19 dicembre 2016

VOCI FEMMINILI CONTRO IL FEMMINISMO



   Riprendo da  http://www.leparoleelecose.it/?p=25474 questo interessante documento:

 Non sono mai stata femminista: ho sempre guardato al femminismo come a una ideologia ormai desueta, distante dalla realtà nella quale vivevo. Nell’ultimo anno qualcosa è cambiato: continuo a non ritenermi femminista, ma noto sempre più spesso che la mia vita e quella delle mie coetanee è condizionata dal genere al quale apparteniamo molto più profondamente di quanto credessi. Quasi sempre questo si traduce in uno svantaggio. A partire da esperienze personali e da storie capitate ad amiche o conoscenti, nonché grazie a successive letture, il mio modo di pensare alla femminilità e ai rapporti tra i sessi è iniziato a cambiare.
Il modo migliore per riflettere sulle cose, per quanto mi riguarda, consiste nello scriverne, e nel parlarne con un’altra persona; per questo ho cercato qualcuno disposto a dialogare con me in forma scritta. Ho scelto Marzia D’Amico, perché ha idee radicalmente opposte alle mie su donne, gender e femminismo; ma anche perché le nostre biografie, pur così diverse, in questo momento hanno alcune caratteristiche simili (siamo quasi coetanee; entrambe ragazze bianche, occidentali e con un livello di educazione alto; entrambe verso la fine di un dottorato di ricerca; entrambe in città diverse da quelle in cui abbiamo studiato – Marzia a Oxford, io a Trento): mi è sembrato che questo rendesse più facile parlare di problemi comuni. Infine, ho scelto Marzia perché c’è stima reciproca.
Non so di quante parti si comporrà il nostro dialogo, ma so che non è ancora terminato. La conversazione che pubblico oggi trae spunto da due eventi di cronaca e da una riflessione su come sono stati trattati sui social network e sui giornali online: la dichiarazione di Marina Abramovic riguardo all’aborto, il suicidio di Tiziana Cantone. Queste sono, per noi, occasioni per parlare di temi più generali (cc)

Perché (non) sono femminista


di Claudia CroccoMarzia D’Amico

CC: Quando ho letto il tuo articolo, mi sono sentita in disaccordo con ciò che avevi scritto, e mi è venuto in mente che potevi essere la persona adatta per una riflessione in forma di dialogo.
Voglio iniziare con una confessione: penso che il femminismo, come ideologia, oggi sia un fenomeno regressivo. Lo trovo spesso castrante, per motivi che farò emergere in questa conversazione – e che cercherò di mettere di discussione. Partirò da un esempio sul femminismo come prospettiva critica nello studio della letteratura, ma parlerò anche delle conseguenze che ha nella vita privata. Ragionamenti generali, racconto personale e vicende capitate a terze persone si intrecceranno.

Una letteratura giusta
CC: Non sono femminista, perché penso che il femminismo abbia alimentato una idea di politicamente corretto che ormai invade qualsiasi discorso culturale, rendendo talvolta impossibile esprimere le proprie opinioni in modo libero.
Approfondisco questo punto, facendoti un esempio concreto che riguarda la letteratura e l’università. Più di ogni cosa, il femminismo mi innervosisce quando diventa una lente che serve a filtrare il mondo e una categoria estetica. Per questo ho poca simpatia per i gender studies: capisco i motivi che ne giustificano l’esistenza; tuttavia non riesco a condividere il fatto che, negli studi che assumono queste prospettive critiche, il testo o l’oggetto artistico diventi importante soltanto per il significato politico che assume. Mi sembra, in altre parole, che il femminismo applicato alla letteratura determini un filtro sia sulla realtà sia sulle opere d’arte, e che questo filtro indebolisca la conoscenza.
So benissimo che qualsiasi prospettiva critica – e qualsiasi formazione intellettuale – determina una parzialità della visione. Eppure, leggendo articoli che analizzano opere letterarie da una prospettiva “di gender”, l’impressione che quelle interpretazioni comportino una perdita estetica e conoscitiva è più forte di quella che ho leggendo testi critici di altro tipo.
MD: Quando sento dire a qualcuno “Non sono femminista” mi spavento sempre un pochino, perché se quella persona non ha avuto desiderio abbastanza forte di scoprire di più e rendersi conto di quanto bella e importante sia la parola femminismo, altresì il femminismo non ha saputo raggiungere queste persone. Il femminismo però non è un’entità metafisica, non è un dio, non è monolitico soprattutto: il femminismo retrogrado e castrante che mi racconti non è certo il mio. Un femminismo inclusivo, intersezionale, aperto è quello che mi rappresenta davvero; quello al quale mi affilio e per il quale combatto ogni giorno. Ogni giorno questo femminismo mi richiede uno sforzo maggiore, e ogni giorno io scelgo di farlo, per una società che rinneghi il fascismo, il sessismo, l’omofobia, il razzismo, il classismo, e l’abilisimo in ogni sua forma strutturale (e oramai tristemente strutturata).
Gli studi che derivano da questa pratica costante sono anch’essi volti all’inclusività.
Tu citi il ‘femminismo applicato alla letteratura’ come sinonimo dei gender studies e questo già crea confusione, cosa nel particolare ti pare obsoleto? e quale critica letteraria non ti confa? in che maniera questa la percepisci legata agli studi di genere?
CC: Faccio un altro esempio, altrimenti il discorso rimane troppo astratto. Fino a oggi, io ho studiato soprattutto poesia contemporanea. Ora, la poesia italiana del Ventesimo secolo è stata scritta in prevalenza da uomini; alcuni di loro avevano un’idea delle donne che oggi considereremmo maschilista e retrograda, perché il femminismo ha cambiato il nostro senso comune di “politicamente corretto”. Fino a che punto, mi chiedo, il cambiamento della morale può condizionare la storia della letteratura? Nella poesia di inizio Novecento le donne sono quasi sempre prostitute o chimere: dovremmo considerare le opere di Sbarbaro e Campana (per citare i primi due che mi vengono in mente) meno interessanti per questo motivo?
