05 gennaio 2017

V. ZAGREBELSKY CONTRO I TRIBUNALI DEL POPOLO







È ben nota la pericolosità per la democrazia della diffusione di false notizie, tanto più, ma non solo, se tese a instillare odio e intolleranza. Ne siamo consapevoli da prima dell’invenzione del Web, di Internet, Facebook, Twitter, ecc. Eppure è sulle comunicazioni diffuse con questi mezzi che si appunta ora l’attenzione e la preoccupazione.

Prima di vedere se e come sia possibile contrastare la falsificazione della realtà mediante false comunicazioni in rete, occorre chiedersi perché ora questo allarme, che non è accompagnato dalla discussione di analogo pericolo quando la falsa informazione viaggia per il canale dei media tradizionali (carta stampata, radio, televisione). Eppure l’intossicazione dell’opinione pubblica con informazione bacata non è fenomeno nuovo. Non è passata dal Web la falsa notizia del possesso di armi di distruzione di massa da parte di Saddam, per mobilitare l’opinione pubblica a favore della guerra all’Iraq. Né il solo Web è stato strumento dell’insistita falsità sul luogo di nascita di Obama, per insinuare l’illegittimità della sua elezione a presidente degli Stati Uniti. E così la negazione della presenza di militari russi in Ucraina e in Crimea, per escludere che vi sia stata violazione della legalità internazionale. Non il solo Web ha trasformato la campagna elettorale per il referendum britannico e quella per le elezioni presidenziali americane in un appello a emozioni irrazionali senza collegamento con la realtà. Più vicino a noi la questione si pone confrontando la «narrazione» renziana con l’elenco delle debolezze italiane, che il presidente Mattarella ha ora esposto con la naturalezza di chi dice la verità. Tutti esempi che chiamano in causa i media tradizionali nella loro opera di indirizzo dell’opinione pubblica (e dell’elettorato).

Il problema del ricorso al falso nella discussione pubblica non nasce dalla diffusione delle comunicazioni tramite Web. Né è per l’importanza acquisita dai nuovi mezzi di comunicazione che l’Oxford Dictionary ha scelto come parola dell’anno «post-truth»: la comunicazione che prescinde dalla verità dei fatti, i quali nel formare l’opinione pubblica risultano meno importanti dell’appello alle emozioni e ai convincimenti personali.

Ma l’informazione che passa dal Web e mette in comunicazione direttamente gli individui senza intermediazione, ha caratteristiche proprie che non possono essere ignorate: la rapidità della diffusione, che assume carattere virale (la parola indica qualche cosa di patologico) per l’automaticità della moltiplicazione dei destinatari, la sua gratuità, estrema facilità d’uso e possibilità per il mittente di nascondersi nell’anonimato. Alla diffusività delle informazioni trasmesse via Web si aggiunge la difficoltà di reazione tempestiva per rettificare o smentire. È vero che anche per i media tradizionali la smentita o rettifica è tardiva e ottiene un rilievo molto inferiore alla prima notizia. Ma nel rapidissimo circo del Web tutto viene aumentato a dismisura. E le regole deontologiche dei giornalisti non si applicano. Regole però sono necessarie a tutto campo, senza che l’appello alla fondamentale libertà d’informazione valga ad escludere limiti e controlli. Non solo la costituzionale libertà di stampa e informazione, ma anche il diritto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti e delle libertà fondamentali richiama i doveri e responsabilità di chi si avvale di quella libertà. Non sono esenti da pecche anche gravi i media tradizionali, ma è certo che ogni controllo è più difficile per quelli che usano il Web. Tuttavia la tutela delle regole deontologiche che sono state elaborate nei Paesi la cui democrazia si fonda sulla libertà di espressione, va sviluppata e resa più efficace su tutti i media. Solo così si può escludere che il faro acceso sul solo Web si spieghi per il carattere alternativo dell’informazione che passa per suo tramite: informazione alternativa a quella trasmessa da stampa, radio e televisione che a livello nazionale e internazionale, più meno direttamente, sono legate all’establishment politico ed economico.

Si propone ora la creazione di autorità pubbliche che dovrebbero controllare la veridicità delle informazioni trasmesse via Web o, in alternativa, da parte del leader del Movimento 5 Stelle addirittura di istituire una giuria popolare estratta a sorte, che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media. Quest’ultima soluzione ricorda i processi cinesi che si svolgevano negli stadi; la prima invece richiama lo strumento della censura; entrambe incontrano comunque la difficoltà di distinguere il vero dal falso, i fatti dalle opinioni, senza travestire opinabili valutazioni in incontrovertibili verità (ufficiali o popolari). La vigilanza e la denunzia delle falsificazioni spettano alle organizzazioni che può creare la società civile nei Paesi democratici. Alle leggi, agli accordi tra gli Stati, alla collaborazione richiesta ai provider internet, si può chiedere di fornire gli strumenti, anche tecnici, per evitare che la comunicazione via Web si sottragga alle regole di onestà informativa che valgono per tutti.

LA STAMPA, 4 gennaio 2017



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