16 dicembre 2016

MARIO DONDERO UN ANNO DOPO



Fotografie di Mario Dondero






Un anno senza Mario Dondero


di Angelo Ferracuti

Da un anno Mario non c’è più, e in questo periodo ho continuato a girare più che mai, tornando anche in luoghi dove eravamo stati insieme, incontrando comuni amici e parlando continuamente di lui.
Parlare di Mario è un modo per tenerlo vivo fuori e dentro di me, rinnovare un affetto profondo e la riconoscenza di uno che gli deve molto.
Viaggiare è diventato ormai il mio modo, come lo era il suo. Questa mania di non stare mai fermi, la curiosità dell’avventura antropologica, che non capisco se mi è stata trasmessa per contagio, se è qualcosa che incubavo segretamente da anni, oppure se si tratta della conseguenza naturale del fare reportage.
Mario era uno sempre in partenza, il viaggio per lui era una condizione necessaria, quella che fece dire a un altro grande fotografo, Josef Koudelka, la frase illuminante: «Viaggio per non diventare cieco».
L’altro giorno, rileggendo un libro di Ryszard Kapuściński, In viaggio con Erodoto, ho trovato un’altra frase che sarebbe piaciuta al mio amico e si potrebbe aggiungere a questa per chiudere il cerchio: «Solo in viaggio un reporter si sente se stesso e a casa propria». Un altro viaggiatore, Bruce Chatwin, la chiamava «alternativa nomade», credo che in definitiva sia il demone che agita i viaggiatori, con una componente molto forte di scoperta ma anche di fuga. Infatti, da ragazzo Dondero voleva fare il marinaio, poi è diventato fotografo.
Durante questo suo lungo viaggio durato quasi un secolo, i suoi occhi hanno visto per noi le migliaia d’immagini che sono la scatola nera in larga parte sommersa che nella Fototeca di Altidona stanno faticosamente portando alla luce. Gli occhi di Mario sono nella mitologica foto del Noveau roman, è lui che sta davanti a Samuel Beckett, lo scrittore dall’aria severa, impenetrabile, vicino a Natalie Serraute, Claude Simon, sempre Mario è per le strade di Parigi impavido a fotografare la rivolta, tra i ragazzi eleganti e in cravatta in una barricata in rue Gay Lussac nel ’68, così come a Berlino durante la caduta del muro, dove genialmente – al contrario di tutti i reporter a caccia dello scoop – documenta come scorre la vita della gente normale dopo il crollo.
Non so come ha fatto a fotografare le due simpatiche maestre in bicicletta nelle campagne del Connemara in Irlanda che cantano e ridono allegramente su una strada di polvere, sempre nel ’68, una immagine bellissima, anno di una gita fatta con tutta la squadra del Manchester United a inseguire il mito di George Best.
Quando guardo una sua fotografia, ripenso ai suoi occhi che l’hanno vista, prima di scattare, e quante volte gliel’ho visto fare infaticabile, con la stessa inguaribile e onnivora curiosità. Penso che lui fosse lì, proprio nell’aula del tribunale militare dove stava Alekos Panagulis, processato dai colonnelli ad Atene nel 1967, o sul set de La ricotta e di Comizi d’amore con Pier Paolo Pasolini e l’imponente Orson Welles seduto sulla sedia da regista, stava davanti a Fidel Castro alla conferenza dei paesi non allineati ad Algeri, nel 1973, la macchina fotografica impugnata come un’arma, pronto a scattare.
Di queste pose, frutto di spostamenti e viaggi, rocambolesche fughe, è quello che resta di lui come qualcosa di estremamente vivente nella metamorfosi del tempo dentro quel bianco e nero gravido, mai lezioso, di un fotografo naturale.
Per un narratore della realtà come Mario era necessario oltrepassare frontiere, sconfinare, e anche esserci con una forte presenza corporale, l’avventura umana era anche quella di inventare ogni volta l’empatia necessaria per raccontare storie diverse in latitudini lontane, a capofitto dentro i destini dei popoli e della Storia.
Solo oggi capisco veramente, per intima consonanza, che il suo interesse principale era questo: partire. Il viaggio prelude all’incontro, alla scoperta dell’altro da sé, e per il reporter che era lui se nell’esperienza umana non c’era un elemento politico, anche inconsapevole e di pura lotta per la sopravvivenza, il cerchio etico non poteva chiudersi. Gli interessava capire, tornando molte volte nei luoghi e facendo quella che chiamava «l’arte dell’avvicinamento», ossessionato com’era dai sedimentati storici, culturali, etnici, attratto dalle contraddizioni, contestualizzandoli dentro le tante letture che precedevano l’azione vera e propria, affinché la complessità potesse alla fine sciogliersi nelle tante storie della Storia che ci ha lasciato in eredità nel suo vastissimo archivio.
Quante volte l’ho visto partire, e quante ritornare, con l’energia vitale di un eterno ragazzo, il resto erano i racconti di quel tempo in cui la vita accelerava, diventava più potente, forzandone le maglie, il tempo della vacanza, nel senso proprio della sparizione, quello prezioso del reportage e del racconto vivente. Inventare la vita, forzarla, era un’altra sua specialità, e questo gli serviva per fotografare qualcosa che mentre scattava subiva una trasformazione.
A lui le metamorfosi riuscivano meravigliosamente, e frequentandolo si rideva tantissimo, anche una semplice passeggiata diventava un’avventura memorabile. Perché in quei momenti la vita subiva un decollo vertiginoso, le persone che incontravamo erano più belle e gentili, e di fronte a lui la maggior parte di loro diceva cose profonde, le donne diventavano più attraenti, forse a causa delle sue raffinate galanterie, e le aggettivazioni usate da Mario toccavano il cuore di tutti.
La sua capacità di cambiare le vite degli altri, di migliorarle, in lui è stata una vera e propria arte. In questo, e non solo in questo, è stato davvero un grande maestro.

Questo articolo è uscito ieri su «il manifesto». Noi l'abbiamo ripreso da:
    http://www.leparoleelecose.it/?p=25411

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