Guardo con preoccupazione, inoltre, alla prospettiva di dedicare la mia ricerca alla poesia scritta da donne, soltanto perché ciò contribuirebbe a rimediare alla quasi totale assenza di voci femminili nelle storie letterarie. So che la mancanza di accesso all’istruzione e la segregazione in ruoli casalinghi e in lavori subalterni ha penalizzato le donne; ciò spiega il numero più basso di scrittrici rispetto a quello degli scrittori che riempiono saggi e manuali di letteratura (e di storia dell’arte). Siamo tutti d’accordo su questo. Alcune artiste, inoltre, sono state sottovalutate per pregiudizi, espliciti o inconfessati. Per questi motivi è necessario riscattarne il lavoro sommerso, farlo entrare nel dibattito, render loro giustizia. Ben venga. Non credo sia intelligente, però, riscrivere completamente la storia della letteratura (o della musica, dell’arte figurativa ecc.) gonfiando lo spessore intellettuale e i risultati artistici delle figure femminili, e ridimensionando quelli maschili, solo per raggiungere questo scopo.
Rileggendo quello che ho scritto, mi rendo conto di una possibile obiezione: questa ultima fase potrebbe essere vista come preparatoria e necessaria, in modo temporaneo, per arrivare alla prima. Non sono convinta sia davvero utile, ma riesco a capirlo. Se è così, forse è già andata avanti troppo a lungo, e il risultato (più che una rilettura intelligente del passato) è una pericolosa lettura pregiudiziale del presente. Ho visto (ovvero letto) e sentito sminuire romanzi bellissimi, in quanto accusati di nascondere una prospettiva maschilista: ecco, interpretazioni di questo tipo per me rappresentano una perdita e una sconfitta intellettuale.
MD: Chi ha problemi con il politicamente corretto è chi non è svantaggiato dal politicamente scorretto (o comunque non percepisce tale cosa). La libertà d’opinione entro il rispetto di ogni elemento della società è l’unica libertà che mi interessa difendere. Ritenere che un dibattito intellettuale si affievolisca per la presa in considerazione di elementi intersezionali (ovvero attraverso la messa in relazione di tutti quegli elementi costituenti un’identità, personale o comunitaria, nel rispetto della stessa) per me equivale a non voler minare la voce grossa di chi ha sempre dettato legge, e non per merito. A me pare che il politicamente corretto abbia doverosamente ridimensionato (e anzi, magari fossimo già a quel punto) il peso delle voci dei ‘vincitori’. Con vincitori intendo che la storia la scrive non chi ha ragione ma il più forte. Come può un dibattito intellettuale indebolirsi se finalmente diventa invece più omnicomprensivo?
Ritengo importante quindi praticare forme di posizionamento nello studio della letteratura: gender studies, women studies, queer studies, post-colonial studies…, e certamente sto lasciando fuori alcune voci e posizioni altrettanto rilevanti che assieme mettono in luce un’opera nella sua vera interezza.
Quanto dici sul senso comune odierno e il “politicamente corretto” però rischia di diventare pericoloso: quei testi possedevano già un atteggiamento maschilista, e il femminismo ha il solo merito di averne problematizzato gli aspetti rivelandone la nocività. Non mancano storicamente ribellioni letterarie a queste imposizioni (penso anche solo ai diari delle Sante!) che ci indicano che la rappresentazione del femminile e la condizione del femminile stesso (qui nella sua accezione più biologica e non inclusiva) creavano insofferenza nelle donne. Come risaputo, però, lungamente autori, lettori, editori e “Maestri” del canone occidentale sono stati uomini. Il mondo è fatto da loro e per loro. Io penso che una letteratura bella sia una letteratura giusta, e che questa si ottenga rendendo giustizia alle voci marginalizzate. Se Sbarbaro e Campana oggi vengono ridimensionati sulla base delle possibilità di lettura di testi fino ad oggi non antologizzati per motivi prettamente legati alla struttura patriarcale e non squisitamente letterari, ben venga. D’altro canto, se gli odierni Sbarbaro e Campana temono l’incombenza delle voci femminili finalmente (almeno in parte) rappresentate è perché riconoscono che il loro successo è una combinazione di talento, magari, ma anche tanto privilegio.
Ha riletto il pensiero di Adriana Cavarero e l’ha applicato giudiziosamente alla condizione della letteratura (italiana) oggi la mia amica e collega Alberica Bazzoni:
Eppure, gli scrittori continuano ad essere sproporzionatamente rappresentati, mentre le scrittrici faticano ad entrare, e ancor più a rimanere, nel canone della letteratura italiana. E questo è il primo fatto che occorre stabilire, che a dispetto degli ottimismi di fine Novecento, le scrittrici rimangono ancora ai margini del canone letterario. Le ragioni sono molteplici. In larga parte gli uomini non leggono le scrittrici, e quindi non le recensiscono, antologizzano, inseriscono nei corsi universitari e nei manuali delle superiori. Anche quando vi si accostano, spesso lo fanno con un pregiudizio. Mentre la letteratura maschile è percepita come universale, quella femminile continua a venire rappresentata e sentita come, appunto, femminile, cioè rivolta alle donne, cioè parziale. E – il punto è fondamentale – la presunta parzialità femminile è considerata assiologicamente inferiore rispetto a quella che si crede l’universalità maschile. A ciò si aggiunge il credito con cui partono gli scrittori, i quali sono percepiti come appartenenti di diritto all’arena letteraria, mentre le scrittrici si trovano ancora a dimostrare, quasi vincendo un’aspettativa contraria, di meritarsi il diritto di parola.
Questo passaggio di un articolo-indagine che Alberica sta portando avanti e pubblicando online è il ponte perfetto per risponderti sulla necessità di concentrarsi sulla scrittura di donne, e non per “gonfiarne lo spessore”: non ce n’è alcun bisogno, tanti sono i nomi di grandi letterate, artiste in generale, che avrebbero meritato di restare nella storia in maniera determinante e come modello per le successive generazioni.
