Fotografie di Mario Dondero
Un anno senza Mario Dondero
di Angelo Ferracuti
Da un anno Mario non c’è più, e in
questo periodo ho continuato a girare più che mai, tornando anche in
luoghi dove eravamo stati insieme, incontrando comuni amici e parlando
continuamente di lui.
Parlare di Mario è un modo per tenerlo
vivo fuori e dentro di me, rinnovare un affetto profondo e la
riconoscenza di uno che gli deve molto.
Viaggiare è diventato ormai il mio modo,
come lo era il suo. Questa mania di non stare mai fermi, la curiosità
dell’avventura antropologica, che non capisco se mi è stata trasmessa
per contagio, se è qualcosa che incubavo segretamente da anni, oppure se
si tratta della conseguenza naturale del fare reportage.
Mario era uno sempre in partenza, il
viaggio per lui era una condizione necessaria, quella che fece dire a un
altro grande fotografo, Josef Koudelka, la frase illuminante: «Viaggio
per non diventare cieco».
L’altro giorno, rileggendo un libro di Ryszard Kapuściński, In viaggio con Erodoto,
ho trovato un’altra frase che sarebbe piaciuta al mio amico e si
potrebbe aggiungere a questa per chiudere il cerchio: «Solo in viaggio
un reporter si sente se stesso e a casa propria». Un altro viaggiatore,
Bruce Chatwin, la chiamava «alternativa nomade», credo che in definitiva
sia il demone che agita i viaggiatori, con una componente molto forte
di scoperta ma anche di fuga. Infatti, da ragazzo Dondero voleva fare il
marinaio, poi è diventato fotografo.
Durante questo suo lungo viaggio durato
quasi un secolo, i suoi occhi hanno visto per noi le migliaia d’immagini
che sono la scatola nera in larga parte sommersa che nella Fototeca di
Altidona stanno faticosamente portando alla luce. Gli occhi di Mario
sono nella mitologica foto del Noveau roman, è lui che sta davanti a
Samuel Beckett, lo scrittore dall’aria severa, impenetrabile, vicino a
Natalie Serraute, Claude Simon, sempre Mario è per le strade di Parigi
impavido a fotografare la rivolta, tra i ragazzi eleganti e in cravatta
in una barricata in rue Gay Lussac nel ’68, così come a Berlino durante
la caduta del muro, dove genialmente – al contrario di tutti i reporter a
caccia dello scoop – documenta come scorre la vita della gente normale
dopo il crollo.
Non so come ha fatto a fotografare le
due simpatiche maestre in bicicletta nelle campagne del Connemara in
Irlanda che cantano e ridono allegramente su una strada di polvere,
sempre nel ’68, una immagine bellissima, anno di una gita fatta con
tutta la squadra del Manchester United a inseguire il mito di George
Best.
Quando guardo una sua fotografia,
ripenso ai suoi occhi che l’hanno vista, prima di scattare, e quante
volte gliel’ho visto fare infaticabile, con la stessa inguaribile e
onnivora curiosità. Penso che lui fosse lì, proprio nell’aula del
tribunale militare dove stava Alekos Panagulis, processato dai
colonnelli ad Atene nel 1967, o sul set de La ricotta e di Comizi
d’amore con Pier Paolo Pasolini e l’imponente Orson Welles seduto sulla
sedia da regista, stava davanti a Fidel Castro alla conferenza dei paesi
non allineati ad Algeri, nel 1973, la macchina fotografica impugnata
come un’arma, pronto a scattare.
Di queste pose, frutto
di spostamenti e viaggi, rocambolesche fughe, è quello che resta di lui
come qualcosa di estremamente vivente nella metamorfosi del tempo dentro
quel bianco e nero gravido, mai lezioso, di un fotografo naturale.
Per un narratore della realtà come Mario
era necessario oltrepassare frontiere, sconfinare, e anche esserci con
una forte presenza corporale, l’avventura umana era anche quella di
inventare ogni volta l’empatia necessaria per raccontare storie diverse
in latitudini lontane, a capofitto dentro i destini dei popoli e della
Storia.
Solo oggi capisco veramente, per intima
consonanza, che il suo interesse principale era questo: partire. Il
viaggio prelude all’incontro, alla scoperta dell’altro da sé, e per il
reporter che era lui se nell’esperienza umana non c’era un elemento
politico, anche inconsapevole e di pura lotta per la sopravvivenza, il
cerchio etico non poteva chiudersi. Gli interessava capire, tornando
molte volte nei luoghi e facendo quella che chiamava «l’arte
dell’avvicinamento», ossessionato com’era dai sedimentati storici,
culturali, etnici, attratto dalle contraddizioni, contestualizzandoli
dentro le tante letture che precedevano l’azione vera e propria,
affinché la complessità potesse alla fine sciogliersi nelle tante storie
della Storia che ci ha lasciato in eredità nel suo vastissimo archivio.
Quante volte l’ho visto partire, e
quante ritornare, con l’energia vitale di un eterno ragazzo, il resto
erano i racconti di quel tempo in cui la vita accelerava, diventava più
potente, forzandone le maglie, il tempo della vacanza, nel senso proprio
della sparizione, quello prezioso del reportage e del racconto vivente.
Inventare la vita, forzarla, era un’altra sua specialità, e questo gli
serviva per fotografare qualcosa che mentre scattava subiva una
trasformazione.
A lui le metamorfosi riuscivano
meravigliosamente, e frequentandolo si rideva tantissimo, anche una
semplice passeggiata diventava un’avventura memorabile. Perché in quei
momenti la vita subiva un decollo vertiginoso, le persone che
incontravamo erano più belle e gentili, e di fronte a lui la maggior
parte di loro diceva cose profonde, le donne diventavano più attraenti,
forse a causa delle sue raffinate galanterie, e le aggettivazioni usate
da Mario toccavano il cuore di tutti.
La sua capacità di cambiare le vite
degli altri, di migliorarle, in lui è stata una vera e propria arte. In
questo, e non solo in questo, è stato davvero un grande maestro.
Questo articolo è uscito ieri su «il manifesto». Noi l'abbiamo ripreso da:
http://www.leparoleelecose.it/?p=25411
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