Molto profonde le considerazioni “laiche” che fa Recalcati sul “mistero” della Natività, ricollegandolo allo stretto discrimine tra vita e morte, si/ci pone questo bell’interrogativo:“L’esistenza umana non è essa stessa questo crepaccio che separa e accosta l’assoluto della vita e della morte?”
Festa (e misteri) della nascita
MASSIMO RECALCATI
IL NATALE celebra ogni anno l’evento della
nascita di Gesù Cristo. Il frastuono e il traffico commerciale delle
settimane che lo precedono, negli anni sempre più assordanti e
insopportabili, sembrano occultare il mistero che quell’evento porta con
sé. Nella tradizione biblica è il mistero dell’incarnazione, di Dio che
viene al mondo nella forma di una vita umana. Niente è mai stato così
sovversivo nella storia delle religioni.
LA POTENZA infinita di Dio assume la fragilità
povera e spoglia di gloria di un bambino escluso dalla vita della città,
extracomunitario, riscaldato da una mangiatoia per animali. Eppure nel
racconto evangelico questa nascita che accade nella notte e in
condizioni di emergenza porta con sé una luce potente.
Ma non è forse sempre così? Riletto laicamente
il mistero della nascita di Cristo non rivela qualcosa di essenziale
della condizione umana? Per esempio che niente è più vicino
all’esperienza della morte come una sala parto. Le madri sanno bene che
il tempo dell’evento della nascita porta sempre con sé dei fantasmi di
pericolo, minacce oscure, l’ombra spessa del mostruoso e del
terrificante. Un racconto di una ostetrica mi ha sempre colpito. In
piena notte di Natale si deve fronteggiare un parto difficile. L’urgenza
richiede di allestire rapidamente una sala parto improvvisata. Nella
sala operatoria adiacente una vita sta lottando con la morte a causa di
un grave incidente automobilistico. Il confine tra le due sale è
sottile, sottilissimo. Da una parte una vita che lotta per venire alla
vita; dall’altra una vita che lotta per restare in vita. La clinica
medica conosce, perché lo pratica quotidianamente, il crepaccio che
separa e accosta la vita alla morte. In quell’ospedale, nella notte di
Natale, in una sala il cuore non regge e il paziente muore; nell’altra,
la vita si afferma con il suo grido di liberazione: un bambino è nato!
In un caso la morte rapina la vita, nell’altro la vita si afferma sulla
morte. Ma non siamo forse tutti fatti di questo? L’esistenza umana non è essa stessa questo crepaccio che separa e accosta l’assoluto della vita e della morte?
Nella festa della natività che la tradizione
cristiana eleva alla dignità del mistero possiamo laicamente trovare il
miracolo della vita che viene al mondo strappandosi ogni volta dal
rischio — sempre incombente — della morte. La luce stellare che circonda
il piccolo e inerme Gesù è la festa della vittoria della vita sulla
morte. Essa anticipa la missione fondamentale di questo piccolo e
disarmato re: liberare la vita dalla paura della morte. Non attraverso
l’illusione narcisistica della volontà di potenza, di una affermatività
che non conosce limiti, della prepotenza antropocentrica. Ma attraverso
l’inermità del figlio, la sua condizione di insufficienza, di abbandono,
di dipendenza assoluta dall’Altro.
Solo accostando il precipizio della morte,
senza scansarlo fobicamente, la vita può vincere il terrore della morte.
In questo il Natale è la festa della luce della vita che vince sulle
tenebre della distruzione. L’inizio (Natale) e la fine (Pasqua) nel
racconto evangelico coincidono. Nella nascita di ogni bambino si rinnova
questo miracolo incessante, questo ritorno insistente della vita al di
là della morte. Ecco perché non c’è niente di più straziante di
assistere a parti che non generano vita ma malattia o morte.
Contraddizione feroce di cui gli psicoanalisti diventano talvolta
testimoni: il figlio è morto o è nato male; il miracolo della nascita
non è accaduto. Per una madre è sempre un doppio e drammatico lutto: per
il bambino perduto e per la propria capacità generativa che non è stata
all’altezza dell’evento. Lutto senza parole e senza conforto che
ribadisce quel nesso stretto tra la vita e la morte che ogni madre
conosce bene.