Io ho scelto di occuparmi di poesia scritta da donne (e non femminile, come felicemente ci ha insegnato in poesia, saggistica e militanza Biancamaria Frabotta) per curiosità: avevo domande nei confronti del canone, e l’Accademia non mi offriva risposte. Mi sarei accontentata anche solo di ulteriori interrogativi, sono mancati anche quelli. Concentrare i propri studi sulle scritture di donne, o dedicare a queste scritture parte dei propri studi, non è una maniera di allontanarsi dal mondo reale ma di mettere in discussione il sistema. Solo affrontandolo di petto, e attraverso la riscoperta delle scritture di donne (in diverse forme, grazie anche agli stimoli offerti da Marina Caffiero durante i miei anni di studi Magistrale a La Sapienza), ho davvero affinato lo sguardo al contesto entro il quale l’arte viene prodotta, e per chi. È un’esperienza di svelamento continua che raccomanderei a chiunque.
CC: Su questo abbiamo opinioni diverse.
Penso che la prospettiva critica che ho descritto colpisca con più facilità un genere letterario che ha sempre meno rilevanza ed è sempre più autoreferenziale. La poesia ha bisogno di una giustificazione. Il tuo studio ha una motivazione interna di tipo politico. Ammettiamo per un attimo che ciò lo renda moralmente più accettabile del mio. Una prospettiva critica femminista ci costringerebbe a rinunciare ai Canti Orfici, magari a vantaggio delle opere di Sibilla Aleramo. Aleramo è una facile icona, dal punto di vista che hai descritto. Bene, io le sue opere le ho lette, così come ho letto quelle di Campana. Sono convinta che, se ancora oggi si studiano e si leggono le seconde, più che le prime, non accade perché viviamo in una società letteraria maschilista, ma perché i Canti Orfici sono più belli e più importanti di Una donna. Più importanti per chi? Per la tradizione letteraria italiana successiva, per l’idea di poesia che vogliamo – che io vorrei – ancora trasmettere. Vorrei poter sviluppare le mie ricerche nel modo che credo opportuno, dopo anni di studi, e che in parte deriva da questa considerazione, senza il timore di vederle svantaggiate, in quanto non aderenti a una vulgata critica che ritiene più innovativo uno studio in cui si parla di emancipazione femminile rispetto a un altro nel quale il tema è assente.
MD: Non lascerei mai indietro i Canti Orfici per me stessa e per quello che studio (Amelia Rosselli si infurierebbe!), però ritengo che i testi canonizzati prodotti da autori maschili debbano essere valutati secondo anche quelle specifiche possibilità di produzione che hanno aiutato a renderli immortali. La tradizione italiana successiva, per tirare di nuovo in mezzo Rosselli, guarda inevitabilmente a “santi padri”: non sta certo nell’eliminazione dei padri dalla storia la risposta, bensì nella ricerca e riscoperta delle madri, piuttosto; altresì, la problematizzazione di una tradizione letteraria e culturale dominata da (soli) padri mi pare doverosa. Non credo che questa ricerca attraverso una lente gender oriented svantaggi in alcun modo chi non la adotti, o limiti in alcun modo la tua scelta di non perseguirla. La produzione femminile e lo studio della stessa però hanno subito nel contesto accademico una forte marginalizzazione, e non posso che felicitarmi del fatto che – almeno in parte – queste trovino finalmente un ricco spazio di dibattito.
Si è sempre praticata una scelta critica nell’approccio al testo letterario, cosa rende meno valide queste indagini? Provo a fare un esempio molto pop di vita vissuta. Lo chiamavano Jeeg Robot, uscito nel 2016, ha tanti pregi e tanti difetti. Una mia conoscenza si è risentita di un certo classismo non problematizzato nel film, elemento che io non avevo notato con abbastanza accortezza. Dal canto mio però avevo certo notato una violenza sessuale maschio/donna che si risolve senza spessore o discussione. Non l’ho fatto per mia innata sensibilità ma perché ho allenato l’occhio a rifiutare di lasciar passare messaggi simili: una produzione del 2016 non può permettersi di non problematizzare un evento simile, e solo lasciarlo accadere.
Posso adottare quella stessa lente per leggere Montale? Sì. Questo toglie bellezza alla sua poesia, toglie alla stessa l’importanza che gli è stata riconosciuta dalla critica e dalle antologie? No. Ma riposiziona entro una dimensione di definita connotazione degli aspetti della sua poesia che, prima, erano rimasti taciuti. Non voglio sostenere qui che una “un sistema culturale che produce ingiustizia non è incapace di produrre bellezza” (semicito ancora Alberica Bazzoni) o il suo contrario, ma porre attenzione all’elemento (o gli elementi) di privilegio che l’opera rappresenta, e non perpetuarne i tratti entro un nuovo (migliore) sistema di pensiero, di cultura. Perché dovremmo consegnare alle future generazioni opere da esperirsi a-criticamente secondo prospettive di genere, razziali, di classe, e via così? O più precisamente, chi e/o cosa ti fa credere che riconoscere questi elementi di privilegio ne annulli interamente il valore?
CC: Ne annulla il valore se lo si presenta come qualcosa di moralmente sbagliato. Hai ragione quando dici che è necessario collocare gli autori nel loro contesto storico, per comprendere anche il contenuto “sessista” delle loro opere. Però, appunto, tu applichi a quei testi un giudizio morale e categorie contemporanee: «quei testi possedevano già un atteggiamento maschilista, e il femminismo ha il solo merito di averne problematizzato gli aspetti rivelandone la nocività». Ora, faccio un altro esempio, ancora tratto dalla poesia del primo Novecento, per comodità (è quello che sto studiando in questo periodo), e cerco di spiegare meglio le mie due obiezioni al riguardo.
[…] tutte le donne di Leonardo hanno quell’espressione ineffabile. È un sorriso, e buono, ma fine; così fine che a volte rasenta la malizia, ma contemporaneamente la divinità. Sono donne beate e beatificanti, timide e vergini: madonne, pregano, sono estatiche verso l’interno; ma sono anche capaci di condurti all’inferno. Non ho mai visto rappresentare così stupendamente la doppia verità femminile. Guarda questa com’è spirituale in quel raccoglimento semichiuso d’occhi, e pure quelle palpebre hanno una sensualità da baciare. E la Gioconda, è evidente che non può esser altro che la beatitudine di una donna che sente battere in grembo la vita del figliolo: ma in quell’attimo essa è tutta la scala da Dio alla terra.
