Un saggio di Romano
Madera dedicato a Carl Gustav Jung, fondatore della psicologia
analitica, collega la nozione di inconscio alla perdita di senso
conseguente alla desacralizzazione della società contemporanea. Una
tesi affascinante.
Paolo Barone
Un vicolo cieco per il
senso che cambia pelle
Come seguire i continui
mutamenti che rimodellano senza sosta il volto della società
contemporanea e dare conto dei lineamenti sempre più sfuggenti e dei
modi di vivere spesso indecifrabili e sconclusionati che la
caratterizzano? Come avere il polso della corrente di infelicità e
di misfatti, di sogni e nostalgie che scorre sotto la superficie dei
suoi comportamenti per cogliere, al di là di essi, il tratto
saliente che li unifica e la vocazione di fondo che potrebbe
ispirarli? Come farsi un’idea, insomma, del tempo presente, del
tempo in cui viviamo?
Sino a un passato non
lontano si poteva ancora esser certi che domande del genere avrebbero
trovato, prima o poi, delle risposte adeguate, che lo sforzo
impiegato per cercarle sarebbe stato infine coronato da successo.
Oggi, al contrario, sperimentiamo non solo che le risposte mancano
del tutto, ma che il domandare stesso è diventato superfluo: il
nostro tempo – forse per la prima volta nel corso della storia –
potrebbe risultare privo di qualunque idea o immagine di fondo che lo
orienti, e dunque ritrovarsi stordito, inconsistente, letteralmente
insensato.
Proprio intorno alla
questione della sparizione di senso dalla scena contemporanea, dei
guasti che ne derivano, della necessità di ripristinarne la ricerca
, ma, insieme, dei limiti invalicabili con cui quest’ultima si
scontra, ruota il recente Carl Gustav Jung di Romano Màdera
(Feltrinelli, pp. 160, euro 14,00).
La sua scelta di rifarsi
– con Jung – alla psicoanalisi per seguire le vicissitudini del
senso è più che pertinente. La nozione di inconscio con cui la
psicoanalisi si qualifica emerge infatti nel mezzo di una precisa
frattura storica, al termine cioè di quel processo di erosione con
cui la Modernità si sbarazza di tutti i vincoli mitici, magici,
religiosi, soprannaturali che regolavano invece i modi di vivere
delle società tradizionali.
L’inconscio è
innanzitutto il risultato e il sintomo storico di questo
sgretolamento, il «prezzo del progresso», l’equivalente moderno
dei vincoli antichi andati in frantumi, la nuova oscurità che vela
la luce della ragione e scinde il profilo dell’Io. Ecco perché,
ben prima di costituire la parola d’ordine di un sapere
specialistico divenuto via via più o meno competente, l’inconscio
resta il cristallo in cui si riflette una svolta epocale – la
tradizione che si spezza – nonché una delle più efficaci lenti
d’ingrandimento attraverso cui osservarla. È qui che, ricorda
Màdera, il senso cambia pelle. Non si può più accedervi
uniformando la propria condotta a quella di un modello esemplare,
restando nell’anonimato e «imitando» la via seguita da un altro,
come nel passato. Ciascuno adesso è chiamato per nome a trovare da
sé la propria via, il proprio senso.
Màdera mostra bene come
sia Freud che Jung accolgano questa ingiunzione, benché sia Jung a
trarne le conseguenze più radicali: con la «morte di Dio»
l’inconscio per Jung non è solo il deposito che ne raccoglie le
scorie, ma soprattutto il luogo in cui torna libera l’energia
incandescente e misteriosa che l’immagine storica del dio unico
prima incorporava. Sprigionata, tale energia è ora variazione,
diversificazione continua: preme direttamente nelle vite dei singoli,
reclama di essere realizzata e riconosciuta individualmente, intima a
ognuna di «seguire il battito del proprio cuore». Dare ascolto a
questo appello sarebbe la sola cura per la nostra intera «civiltà
in transizione».
Le condizioni attuali
sembrano però averla resa quasi del tutto impraticabile. A Màdera,
come ad altri, pare che la «clinica dell’individuazione» si
scontri ormai con l’amorfo, caotico impasto sociale prodotto dal
capitalismo globale. Invece che individui riunificati – cioè alla
lettera, sottolinea Màdera, in-dividui, in-divisi – finalmente in
cerca del proprio senso, ci troveremmo di fronte individualisti
atomizzati, ripiegati narcisisticamente su di sé. Ciò che rimane
tuttavia inspiegato in queste letture è come il medesimo processo
storico sia, al contempo, quello che promuove le mille voci
soggettive e quello che produce il loro doppio deforme e aberrante.
Del nostro tempo ci viene
così restituita una dolente immagine scissa, spaccata in due: e
poiché questo è il tempo in cui viviamo, anche un’immagine scissa
di noi stessi, dove non possiamo dirci individui senza sospettare di
essere, insieme, un po’ atomi – termine che paradossalmente
significa, anch’esso, in-divisi. Eppure da tempo la modernità del
Capitale – non potendo prescindere dal suo presupposto di avere a
disposizione sempre e solo risorse inesauribili – è entrata in un
vicolo cieco, popolato via via da figure di cui non sa venire a capo,
perché appunto figure esaurite, dal senso esausto, dai tempi morti.
C’è da chiedersi se non occorra rivolgere con più fiducia la
dovuta attenzione a queste figure impossibili e impensate per
riannodare i lembi della scissione, abbandonando entrambi i termini,
individuo e atomo, che la mantengono ancora in vita.
Il manifesto – 20
novembre 2016
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