri
Il titolo
non poteva essere scelto meglio: Quando verrai sarò quasi felice.
«Quasi»: a trasformare in una specie di stemma araldico un sentimento amoroso,
e poi coniugale, che fu tenacissimo, ma che seppe nutrirsi, sin da subito,
dell’ombra d’una inquietudine perpetua caratterizzando dall’inizio alla fine,
seppure in modi diversi, tutta la loro vita. Dentro una selvatica e generosa
insofferenza, spinta talvolta sino all’autodistruttività, quanto a Elsa
Morante. Fedele a un lucidissimo disincanto, nel caso di Alberto Moravia. Il
sottotitolo, invece, definisce il libro senz’ombra di dubbio: «Lettere a Elsa
Morante (1947-1983)». A pubblicarlo, come sempre avviene per Moravia, è
Bompiani, tanto più che le missive e le responsive della Morante sono andate
quasi tutte perdute: se è vero che – come nota la curatrice Alessandra
Grandelis – Moravia, da sempre, era «abituato a liberarsi delle carte che in
qualche modo gli potevano ricordare il proprio passato». Una corrispondenza,
insomma, che ignora la fase aurorale del loro rapporto: Moravia e Morante si
sposarono il 14 aprile 1941, nel mentre Alberto scrive quel piccolo capolavoro
che è Agostino e Elsa sta per iniziare il bellissimo Menzogna e
sortilegio (1948). E che dura ben oltre la loro separazione, avvenuta nel
1961 senza mai sfociare nel divorzio, spingendosi sino a pochi mesi prima del
tentativo di suicidio della scrittrice, nel 1983, la quale morirà due anni
dopo. Non sarà inutile avvertire il lettore che, in Appendice, troverà anche
tre lettere inviate da Moravia, tra il 1937 e il 1942, a Giacomo Debenedetti,
suo amico e grande sponsor della prima ora della Morante.
La dedizione
e le premure di Alberto per Elsa sono senza pause: e quasi commuovono.
Altrettanto costante è la nostalgia per l’amata lontana, la voglia di
condividere ogni cosa con lei: «Rimpiango veramente tutto il tempo che tu non
sia qui perché ti saresti trovata molto be- ne con tutte le persone che ho
visto» (Parigi, 11 dicembre 1959). Anche se lo scrittore non si risparmia
momenti di brusca franchezza, in ossequio a un principio di assoluta sincerità:
«Cara Elsa, non capisci niente e questo perché gli altri non esistono per te,
esistono soltanto i tuoi sentimenti per gli altri, molto mutevoli e spesso poco
lusinghieri». E più avanti: «Tu sei a te stessa il mondo intero, ivi compresa
la mia modesta persona. (…) Sperare di introdurre in un mondo siffatto un’ombra
di verità è fatica inutile. Si può sperare soltanto che i tuoi sogni coincidano
casualmente con la realtà» (Cuba, forse gennaio 1966, ma coi forti dubbi della
curatrice).
Le lettere
di Moravia sono sempre improntate a una concreta quotidianità e non concedono
nulla al 'letterario', alla mitizzazione culturale d’un rapporto che, pure, fu
speciale, se non eccezionale. La letteratura – nel senso anche dei libri letti,
degli scrittori amati – non vi gioca mai un ruolo privilegiato. Nonostante ciò,
come avviene anche nell’ultima lettera citata, l’autoritratto di Alberto si
dispone e si giustifica proprio in relazione a quello di Elsa: e in funzione di
esso si chiarisce. Da una parte, l’antinarcisistico principio di verità
accampato da Moravia: anche se io preferirei parlare di principio di realtà.
Dall’altra, il rifiuto degli altri e la costituzione di se stessa, dei propri
sogni, come mondo autonomo, della Morante, così come il marito la vede.
Si tratta
d’una contrapposizione, che ci conferma il notevole intuito critico dello
scrittore, il quale avrà modo di confermare e articolare la sua idea nei Dialoghi
confidenziali con Dina d’Isa, apparsi nel 1991: «Elsa (…) odiava la realtà,
la sfuggiva, come il gatto teme l’acqua. (…) Lei amava il sogno, desiderava
vivere in un’atmosfera poetica perché lei stessa era poetica. Io non sono così.
A me piace il reale, in tutte le sue manifestazioni, l’amo tanto che cerco di
capirlo e di esprimerlo». Ecco: dotati entrambi d’un notevolissimo carisma – a
Roma, per anni, o si era moraviani o morantiani, senza mediazioni – , grande
scrittore lui, per certi aspetti un genio lei, rappresentano forse, nella loro
opposizione, l’ascissa e l’ordinata d’un diagramma possibile della letteratura
italiana del più conclamato Novecento. Monotematico sino all’ossessione
Moravia, dall’esordio degli Indifferenti (1929) sino a L’uomo che
guarda (1985) e La donna leopardo (1991: postumo): nei modi di una
coerenza per nulla contraddetta dalla fase romana e popolare, né dal dialogo
rimasto sempre superficiale con la Neoavanguardia. Plurale e plurima la
Morante, capace, in ognuno dei suoi quattro romanzi di ricominciare sempre da
capo: da Menzogna e sortilegio a Aracoeli (1982). Moravia,
anatomopatologo della borghesia italiana, ritaglia uno spicchio di realtà e lo
sottopone a un processo, per così dire, di pressurizzazione, perché nessun
dettaglio sia negato all’occhio implacabile del diagnostico.
Anche la
Morante muove dalla realtà, ma per sottoporla a una specie di rito sciamanico:
quello di Menzogna e sortilegio, tante per dire, non è il Meridione, ma
il suo fantasma. Nella Morante non vige un atto d’ossequio nei confronti della
realtà storica e geografica, ma si consuma il rito d’una singolare elaborazione
del lutto: sicché non siamo di fronte alla celebrazione del grande romanzo, ma
alla sua resurrezione in vista d’uno struggente funerale, come del resto
certificò il suo libro più frainteso e deprecato, e cioè La Storia
(1974).
Ecco: se
Moravia è forse stato il principale e più ostinato scrittore del visibile che
l’Italia abbia avuto nel secolo scorso, la Morante non ha fatto altro che
onorare l’invisibile e il suo lancinante mistero: basta leggere quello che è,
credo, il suo più antico racconto, «L’uomo dagli occhiali» (1937), poi raccolto
nel Gioco segreto (1941), per rendersene conto. Se fosse possibile
scrivere una storia del romanzo dal punto di vista dei morti, tra Pascoli e il
Salvatore Satta del Giorno del giudizio (1977), la Morante avrebbe di
sicuro un posto di assoluto rilievo.
Avvenire 13 dicembre 2016
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