Questo appunto è tratto dall’epistolario di Scipio Slataper: è una lettera che invia a Edith Oblath, una delle destinatarie e coprotagoniste di quella sorta di romanzo incompiuto che è Alle tre amiche. Mi ha colpita, quando lo ho letto, perché immagini simili si trovano anche negli appunti di Campana. Non solo: le figure femminili di Leonardo vengono richiamate all’interno di La notte, una delle poesie in prosa campaniane più famose e più difficili da interpretare. Non entrerò nell’esegesi del testo, ma la figura femminile ispirata da Leonardo, nei Canti Orfici, si interseca con altre immagini di violenza sulle donne. L’idolo femminile deturpato dal protagonista maschile (in una forma di femminicidio, se vuoi) ha anche almeno un’altra fonte in comune con la cultura di riferimento di Slataper: il Faust di Goethe, dal quale Campana estrapola un’immagine (quella di Gretchen-Margherita con una striscia rossa sul collo) che assume un significato diverso, e più violento, nella Notte.
Ora, la mia domanda è questa: tutto ciò rende i Canti Orfici un’opera nociva? Come comportarsi, davanti a un contenuto che oggi considereremmo, in base a categorie morali, ingiusto? Secondo me qui entrano in gioco due problemi distinti (e qui si innestano, appunto, le mie due obiezioni).
Il primo è come giudicare le opere del passato, e quanto permettere che le categorie contemporanee facciano da filtro al giudizio critico. Certo, possiamo ricostruire il contesto storico e culturale che ha determinato la visione del mondo di un autore. In questo caso, sappiamo che Campana legge gli scritti di Freud sulla sessualità in Leonardo, ma in realtà li legge intorno al 1915, stando al suo epistolario, dunque in un momento successivo ai Canti Orfici; sappiamo, comunque, che prima aveva letto(come anche Slataper) Sesso e carattere di Otto Weininger e vari frammenti di Nietzsche, fra i quali quelli riguardanti le donne. Il dibattito critico dei primi anni Dieci ruota intorno a queste coordinate, come ci rivela lo studio delle riviste dell’epoca: è alimentato da una diffusione di Nietzsche ancora sommaria e superficiale (non a caso quella di Slataper è più approfondita, giacché, essendo triestino, era più addentro alla cultura letteraria e filosofica tedesca), nonché dai primi studi sulla questione sessuale; queste prime ricerche, avventate e imprecise agli occhi di un contemporaneo, erano soprattutto tedesche, giungevano in Italia in ritardo e con traduzioni a volte discutibili. Tutto ciò ci permette di ricostruire le fonti delle idee sulle donne di Campana, di spiegarle meglio; in questo senso è utile che il riferimento all’immaginario femminile di Leonardo sia presente anche nelle lettere di Slataper (e in termini simili a quelli di Campana), perché conferma un clima culturale, nel quale alcune idee (che oggi considereremmo inesatte) erano comuni. Non solo: la critica psicoanalitica ha interpretato la misoginia campaniana, riconducendola a questioni psicologiche irrisolte dell’autore.
Entrambe le prospettive, insomma (critica delle fonti e critica psicanalitica), ci permettono di spiegare meglio i Canti Orfici: ma non, a mio parere, di capirlo del tutto. L’idea di poesia di Campana è legata a queste immagini di chimere e prostitute, e va accettata in quanto tale: decostruirla può essere utile, ma non permette di coglierne del tutto il contenuto di verità.
Infine, veniamo alla seconda obiezione. Sarò molto breve: non credo che categorie morali possano far parte del giudizio letterario. Se così fosse, dovremmo eliminare dalla storia non solo Lo chiamavano Jeeg Robot e i Canti Orfici, ma anche, per dire, Viaggio al termine della notte; per altre ragioni dovremmo eliminare la Commedia, per il modo in cui Dante tratta Maometto. Ma su questo il dibattito sarebbe lungo, da affrontare, e senz’altro esulerebbe dalla questione del femminismo. Concludo dicendo che il moralismo non ha mai fatto bene alla letteratura e alla cultura in generale.
«I bravi artisti che hanno figli ci sono e si chiamano uomini». Su Marina Abramovic.
CC: Venendo a Marina Abramovic, ho soprattutto una obiezione da fare. «Ho avuto tre aborti. Un figlio sarebbe stato un disastro per la mia carriera»: attraverso questa dichiarazione, Abramovic ha caricato una scelta personale di senso politico, come in parte è inevitabile quando si tratta della vita privata di icone artistiche o intellettuali, che rilasciano dichiarazioni sui motivi politici delle proprie azioni; a quel punto è stata ridotta ai soliti slogan femministi riguardanti maternità, femminilità, emancipazione e corpo della donna (che tu stessa citi e, in parte, critichi).
Nel tuo articolo difendi il diritto della donna a gestire il proprio corpo come meglio crede. Da un lato, si tratta di un diritto sacrosanto e da difendere sempre, ci mancherebbe. Tuttavia è anche uno slogan potenzialmente pericoloso. E qui veniamo a un altro punto per me importante: non sono femminista, perché penso che il femminismo abbia talvolta colpevolizzato oltremisura alcune forme della sessualità maschile. Le conseguenze di quella ce è stata una forma di inibizione ricadono sulle donne stesse, o almeno su alcune di loro. Inoltre, una declinazione del femminismo (e del discorso su Abramovic) di questo tipo produce una bipartizione tra donne madri e donne in carriera. Trovo questa separazione fallace, in quanto i due gruppi, in realtà, sono più fluidi (e dovrebbero essere presentati come tali). Il sottotesto implicito mi pare addirittura inquietante: se una donna ha ambizioni artistiche o intellettuali deve per forza rinunciare ad avere una famiglia? L’irregolarità amorosa e la mancanza di vincoli accompagnano necessariamente la vita intellettuale? Sembra una domanda retorica, ma non lo è: penso che una possibile risposta sia “sì, e vale anche per gli uomini”. Con una differenza importante: nel mondo maschile è più frequente riuscire a conciliare autonomia e riconoscimento di sé in una relazione sentimentale[1]. Da questo punto di vista, nella società della quale sia tu sia io facciamo parte rimane un problema irrisolto, una contraddizione nel mercato matrimoniale e in quello sessuale. Penso che sia inutile negarlo.
