05 gennaio 2017

PATERSON, quando il cinema diventa poesia.






Ho scritto due parole a caldo su questo splendido film, sul mio diario fb, appena uscito dalla sala cinematografica, raccomandando a tutti gli amici di andarlo a vedere. Ci torno a freddo oggi, facendo mia questa  recensione di Marianna Cappi.
Film sulle vite tormentate di poeti incompresi ne sono stati fatti molti, per lo più dolciastri o melodrammatici. Ci voleva un regista di nicchia come Jim Jarmusch per realizzare un film sulla poesia come vita quotidiana. Un giovane autista di autobus percorre la città e da tutto ciò che vede e incontra trae ispirazione per le poesie d'amore che compone per la moglie. In una città fatta di persone sole, ciascuna chiusa nella propria individualità, la poesia diventa la porta aperta sull'incontro con l'altro. I versi aiutano a vivere e infondono speranza in un mondo triste e solitario che grazie a loro prende senso e colore. Un film splendido, da vedere.


Marianna Cappi

Paterson

Paterson vive a Paterson, New Jersey, con la moglie Laura e il cane Marvin. Ogni giorno guida l'autobus per le vie della città, ogni sera porta fuori il cane e beve una birra nel pub dell'isolato. Mentre la moglie colleziona progetti fantasiosi e fuori portata, e decora ininterrottamente la loro casa, Paterson appunta umilmente le sue poesie su un taccuino, che porta sempre con sé. Nei suoi versi si fondono la passione per William Carlos Williams, nativo di Paterson, Ginsberg, O'Hara, ma anche il suo orizzonte quotidiano. Proprio il dono di uno sguardo poetico sembra essere ciò che lo eleva da una routine di luoghi e azioni uguali a se stesse e sottilmente angoscianti.

Sono pochi davvero i film che trattano la poesia riuscendo a fare di essa la propria sostanza e questo lavoro di Jarmusch si colloca immediatamente tra i primi della lista. Tutt'altro che un film sulla poesia delle piccole cose, Paterson è, al contrario, un poema in sé, oltre che un viaggio nei meccanismi stessi della scrittura in versi e nel rapporto tra la parola e l'immagine, che chiama intrinsecamente in causa il cinema.

Il viaggio comincia da subito e dal nulla, da quel primo richiamo ai fiammiferi, protagonisti della più nota e banalizzata poesia d'amore prévertiana, per poi contemplare la sorpresa, elemento imprescindibile, che qui s'affaccia nell'apparizione della prima coppia di gemelli, generata da un sogno della moglie e trasformata in ripetizione, che punteggerà tutto il film. E poi il cane, la sua immagine reale e quella nel quadro, che ha attraversato un processo di interpretazione di astrazione eppure ne conserva, riconoscibilissima, la fisionomia. E l'ironia buona della lettera, per cui il nome del protagonista coincide con quello della città così come il nome dell'attore, Adam Driver, con quello del suo mestiere nel film.
Facendo dialogare con rimandi continui il mondo delle cose e quello delle parole, e usando sistematicamente la figura delll'anafora (anche qui, tanto nella ripetizione dei versi in voice over quanto nella ripetizione di situazioni e comportamenti) Jarmusch costruisce un'opera che prende senso nel suo insieme, e non nel singolo passo, per quanto riuscito.

Come Dante, citato non a caso, Paterson ci mostra ciò che vede durante la sua corsa, attraverso la città e l'esistenza, ci mette a parte degli stralci di conversazione che sente (bello il dialogo su Gaetano Bresci e la pena di morte affidato ai due protagonisti di Moonrise Kingdom, ancora in coppia, trasfigurati in anarchici neo romantici), degli incontri che fa, della natura irrompente del piccolo imprevisto.

Jarmusch non racconta qui la storia di un genio incompreso, tant'è vero che la poesia di una ragazzina incrociata per caso è buona quanto quelle del protagonista o quasi: racconta di un dono che ha il potere di cambiare ogni cosa, perché è il dono di uno sguardo particolare sul mondo.


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