C’è sempre un momento nel parto dove la madre
ha la sensazione che se, al colmo delle sue doglie, non spinge per fare
uscire il proprio figlio dal suo corpo potrebbe rischiare di soffocarlo.
Ho sentito questo racconto più volte dalle mie pazienti: l’ultima
spinta è quella che, salvando il bambino dal rischio del soffocamento,
lo apre alla vita ma solo a condizione di perderlo, spingendolo,
appunto, fuori, gettandolo nel mondo. Anche qui il confine tra la vita e
la morte appare strettissimo. È il dono più grande della maternità:
lasciare che il bambino cresciuto nel proprio ventre si separi, esca
fuori, divenga vita propria. Lo sapeva bene anche Maria: giovanissima
madre che portava in grembo — come tutte le madri — il figlio di un
Altro, un figlio non di sua proprietà, il cui destino deve essere quello
di morire sulla croce, ovvero, laicamente, di essere perduto.
Accade per ogni madre: spingerli fuori,
lasciarli andare, osservare il segreto della vita del figlio senza
volersene impadronire. Il miracolo della natività consiste, ogni volta,
in questo. Ma quante volte può nascere un uomo? Quante volte può cadere
per poi rialzarsi? Quante volte si può risorgere dalle proprie ceneri?
Quante volte ci siamo sentiti spinti, gettati fuori? È proprio per
questa possibilità continua della nascita che Hannah Arendt, contestando
il suo maestro Martin Heidegger, sosteneva che gli esseri umani non
sono fatti per morire ma per nascere.
Articolo pubblicato da LA REPUBBLICA il 24 dicembre 2016
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Il presepe? È rappresentazione del processo individuativo.
Daniela Thomas
'Il Natale, in senso psicologico, è una celebrazione transculturale dell'archetipo della nascita. Nello specifico, il Natale cristiano s'innesta su festività preesistenti come quella del 'Sol Invicuts' e simbolizza la nascita e la rinascita della luce, da intendersi non solo come una celebrazione solstiziale (il sole che arriva al minimo della sua luminosità e che da lì riprende ad aumentarla) ma, in senso simbolico, come la costante rigenerazione della coscienza'. Ecco quindi che 'Nella notte più buia dell'anno, nella grotta più oscura della terra, nei momenti più cupi dell'esistenza, lì nasce la luce'. Queste parole sono di Claudio Widmann, analista junghiano e membro del Centro italiano di psicologia analitica (Cipa), che da poco ha pubblicato la nuova edizione del suo ultimo libro su 'La simbologia del presepe' (Magi edizioni).
- Cosa provoca questa festività a livello soggettivo e collettivo? 'Quello che succede in ogni celebrazione rituale- afferma il terapeuta- un'intensa partecipazione emozionale a un tema simbolico, un pathos vissuto in diverse sfumature, che solo apparentemente è legato alle forme esterne della ritualità (i fiocchi di neve, la capanna, i re magi, i doni e le cene rituali) e che in realtà, rimanda al contenuto latente del simbolo, alla riattivazione numinosa della coscienza'. I riti spesso si collettivizzano e diventano delle celebrazioni: etimologicamente celebrazione significa coinvolgimento di molte persone. Questo è l'aspetto generico del mito- spiega Widmann-. L'aspetto specifico del Natale parla invece di una riformulazione e di salti evolutivi della coscienza collettiva. Non è del tutto un caso che, indipendentemente dalle credenze e dalla verità storica del Cristo, il rimando storico del Natale venga assunto a livello intercontinentale, direi quasi mondiale, come passaggio da un'epoca all'altra: prima e dopo Cristo'.
- Come mai ha scritto questo libro? 'È partito dal mio interesse per un simbolismo che ha a che fare con l'archetipo degli inizi- risponde l'analista-. La nascita di per sé ha intrinsecamente attinenza con quella situazione che archetipicamente caratterizza tutti gli inizi e che contiene un'intensità energetica particolarmente forte. Dal punto di vista analitico- spiega lo psicoterapeuta junghiano- attribuiamo particolare importanza al primo sogno, alle prime relazioni oggettuali e ai primi tre anni di vita. Tutto ciò che ha a che fare con la dimensione primigenia è incisivo perché contiene una intensità molto particolare. Gli stessi astrofisici stanno studiando cosa sia accaduto nelle prime frazioni di minuto dopo il big Bang. La nascita della luce parla della nascita e della rinascita della coscienza'.