MD: Abbiamo cominciato a parlare di questioni di genere a partire dall’uso improprio della lingua che è stato adoperato per giudicare la scelta di non avere figli di Marina Abramovic: come vedi, la questione di genere e la lotta politica non sono mai disgiunte dalla lingua adottata per contrastare questa emancipazione. Personalmente, ritengo sia ancora una volta la cecità del contesto e il bigottismo dei benpensanti (“sindrome di Erode”? Inconcepibile e intollerabile definizione.) ad avere la meglio sulle necessarie coordinate storico-culturali a sostegno della tesi di Abramovic. Quella di Abramovic è una scelta personale ma anche fortemente politica, penso alla poesia di Angélica Liddell (Lesiones incompatibles con la vida) che ho volutamente citato sui social in quei giorni quasi come un manifesto. L’arte di Abramovic è sempre stata fortemente politica e politicizzata, e la decisione di non avere figli in favore di dedicarsi completamente all’arte non può che essere letta similmente. Non credo che sia stata caricata oltre la misura stessa entro la quale la stessa Abramovic ha sempre agito la propria arte.
Non so se Abramovic abbia ragione nel dire che l’energia del corpo si disperda quando si hanno figli, ho molte amiche artiste, attiviste, che producono arte col il proprio corpo e fanno del proprio corpo arte\mezzo artistico, e figli ne hanno avuti: ciò detto, è innegabile che una donna più difficilmente raggiunge le vette di notorietà degli uomini, e che la battaglia per essere riconosciute si fa più difficile in una società che vuole le madri come genitore di riferimento educativo e sociale a costo della propria realizzazione. Avere figli è evidentemente una posizione scomoda nel mondo del lavoro, e l’arte è lavoro anch’essa: basti pensare agli innumerevoli esempi di sessismo perpetuati ai danni delle donne nei colloqui di lavoro che pregiudicano l’assunzione sulla base di eventuali possibili gravidanze. Purtroppo però è questa la società entro la quale viviamo. Per questo abbiamo ancora e sempre bisogno della parola femminismo, della rivolta consapevole. Dobbiamo affrancarci dal binomio madre\donna in carriera come da quello angelo del focolare\puttana di stampo fascista. D’altro canto, parliamo di un’artista di provenienza e generazione diversa dalla mia e da quelle delle amiche alle quali facevo prima riferimento. Non posso quindi offrirti io una risposta, però l’ha fatto Tracey Emin (come ho citato nel mio commento alla vicenda che hai letto) dichiarando che «i bravi artisti che hanno figli ci sono e si chiamano uomini». Ascoltare Emin e/o Abramovic non vuole dire trovarsi d’accordo con la loro scelta, bensì accorgersi che è entro una struttura che vuole preservare questo sistema che tristemente viviamo. Dobbiamo dunque semplicemente rimetterci a questa? No, a mio avviso dobbiamo armarci di consapevolezza e cambiare le cose alla base. E poi tenere conto che i casi di felice bilanciamento di famiglia e carriera per le donne sono sostenuti, di solito, anche da altri tipi di privilegi e intaccare anche quelli.
Relazioni interpersonali
 CC: Su questo ritorneremo: vorrei spiegare meglio ciò che penso riguardo all’influenza del femminismo sui rapporti sentimentali ed erotici. Lascio queste considerazioni frammentarie come appunti per il nostro dialogo. E ora voglio raccontarti una vicenda personale.
Qualche tempo fa mi è capitato di confrontarmi con un coetaneo, anche lui alla fine del dottorato (che ha scelto di fare fuori dall’Italia). Mi ha parlato di una vita sentimentale e sessuale caotica, ma tutto sommato per lui soddisfacente, fino a quel momento. Mi ha detto di iniziare ad avvertire il bisogno di una maggiore stabilità, almeno sentimentale (perché quella lavorativa non lo è, ovviamente, per nessuno di noi). Solo che poi – mi dice – vedo che le mie colleghe a trent’anni o poco più impazziscono perché vogliono fare un figlio. E quando lo fanno si fermano lì, la loro carriera si interrompe quasi sempre, e allora penso che io ho ancora dieci o vent’anni per farmela, una famiglia. Dunque aspetto, e sfrutto questo vantaggio.
Dopo che mi ha parlato così schiettamente, sono rimasta in silenzio per una manciata di secondi. Ammetto di aver provato rabbia nei suoi confronti. Poi ci ho pensato, e gli ho detto solo che capivo, aveva ragione. Penso che questa sia un’altra contraddizione irrisolta e forse irrisolvibile. (La stessa persona mi ha detto, poco dopo, di avere difficoltà a mantenere viva l’attrazione per donne che gli sembrano più intelligenti di lui).
MD: L’esperienza di dialogo che hai riportato mi addolora profondamente, perché è particolarmente diffusa e dannosa a tanti livelli. La scelta di trovare stabilità amorosa nell’assenza della stessa sul piano lavorativo, lo dice bene il tuo stesso amico, può avvenire per lui solo a discapito della partner donna. Intanto, dire che una donna ‘impazzisce’ perché vuole un figlio è orribile a mio avviso (intendo proprio linguisticamente): chiudiamola nell’attico? Se le donne intorno ai trent’anni sentono questa forte pressione sociale è a causa di campagne come quella recente del Fertility Day (non so neanche da dove cominciare per dirmi disgustata da quella campagna così offensiva, che è però semplicemente l’espressione evidente e la dimostrazione a spese statali di un sentimento diffuso). Bravo, il tuo amico, a riconoscere questo vantaggio. Meno ad approfittarne. Lo capisco ma non lo accetto; anzi lo capisco e non lo accetto. Sceglie di stare dalla parte di chi vuole un mondo iniquo, sceglie di sentirsi qualcuno non per merito ma a discapito di altri. Non mi sorprende che questa stessa persona abbia “difficoltà a mantenere viva l’attrazione per donne che gli sembrano più intelligenti di lui”. Probabilmente non gli sembrano più intelligenti ma lo sono, spero che quelle stesse donne se ne accorgano per tempo e si allontanino da lui in fretta.
Lavoro
CC: Torniamo a parlare di lavoro. Parliamone, anzi.
