01 gennaio 2017

R. MADERA SU C. G. JUNG



Un saggio di Romano Madera dedicato a Carl Gustav Jung, fondatore della psicologia analitica, collega la nozione di inconscio alla perdita di senso conseguente alla desacralizzazione della società contemporanea. Una tesi affascinante.

Paolo Barone

Un vicolo cieco per il senso che cambia pelle

Come seguire i continui mutamenti che rimodellano senza sosta il volto della società contemporanea e dare conto dei lineamenti sempre più sfuggenti e dei modi di vivere spesso indecifrabili e sconclusionati che la caratterizzano? Come avere il polso della corrente di infelicità e di misfatti, di sogni e nostalgie che scorre sotto la superficie dei suoi comportamenti per cogliere, al di là di essi, il tratto saliente che li unifica e la vocazione di fondo che potrebbe ispirarli? Come farsi un’idea, insomma, del tempo presente, del tempo in cui viviamo?

Sino a un passato non lontano si poteva ancora esser certi che domande del genere avrebbero trovato, prima o poi, delle risposte adeguate, che lo sforzo impiegato per cercarle sarebbe stato infine coronato da successo. Oggi, al contrario, sperimentiamo non solo che le risposte mancano del tutto, ma che il domandare stesso è diventato superfluo: il nostro tempo – forse per la prima volta nel corso della storia – potrebbe risultare privo di qualunque idea o immagine di fondo che lo orienti, e dunque ritrovarsi stordito, inconsistente, letteralmente insensato.

Proprio intorno alla questione della sparizione di senso dalla scena contemporanea, dei guasti che ne derivano, della necessità di ripristinarne la ricerca , ma, insieme, dei limiti invalicabili con cui quest’ultima si scontra, ruota il recente Carl Gustav Jung di Romano Màdera (Feltrinelli, pp. 160, euro 14,00).
La sua scelta di rifarsi – con Jung – alla psicoanalisi per seguire le vicissitudini del senso è più che pertinente. La nozione di inconscio con cui la psicoanalisi si qualifica emerge infatti nel mezzo di una precisa frattura storica, al termine cioè di quel processo di erosione con cui la Modernità si sbarazza di tutti i vincoli mitici, magici, religiosi, soprannaturali che regolavano invece i modi di vivere delle società tradizionali.

L’inconscio è innanzitutto il risultato e il sintomo storico di questo sgretolamento, il «prezzo del progresso», l’equivalente moderno dei vincoli antichi andati in frantumi, la nuova oscurità che vela la luce della ragione e scinde il profilo dell’Io. Ecco perché, ben prima di costituire la parola d’ordine di un sapere specialistico divenuto via via più o meno competente, l’inconscio resta il cristallo in cui si riflette una svolta epocale – la tradizione che si spezza – nonché una delle più efficaci lenti d’ingrandimento attraverso cui osservarla. È qui che, ricorda Màdera, il senso cambia pelle. Non si può più accedervi uniformando la propria condotta a quella di un modello esemplare, restando nell’anonimato e «imitando» la via seguita da un altro, come nel passato. Ciascuno adesso è chiamato per nome a trovare da sé la propria via, il proprio senso.

Màdera mostra bene come sia Freud che Jung accolgano questa ingiunzione, benché sia Jung a trarne le conseguenze più radicali: con la «morte di Dio» l’inconscio per Jung non è solo il deposito che ne raccoglie le scorie, ma soprattutto il luogo in cui torna libera l’energia incandescente e misteriosa che l’immagine storica del dio unico prima incorporava. Sprigionata, tale energia è ora variazione, diversificazione continua: preme direttamente nelle vite dei singoli, reclama di essere realizzata e riconosciuta individualmente, intima a ognuna di «seguire il battito del proprio cuore». Dare ascolto a questo appello sarebbe la sola cura per la nostra intera «civiltà in transizione».
Le condizioni attuali sembrano però averla resa quasi del tutto impraticabile. A Màdera, come ad altri, pare che la «clinica dell’individuazione» si scontri ormai con l’amorfo, caotico impasto sociale prodotto dal capitalismo globale. Invece che individui riunificati – cioè alla lettera, sottolinea Màdera, in-dividui, in-divisi – finalmente in cerca del proprio senso, ci troveremmo di fronte individualisti atomizzati, ripiegati narcisisticamente su di sé. Ciò che rimane tuttavia inspiegato in queste letture è come il medesimo processo storico sia, al contempo, quello che promuove le mille voci soggettive e quello che produce il loro doppio deforme e aberrante.

Del nostro tempo ci viene così restituita una dolente immagine scissa, spaccata in due: e poiché questo è il tempo in cui viviamo, anche un’immagine scissa di noi stessi, dove non possiamo dirci individui senza sospettare di essere, insieme, un po’ atomi – termine che paradossalmente significa, anch’esso, in-divisi. Eppure da tempo la modernità del Capitale – non potendo prescindere dal suo presupposto di avere a disposizione sempre e solo risorse inesauribili – è entrata in un vicolo cieco, popolato via via da figure di cui non sa venire a capo, perché appunto figure esaurite, dal senso esausto, dai tempi morti. C’è da chiedersi se non occorra rivolgere con più fiducia la dovuta attenzione a queste figure impossibili e impensate per riannodare i lembi della scissione, abbandonando entrambi i termini, individuo e atomo, che la mantengono ancora in vita.


Il manifesto – 20 novembre 2016

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