- Cos'è il presepe dal punto di vista della psicologia analitica? 'Il presepe è la rappresentazione spazializzata e scenografica dell'inizio del processo individuativo, dell'avvio e dell'inizio di un'interazione molto specifica tra coscienza e inconscio'.
- Com'è rappresentata questa interazione nel presepe? 'In una varietà di modi- replica Widmann- c'è tutta una serie di figure che hanno a che fare con l'inconscio. Nel presepe napoletano, ad esempio, esistono figure oscure come l'Antro dei diavoli, con riferimento a Belfagor nella Cantata dei Pastori. C'è inoltre il macellaio, una figura distruttiva e sanguigna o l'ostessa che fa le polpette nel diversorio. Anche queste figure fanno empiricamente riferimento alla ballata dei pastori, quando l'oste (che è per l'appunto il diavolo) e l'ostessa cercano di assassinare Giuseppe Maria. Figure oscure ritornano nelle tradizioni natalizie tirolesi attraverso lo spazzacamino: uomo nero a tutti gli effetti con rimandi trasparenti alle figure dell'inconscio'.
Tutti i presepi, e 'la narrazione evangelica stessa, contengono riferimenti espliciti agli stati dell'incoscienza e dell'inconscietà con i pastori addormentati', ricorda l'esponente del Cipa. 'C'è Benino nel presepe napoletano che raffigura in maniera suprema l'immagine di una persona adagiata in uno stato d'inconscietà. Nel presepe spagnolo troviamo un'espressione molto prosaica, ma simbolicamente efficace: il cagadero, uomo intento a defecare, rappresentato in questa prosaica occupazione con un sorriso beato. È il ritratto di colui che, inconsciamente assorbito nella propria quotidianità, perde di vista il mistero: la potente trasformazione del rinnovamento della psiche'.
- Quali sono invece le figure della coscienza? 'Sono numerose- continua il professore- a cominciare dagli angeli che chiamano al risveglio e portano l'annuncio ai pastori, fino ad arrivare alle levatrici che alludono a contenuti psichici portati alla luce dalla profondità inconscia'. Figure della coscienza sono anche i re magi 'con tutta una serie di richiami alla coscienza: dalla stella cometa che guida e orienta agli scintillii di una nuova luminosità coscienziale'.
Il tema della stella cometa, del cielo stellato, delle lucette sul presepe e sull'albero di Natale sono rimandi ai 'barlumi di coscienza che cominciano ad accendersi nell'inconscio. L'albero di Natale fu inventato da Martin Lutero- fa sapere l'analista- che fece accendere delle candeline sull'abete situato nel sagrato antistante la chiesa per riprodurre l'effetto del cielo stellato sopra la grotta di Betlemme. Luminescenze che si accendono nel buio dell'inconscio'. La Figura massima della coscienza? 'È il bambino, immagine individuativa nuova che emana luce'.
- E cosa dire sugli animali? 'Sono figure di grande complessità che richiederebbero un discorso a sé stante. Qui, mi limito agli animali più tradizionali: il buie e l'asino, forme istintuali che offrono sostegno e alimentano la nascita e la rinascita della coscienza. In termini pratici raffigurano aspetti istintuali che sorreggono la trasformazione dell'individuo'. Animali molto particolari e immancabili sulla scena del presepe sono poi le pecore: 'Per usare le parole di Marie-Louise von Franz, simboleggiano l'uomo gregge- evidenzia l'esperto- raffigurano l'uomo collettivo chiamato a diventare uomo più soggettivo, individuativo'. Il 'Benino addormentato', lo ritroviamo, così, davanti la capanna ad offrire la pecora. E' un'immagine molto interessante del sacrificio della dimensione collettiva alla nascente dimensione più soggettiva. In ogni riformulazione individuativa ciascuno di noi è chiamato a superare gli aspetti più collettivi, e anche collettivamente acritici e massificati, in nome di una luminescenza e di una coscienza più originale e personalizzata'.