Recentemente mi sono resa conto di aver sottovalutato il problema. Lo ammetto, mi sbagliavo. Per lungo tempo ho sostenuto che in un paese occidentale non avesse senso parlare di questione femminile, perché in realtà le discriminazioni di genere esistono ormai solo in paesi non democratici (in Africa, in alcune parti dell’Asia, ecc.). Bene, mi sbagliavo. Per una donna italiana non c’è il rischio di essere sottoposta all’infibulazione (né esiste seriamente il femminicidio); ma le cose che ho visto o sentito, ciò che è capitato a me e ciò che ho visto accadere ad amiche e conoscenti nell’ultimo anno, mi rende impossibile negare che anche in Europa, e soprattutto in Italia, non esiste una parità fra i sessi nell’ambito più importante, dopo quello dei diritti umani, ossia quello lavorativo.
In questo momento, dunque, il mio giudizio su femminismo e disuguaglianze di genere è più sfaccettato rispetto al passato, dubbioso, non pacifico. E come negare l’esistenza delle seconde, quando entri in contatto diretto con richieste di dimissioni in bianco (per evitare di assumere lavoratrici in gravidanza), giovani studiose trattate automaticamente come segretarie (anche, e soprattutto, dai propri coetanei), donne accusate di essere andate a letto con qualcuno perché hanno avuto uno scatto di carriera (non importa che abbiano anche un curriculum impeccabile), ecc.?
Se esiste una forma di femminismo che riguarda tutti, è questa. Sarei d’accordo con riforme lavorative radicali, tali da assicurare che più nessuna donna debba incontrare discriminazioni come quelle che ho descritto. Lascerei il resto, le scelte morali e quelle di costume sessuale, e metterei da parte anche la critica letteraria femminista.
MD: Tornando a parlare di lavoro, mi dispiace che tu ti sia resa conto di questa disparità di genere a tue spese. Purtroppo spesso solo quando ci tocca sul personale apriamo gli occhi. Una volta fatto però, che restino ben aperti. Non volendo entrare nel merito della divisione in paesi democratici e non, sento di doverti smentire quando dici che il femminicidio, in Italia, non esiste; anzi, lo faccio con vigore. Negare oggi il femminicidio in Italia alimenta un disinteresse generale per il cambiamento, e nasconde sotto il tappeto problemi che dovremmo fronteggiare alla radice. Sono felice di saperti pronta a combattere per una parità di diritti entro il campo lavorativo, però è crudele ridurre la battaglia al proprio diretto interesse e utilità: quella è una presa di coscienza e una spinta a combattere per esigere di più sicuramente giusta, però molto limitata. Le scelte che definisci “morali e di costume sessuale” non mi sono chiare, se però provo a immaginare, credo che la radice delle stesse si trovi in quella stessa body policing. E anche io il moralismo lo lascio ad altre istituzioni, che tendenzialmente sono le stesse che limitano e confinano la produzione femminile, la sottovalutano, la marginalizzano: come ti dicevo, il femminismo che mi preoccupo di praticare è inclusivo, e non moralista. Problematizza sempre e non avanza per ideologie antiche.
Dici “non sono femminista, perché penso che il femminismo abbia prodotto forme di disorientamento e inibizione sessuale maschile, che sono anche il risultato del discorso al quale ti rifai.” A mio avviso il problema che discutiamo è a monte, nell’educazione all’eguaglianza nel privato e nel pubblico, e non nella risultante. Mi spiego meglio: la legittima affermazione dell’autocoscienza femminile ha prodotto inibizione sessuale nel soggetto maschile? Il problema non risiede nella liberazione della donna ma nell’ineducazione del soggetto maschile alla messa in discussione.
È sano educare il maschio a vivere nell’aspettativa di asservimento della partner? È sano educarlo a compiacersi del finire online con un video sessuale per la quale circolazione non aveva dato consenso? No, ed è evidentemente dannoso per ognuno di noi. Mi riferisco qui alla medaglia rovesciata degli eventi che hanno colpito T. C. in particolare negli ultimi mesi (*quando abbiamo cominciato a parlare, purtroppo, la notizia del suicidio di T.C. era in prima pagina). La liberazione femminile è liberazione umana, del genere umano nella sua interezza: non è uno slogan “il sessismo fa male a tutti”, è una verità. E il femminismo è la cura. Non immediata, non magica come un bacio sul ginocchio sbucciato: è una costante lotta di miglioramento del proprio e del sociale. Perché il sessismo viene praticato, tristemente, da tutti noi (a diversi livelli, certamente; e altrettanto vale per il razzismo, l’omofobia, il classismo, l’abilismo e altre derive di dislivello sociale che vengono perpetuate ogni giorno). Ne siamo sistematicamente tutti vittime in maniera così costante che sfuggirne è difficilissimo, se non impossibile. La decostruzione di questo sistema mentale è un processo (difficile, lungo) da compiersi insieme.

«People love humiliation». Su Tiziana Cantone.
CC: Passiamo alla vicenda di Cantone. Anche qui, diciamo che sono d’accordo con alcuni presupposti del tuo articolo: non è colpa del web, è colpa di persone con nomi e cognomi. D’accordo. Però mi sembra poco lungirmirante non tenere conto di dinamiche di massa, di meccanismi umani e non virtuali, certo, che però si sviluppano e si esasperano in modo particolare online, per i motivi che secondo me sono spiegati qui. Non tenerne conto è miope. Non tener conto di quello che i social network possono innescare vuol dire non prenderli sul serio, in fondo. E dico questo senza alcuna intenzione di demonizzarli né di attribuire a Facebook e Whatsapp la colpa di questo suicidio.
