10 dicembre 2016


Città come Samarcanda e Bukhara, e figure come Avicenna, segnarono una civiltà che fecondò l’Europa.
Sergio Basso
Stelle e carovane: l’altro Illuminismo dell’Asia centrale


Più o meno mille anni fa, nel 996, in una piazza assolata un libraio sta inseguendo un adolescente per convincerlo a comprare un libretto di filosofia. Il ragazzino alla fine cede, non troppo convinto. Il manoscritto era la recente traduzione in arabo della Metafisica di Aristotele e avrebbe cambiato per sempre la vita del lettore.

Il primo dato interessante è che non siamo ad Atene o a Roma. La piazza è quella di Bukhara, in Asia centrale, in piena Via della Seta. Come c’era finito Aristotele in una città che oggi si trova in Uzbekistan? L’acquirente aveva 16 anni e rispondeva al nome di Ibn Sina. Noi lo conosciamo come Avicenna: rilanciò gli studi aristotelici e di medicina. Oggi vediamo l’Asia centrale come una landa remota e desertica che finisce raramente sulle colonne dei giornali: la associamo al massimo al Grande Gioco dello spionaggio dell’Ottocento. Ma tra IX e XII secolo figurava tra le regioni più sviluppate e interconnesse al mondo. Bukhara era un centro cosmopolita come New York oggi. Merv, con il suo inscalfibile acciaio e le sue filande di cotoni ricamati, era il fulcro del villaggio globale della Via della Seta.

La lunga invasione islamica fu solo una tra tante nella storia della zona. Anche Alessandro Magno penetrò in Battriana nel 327 a.C. e vi trovò moglie. Invece che sottolineare l’importanza dell’apporto ellenistico in quelle terre, come se fossero plaghe neutre da colonizzare culturalmente di volta in volta, studi recenti ribaltano la prospettiva e cercano di ascrivere a quest’immensa area un’identità e una continuità tutte proprie.

Il nostro Avicenna, bambino prodigio che a 10 anni dominava a memoria il Corano , a 16 anni batté i medici di corte nel curare il suo monarca. In compenso non chiese denaro ma l’accesso alla biblioteca reale. Tutti i governatori della zona, a partire dai Greci della Battriana, passando per i Kushana ed i Sassanidi, avevano capito l’importanza del soft power : la corte è potente e prestigiosa se mantiene poeti, scienziati e architetti. E per nostra fortuna, quello dell’Asia centrale fu un popolo di grafomani e librai.

La vivacità degli scambi commerciali e l’apertura mentale degli amministratori permettevano l’ascesa sociale, e i patrizi compivano viaggi fino a Costantinopoli per procacciarsi manoscritti, per poi aprire le loro collezioni librarie a chi aveva sete di sapere. Così, Ibn Sina non fu un intellettuale isolato. Felice della presenza di questo enfant prodige , un giovane scienziato che abitava a 12 giorni di cammello, al-Biruni da Gurganj, gli scrive una lettera con una raffica di quesiti alla tenente Colombo. 
Anche al-Biruni ha letto Aristotele, ne ha appena divorato il trattato cosmologico Sui cieli , ma ha alcune perplessità, che possono toccare i cuori dei lettori anche oggi: «Vi sono altri sistemi solari o siamo soli nell’universo?». E Ibn Sina risponde. Inizia così uno scambio epistolare, di domanda in domanda, che venne pubblicato per i lettori più curiosi. Una corrispondenza tra due geniali scienziati che oggi vivrebbero l’uno in Uzbekistan, l’altro in Turkmenistan.
A che cosa fu dovuta questa effervescenza culturale?

Al di là della frammentazione politica, per secoli le dinastie della zona mantennero un’efficiente burocrazia e una vasta rete commerciale, con un’agricoltura irrigua e intensiva: bisognava sperimentare e mantenere i canali in funzione. Vale a dire, progresso tecnologico. Per incentivare i traffici, non esitavano a realizzare gli «autogrill del Medioevo», i caravanserragli. Uno di essi, il Rabat-i malik, sull’asse viario Nishapur-Merv, vantava una planimetria così sviluppata da essere scambiato dagli archeologi per una cittadella fortificata. Gli invasori nomadi si sedentarizzavano nell’arco di una generazione, irretiti dalla brillantezza della civiltà urbana.

Ma tutto questo non basta a spiegare il dinamismo dell’area: bisogna tenere in considerazione l’innata inquietudine degli intellettuali centroasiatici. Gli scienziati locali amavano spostarsi e visitare i colleghi. Steven Johnson, nel suo saggio Dove nascono le grandi idee (Rizzoli, 2011), sostiene che le migliori invenzioni della storia non sortirono dalla necessità, ma da un clima di gioco. E le corti dell’Asia centrale erano intrise di tale energia, un melting pot di tolleranza religiosa e filosofica. La gente in piazza era pronta ad ascoltare predicatori zoroastriani, cristiani, buddhisti. 
I centrasiatici adoravano la tecnologia. Tre fratelli di Merv, i ben Musa, scrissero un trattato su macchine e automi. La copia conservata alla Staatsbibliothek di Berlino si colloca a metà strada tra il Codice atlantico leonardesco e il quaderno degli appunti del disneyano Archimede Pitagorico, con invenzioni strampalate tipo la pinza telescopica per recuperare minerali dal letto del fiume. E funzionano tutte. Ma il manoscritto non venne mai tradotto in lingue occidentali. Perché allora il crollo?

I Mongoli, a fine Trecento, per assediare le città distrussero le preziose dighe che per secoli avevano incanalato le acque. La popolazione locale, decimata dalle invasioni, nel volgere di pochissime generazioni perse il know how per mantenerle. Sotto la pax mongolica le gabelle lungo le vie carovaniere erano così elevate che gli europei preferirono esplorare le vie del mare. Infine, la legge musulmana sull’eredità frammentò le proprietà e il capitale che sarebbe servito per ulteriori investimenti. Questo processo, a lungo andare, tagliò le gambe al mecenatismo.
Tamerlano (1336-1405), vale a dire Timur lo zoppo, fu condottiero di sanguinaria fantasia: mentre gli abitanti di Damasco scappavano via nave dalla città ormai caduta sotto i Mongoli, Tamerlano giocava al tiro al bersaglio catapultandogli contro le teste decapitate dei soldati della guarnigione ottomana appena sbaragliata. Ma il valzer del Dna è imprevedibile, e suo nipote Ulug Bek a Samarcanda istituì borse di studio per 10 mila studenti, scovando talenti nel popolino. Arrivò a finanziare gli studi in matematica del figlio del proprio falconiere. 
La sua madrasa a Samarcanda è visitabile ancora oggi, e su di essa spicca il detto di Maometto: «Impegnarsi per il sapere è dovere di ogni musulmano». Ulug Bek ascoltò per primo il precetto e costruì un osservatorio astronomico colossale, convinto che strumenti più voluminosi avrebbero garantito misurazioni più accurate. Stilò così il fantastico Catalogo delle stelle , la guida migliore che i viaggiatori avessero mai avuto per orientarsi con il firmamento dopo Tolomeo (II d.C.).

La storia non finisce benissimo: nel 1449 Ulug Bek fu decapitato dal figlio. Ma il falconiere, divenuto nel frattempo geniale astronomo, scappò verso la più illustre città conquistata dai turchi ottomani: Costantinopoli. Là rilanciò una scuola di astronomia, sulla falsariga di quella di chi aveva creduto in lui a Samarcanda, e le stelle dell’Asia centrale arrivarono in Occidente.

Il Corriere della sera/La Lettura – 4 dicembre 2016

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