- Ci sono dei numeri che ritornano nei presepi? 'Nel presepe napoletano le pecore sono rigorosamente 12 come i mesi dell'anno, come le 12 notti rigide che intercorrono tra Natale e l'Epifania- aggiunge-. Sono le 12 notti condensate nell'archetipo degli inizi, dove rappresentare e anticipare la totalità. Come nel primo sogno portato in analisi è condensata la complessità dell'individuo e dei suoi problemi, così nelle 12 notti rigide natalizie è condensata tutta la processualità di quello che avverrà nell'anno successivo'. Poi c'è il numero 3, che è un principio dinamico, espressione della libido e della vitalità psichica; personificato dai re magi assume caratteristiche maschili. Tuttavia, secondo una tradizione minore e non molto celebrata, i tre re sono completati da una re magia, una figura molto significativa laddove compare'. La re magia era l'innamorata di uno dei re magi, travestita da servo per seguirli. 'Sarà integrata nel corteo maguseo dopo aver salvato i re magi da uno dei tanti attentati delle forze ostili che si oppongono all'evoluzione'.
- Cosa possiamo dire sulla Madonna e San Giuseppe? 'Da un punto di vista superficiale, la Madonna e San Giuseppe rappresentano il principio maschile e femminile da sempre presente nella vita psichica e a supporto della dinamica psichica. Da un punto di vista più specifico, potremmo aggiungere che la Madonna appare in una veste molto particolare di 'Virgo Paritura', vergine che partorisce, riproponendo un tema simbolico universale e trasversale, dalle culture orientali a quelle sudamericane. Un'immagine che Jung ha letto come la psiche che feconda e partorisce se stessa. Virginale- sottolinea Widmann- proprio nel senso che è l'inconscio stesso, tra mille contraddizioni e mille contrapposizioni, a far emergere la coscienza da se medesimo. Il parto della coscienza, da questo punto di vista, è davvero verginale: la psiche inconscia fa tutto da sola'. Giuseppe è tipicamente riprodotto con un bastone in mano o una lucerna; 'è un personaggio discosto, ma non meno importante: non fa nascere la luce, ma farà da guida a questa nuova identità'.
- Qual è il suo pastore preferito? 'Cambia tutti gli anni- ammette lo psicoterapeuta- attualmente è il pastore inginocchiato che mette legna sul fuoco. È' presente in molti presepi ma è tipico di quelli tirolesi. È un montanaro, una figura di senex intento ad attizzare il fuoco, di cui è anche il custode. Un fuoco inteso come forma di luce, vitalità e vivacità che viene appunto custodita nella notte, essendo la notte, di nuovo, il grande regno dell'inconscietà. Trovo confortante dal punto di vista psicologico, e bello da un punto di vista estetico, che nell'inconscio ci sia una figura che si occupi di costudire il fuoco, quale potenzialità di luce, di coscienza e vitalità'. - Qual è il suo augurio per il 2016, in particolare pensando ai giovani? 'L'augurio maggiore e migliore potrebbe essere un augurio di inizio. Che sia l'inizio di una nuova vita da adulti, di una nuova vita affettiva, lavorativa, abitativa legata all'indipendenza economica e personale; che sia l'inizio di un nuovo assetto individuativo. Darei grandissima importanza a questa celebrazione dell'impulso archetipico a iniziare, a innovare, a rinnovare se stessi. Mi piacerebbe che la miopia pseudo-razionalistica- ribadisce lo studioso- non uccidesse le esperienze simboliche. Vorrei ricordare a tutti noi che la differenza tra l'Uomo di Neanderthal, destinato all'estinzione, e l'Homo Sapiens, di cui noi siamo i continuatori è proprio nella capacità di pensiero simbolico. Le persone che sono incapaci di pensiero simbolico automaticamente regrediscono a livello Pre-Sapiens, al livello dell'Uomo di Neanderthal'.
- Qual è il colore che meglio simboleggia tutto ciò? 'Il colore natalizio più tradizionale è il rosso- conclude Widmann- che contiene buona parte delle cose dette: Dynamis, energia, attivazione; ha relazione con il fuoco e, attraverso di esso, con la luce. Il rosso è il grande guizzo energetico degli inizi'.
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