Andiamo avanti. Io sono sempre stata piuttosto scettica davanti al monito femminista di usare la lingua in modo politicamente corretto. Non sopporto i “car* tutt*”; mi fanno rabbrividire i discorsi che iniziano ricordando la differenza di significato fra “governante” in senso maschile e la stessa parola in senso femminile. Ultimamente ci ho riflettuto, e anche su questo ho un po’ cambiato opinione: riesco a vedere i motivi di queste polemiche e di queste lotte, per quanto non riesca a sentirli miei. E mi sta bene che tu parli di una questione “linguistica e strutturale” decisiva, lo capisco. Ma partiamo dalle basi, allora: in virtù di quella stessa questione linguistica e strutturale, in nome della parità fra i sessi, è sbagliato anche chiamare questa persona solo con il nome, e non con nome e cognome (o solo con il cognome) come si farebbe per un uomo. È una abitudine giornalistica che non mi piace, e che si trova più spesso per parlare delle donne (sono tutte “Tiziana”, “Valentina” ecc. per Repubblica, mentre i maschi vengono identificati con il cognome, che rende il discorso più serio). Talvolta, nei siti più militanti, questa abitudine è motivata con il principio (per me incomprensibile) della “sorellanza”.
Infine, quanto c’entra che si tratta di una donna e non di un uomo? Molto, certo. La parte dell’articolo che mi trova più d’accordo con te è quella in cui parli del tabù che ancora esiste riguardo alle donne e il sesso (una brava ragazza non solo non avrebbe fatto quel video, ma non avrebbe fatto neanche un pompino, ecc), e del revenge porn a danno delle donne. In parte, credo che la scissione fra femminilità e sesso sia una conseguenza del femminismo stesso, come accennavo; ma ne riparleremo.
Condivido anche il tuo giudizio sull’assurdità della reazione collettiva, che si divide tra indignazione per buoncostume e #Prayfor. Credo, però, che ci sia anche una terza modalità, la più politicamente corretta: mi riferisco alla difesa del web (“non è colpa del web”, ecc) unita alle considerazioni sul sessismo e sul patriarcato.
MD: Tornando alla dimensione più linguistica del nostro discorso: dici bene, nel chiamare le vittime di sesso femminile per solo nome sui giornali c’è del paternalismo che mi fa rabbrividire. Personalmente, è una pratica che raramente adotto anche nel privato se non nel trasparente tentativo di sottolineare sorellanza. La scelta di umanizzare infinitamente queste vittime attraverso l’uso del solo nome di battesimo si fa anche spia di un altro problema della società attuale: “mi dispiace perché la conoscevo”. C’è bisogno di relazionare a noi per comprendere la tragedia di certi eventi, come se non lo fossero oggettivamente. Penso a quell’immagine che è girata recentemente sui social, in lingua inglese: “She is someone(’s): sister \ daughter \ mother”. Le tre classificazioni relazionali venivano poi barrate in rosso per indicare che la violenza contro le donne è un problema oggettivo, e le donne vanno rispettate in quanto soggetti indipendenti (e indipendentemente dalle relazioni parentali).
E sì, è miope non considerare il livello di voyeurismo amplificato dai social media; altrettanto miope è però ignorare che statisticamente parlando le donne sono vittime costanti di revenge porn.
CC: Su questo hai ragione. Però proviamo a chiederci una cosa: la penseremmo allo stesso modo, se al centro di quel video ci fosse stato un uomo? Non intendo un omosessuale (il politicamente corretto popolo del web di cui fanno parte sia i miei sia, immagino, molti dei tuoi contatti si sarebbe indignato esattamente allo stesso modo): intendo un uomo etero, magari sposato, insegnante a scuola, insomma un individuo dal quale ci si aspetta una vita da “bravo padre di famiglia”, rispettabile. Immaginiamo che improvvisamente particolari privati della sua vita sessuale extraconiugale (con altre donne) vengano diffusi online e che lui si uccida, perché la moglie era consenziente ma adesso non regge più il colpo, le cose sono cambiate e la situazione gli è sfuggita di mano, dovunque si vedono magliette con il suo volto e i bambini non possono più andare a scuola senza essere insultati, lui non riesce più a lavorare e anzi viene licenziato. Non è un esempio del tutto inventato: se digiti su google “suicide” e “social network”, ad esempio, vengono fuori notizie come questa.
Mi viene in mente una puntata di Black Mirror, The National Anthem (la conosci?): nella finzione dell’episodio una componente della famiglia reale inglese viene rapita, e la richiesta di riscatto prevede che il primo ministro faccia sesso con una scrofa in diretta TV (che diventa diretta online). All’inizio si cercano strade alternative, alla fine la pressione politica e mediatica vince e Michael, cioè il primo ministro inglese, viene ripreso mentre si accoppia con un maiale leggermente sedato. Intanto ci vengono mostrati i volti di chi lo guarda in TV, e soprattutto ci vengono mostrate le reazioni della moglie, che controlla ossessivamente twitter. Lei non riuscirà a superare l’impatto emotivo causato dalla vicenda. Non sappiamo cosa farà, è improbabile che finisca per suicidarsi; però qualcosa si è rotto per sempre, le conseguenze sulla sua vita saranno definitive. C’è questo bellissimo dialogo tra i due coniugi:
Michael: I won’t have to do anything.
Jane: Everyone’s laughing at us.
Michael: You don’t know that.
Jane: I know people. We love humiliation. We can’t not love.
Michael: Nothing is going to happen.
Jane: It’s already happening in their heads. In their heads, that’s what you’re doing. What my husband is doing.
People love humiliation. Già. Aggiungerò una ultima osservazione, forse un po’ provocatoria. Buona parte del tuo articolo ruota intorno a una idea di base, che è quasi un appello: è un errore guardare quel video, non guardatelo. Mi chiedo e ti chiedo, seriamente: perché? È più sbagliato, più immorale rispetto a postare su facebook l’immagine del cadavere di un bambino morto in mare? Eppure, c’è qualcosa di ineliminabile per cui i nostri meccanismi morali si accorciano o si dilatano in modo apparentemente arbitrario: in alcuni casi la morte e la perversione ci sembrano meno pericolose, meno sottoposte a un filtro morale, tranquillamente riprendibili e osservabili (in televisione, su Facebook, su Snapchat, su Twitter). Non dico che sia giusto, anzi vi percepisco una componente disturbante (è qualcosa di simile a quello che provo quando vedo persone che scrivono post sulle bacheche di gente morta, creando una conversazione irreale e straniante); dico solo che forse il “Non guardate” non è la risposta giusta. Inoltre, e soprattutto, credo che la questione di gender non sia il nodo cruciale della morte di Cantone, e che assumerla come tale faccia perdere di vista ciò che davvero meriterebbe attenzione.
Rileggendo il tuo commento, mi è venuto in mente un articolo recente (scritto dopo la sconfitta di Clinton); si intitola The End of Identity Liberalism. Concludo citandone un paragrafo:
But how should this diversity shape our politics? The standard liberal answer for nearly a generation now has been that we should become aware of and “celebrate” our differences. Which is a splendid principle of moral pedagogy — but disastrous as a foundation for democratic politics in our ideological age. In recent years American liberalism has slipped into a kind of moral panic about racial, gender and sexual identity that has distorted liberalism’s message and prevented it from becoming a unifying force capable of governing.
[…] the fixation on diversity in our schools and in the press has produced a generation of liberals and progressives narcissistically unaware of conditions outside their self-defined groups, and indifferent to the task of reaching out to Americans in every walk of life. At a very young age our children are being encouraged to talk about their individual identities, even before they have them. By the time they reach college many assume that diversity discourse exhausts political discourse, and have shockingly little to say about such perennial questions as class, war, the economy and the common good.
PS: Quando ho iniziato a scriverti – e qui chiudo davvero – la terza stagione di Black Mirror non era ancora uscita. L’ho vista mentre riscrivevo questo pezzo per la terza volta. Non potevo sapere che avrebbe ampliato in modo ancora più distopico proprio il tema centrale di The National Anthem.
MD: Quanto dici della puntata di Black Mirror è mio avviso assimilabile alla questione Cantone solo parzialmente, lì infatti si sceglie di umiliare il singolo come rappresentante dello Stato a fini artistici e per risvegliare la coscienza collettiva. T. C. non rappresentava invece altro che se stessa, e il fine con il quale quel video era stato condiviso era specificamente di umiliare lei. Le vicende che ne sono seguite e addirittura la sua morte, invece, la pongono all’interno di un sistema di doloroso sessismo. Non so se T. C. volesse farsi paladina, essere considerata una martire o altro ma so per certo che non possiamo ignorare alcuno dei casi simili perché sono la tristissima riprova che c’è un sistema da minare alle fondamenta. Se la pressione mediatica avesse spinto T. C. a filmarsi e diffondere quei video, come per il PM inglese di Black Mirror, avrei probabilmente fatto comunque un simile discorso. D’altro canto, quando dico che il sessismo è una minaccia all’intero gender spectrum intendo proprio che sebbene sarebbe miope ignorare che la casistica vede le donne più facilmente vittime di simili eventi, è questo stessa dimensione che spinge incoscientemente a pensare che un uomo potrebbe (se non, addirittura, dovrebbe!) felicitarsi di un video simile. L’aspettativa che il “maschio forte” debba tollerare tutto questo e anzi abbracciarlo felicemente fa parte della costruzione di una mascolinità che mi interessa distruggere per il bene collettivo.
Però di nuovo, People love humiliation: vero, e dovremmo combattere questo principio. In nessuna maniera questa battaglia dovrebbe togliere forza e spazio a quella più miratamente antisessista. Anzi, mi sembrano andare a braccetto molto bene. Smettiamola di fotografare le persone obese al McDonald’s per farne meme, o ragazze che indossano i leggings come pantaloni, e via così. Personalmente, ne ho abbastanza. E quindi cerco di non guardare queste cose e anzi segnalarle come posso, e discutendone la profonda indecenza come posso. Insomma, ha senso offendere un avversario politico per quello che in termini di standardizzazione della bellezza nel 2016 è considerato un difetto?
Però tornando al nucleo della nostra discussione sul revenge porn, una distinzione c’è da farsi con il caso che vede persone «postare su facebook l’immagine del cadavere di un bambino morto in mare».
La fotografia del bambino, strumentalizzazione o meno, è pensata come narrazione forte di eventi odierni. La malattia sta nell’uso che se ne fa. La linea che divide la crudeltà dell’orrore oggettivo e il click-bait purtroppo è labile. Ma nel revenge porn un video privato, pensato per non essere diffuso o comunque per non essere reso pubblico, non ha alcun messaggio da veicolare. La scelta di non guardare i video illecitamente condivisi online al solo fine di ferire e umiliare i soggetti degli stessi è rifiutarsi di partecipare al massacro.
Quando ognuno di noi si rifiuterà di guardare questi video, la stampa non potrà che rinunciare a strumentalizzarne la diffusione; è la maniera migliore che abbiamo per denunciare il nostro volerci sottrarre a meccanismi di vendita a discapito di vite umane.
La questione gender non esclude altre analisi, solo ne mostra aggravanti che sedimentano nei principi di base che muovono questi meccanismi. Nessuno ha voluto ridurre a zero gli altri elementi che hanno composto quest’orribile vicenda, però – e scusa se mi ripeto – ignorare il fattore di genere vuole cadere nello stesso errore di sempre.
Riguardo all’articolo del NYT che mi segnali, tieni a mente che il paragrafo da te segnalato segue questo: “America has become a more diverse country […] Not perfectly, of course, but certainly better than any European or Asian nation today”. Non ritengo il parallelo immediato o immediatamente utile. E mi è difficile parlarne oltre perché trovo l’articolo nella sua interezza assolutamente riduttivo dell’argomento.


[1] Cfr. Eva Illouz, Perché l’amore fa soffrire, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 205: «È evidente che sono gli uomini a gestire le regole del riconoscimento e dell’impegno. Il dominio maschile assume la forma di un ideale di autonomia che le donne hanno sottoscritto attraverso la lotta per l’uguaglianza nella sfera pubblica. Tuttavia, quando ci si sposta nella sfera privata, l’autonomia soffoca il bisogno femminile di riconoscimento. Infatti, una caratteristica della violenza simbolica è che impedisce ai soggetti di contrastare una definizione della realtà che va a loro discapito. Con ciò non intendo dire che le donne non desiderino l’autonomia, ma piuttosto che sono in una posizione carica di tensione, perché esse perseguono nel contempo l’ideale della dedizione e dell’autonomia e, più significativamente, perché spesso ritengono di doversi preoccupare della propria autonomia e di quella del partner».
[Immagine: Vanessa Beecroft, Colour Guard (gm)]

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