Intervista (impossibile) ad Alberto Arbasino
di Rubina
Mendola*
L’ intervista impossibile ideata da Arbasino, che lui scriveva per
altrettanti impossibili intervistati, oggi tocca proprio a lui. Nonostante il
tutto sia solo il giocoso risultato di una potente macchinazione della mia
fantasia letteraria, mi stupisce comunque la presenza immaginaria di Arbasino
davanti a me, con quello sguardo tersissimo. Pensavo che non avrebbe rilasciato
più nessuna intervista, e infatti mi dice che è così, che questa intervista è
un’eccezione perchè davvero si è deciso a non rilasciarne più a nessuno. Non so
perché abbia infranto la regola proprio con me. “Non mi pare che lei sia una
vecchia solfa che fa mitologia sfacciata dell’autore vivente. Le sue domande mi
sono sembrate diverse, senza quel cipiglio muscolare degli intervistatori italiani,
magari cortesi, magari gentili, ma anche un pò lecchini”, dice, e detto da lui
la cosa è più che complimento. Dice che era stanco di quelle domande un po’
ossequiose, un po’ frou frou, un po’narcisiste, che gli rifilano commentatori e
giornalisti. Ma soprattutto, c’è una cosa che lo rende felice: “Ho capito che
avevo fatto la scelta giusta quando ho visto che non mi ha chiamato “maestro” e
che tra le sue domande non c’erano frasi del tipo l’ultimo scrittore
italiano vivente e altre pompe magne di questo tipo”. Negare la mia
commozione sarebbe disonesto, quindi può scorrere indisturbata e
alla fine mescolarsi a tutto il resto fino a non notarsi più: del resto non si
emozionò lui quando si trovò al cospetto di Gadda? Ci accomodiamo nel suo
studio, e c’è un silenzio magnifico. Intorno a noi solo il mondo-Arbasino,
fatto di tutto quello che fa sopravvivere ancora oggi, in Italia, la luce della
letteratura e i pochi superstiti culturali in un paese più falsamente
colto, involgarito, narciso ed esibizionista che mai. Sto solo sognando, ma chi
può dire se questo incontro immaginario sia in effetti troppo distante da
come sarebbe andato in realtà? (r.m.)
Agli
intervistati d’alta sfera intellettuale come lei, il linguaggio preconfezionato
del giornalismo culturale italiano riserva ammiccamento salottiero e scaltra
riverenza. Le interviste che la riguardano non sfuggono a questo andazzo,
sembrano tarate più sul ‘personaggio’ che sull’autore, e gira e rigira sembrano
un questionario a sfondo mondano (con chi?, cosa è successo?, chi c’era?, dove
e quando?) con virate perenni su vite celebri del passato. I giornalisti temono
un confronto diretto con lei su questioni intellettuali o più semplicemente
hanno letto poco (o male) i suoi testi? Per non parlare del luogo comune Arbasino-cronista
mondano…
Non leggo
mai le interviste che mi fanno, ma ho l’impressione che siano davvero tutte
uguali….una delle più belle me la fece Maria Luisa Vecchi, tantissimi anni fa.
Anche per questo non amo essere intervistato, preferisco che mi si interpelli
attraverso l’opera, non con microfoni e taccuini. In Italia c’è questa
abitudine un pò fastidiosa di riverire con un linguaggio concettoso e
giravoltante chi ha raggiunto un certo stadio di riconoscibilità culturale. Non
lo so chi mi teme, non mi tengo informato su questo. Non mi interesso mai di
quel che leggono o non leggono i giornalisti, però certo i miei libri, se
devono recensirli, immagino li sfoglino perlomeno distrattamente. Alcuni di
loro sono anche molto gentili, garbati, però ci si annoia molto a sentirsi fare
certe domande…”e Antonioni? E quella volta con Fellini?”. Sono sicuro di essere
un autore molto citato e poco letto, costruisco oggetti complessi che
scoraggiano un lettore incolto in cerca di pappe pronte o cotte e ricotte quindi
nessuno stupore. Le domande mondane, certo, tradiscono l’intento di aggirare le
questioni più difficili, formali, estetiche…Il giornalista medio italiano
spesso cade nel gradassismo, e non credo sia molto colto. Dove lo si trova il
tempo per leggere libri se si passa il tempo ad andare alle feste, agli
aperitivi, o a fare ‘climbing’?
Se oggi
manca una definizione chiara di intellettuale è perchè in Italia non ce ne sono
più o perchè i pochi esistenti disertano aule universitarie e poltrone
televisive evitando dichiarazioni su come lasciarsi identificare?
Quando
qualcuno mi chiama “maestro” ho un brivido di sgomento, quindi si figuri,
sono l’ultima persona che può rispondere a questa domanda. Guardi, qui si è
consumata completamente la possibilità di pensare in modo equilibrato un
argomento come questo. La definizione è un problema che si pongono quelli che
non hanno approfondito l’argomento…Intellettuale è un termine che più
smandrappato non si può in questo paese, se poi ci si mette anche il relativo dibbbattito
non resta che la smorfia dell’intento nobile originario. Sicuramente chi ha
molto a cui pensare e molto da scrivere non poltroneggia sempre nei
programmi, non trae alcun giovamento dall’essere ospite celebre alla tivù…Poi
per carità, magari oggi qualcuno parla di crisi dell’intellettuale e del suo
ruolo, una argomento veramente stronzo e noioso. A me sembra proprio che non ci
sia più quella civiltà, quella cultura da società letteraria.
Siamo
nell’epoca della folla culturale “creativa”, a ogni angolo spunta
l’odioso tic lessicale del milieu dei circuiti dabbene dell’arte: creatività. I
laboratori di scrittura cosiddetta “creativa” sono l’epifenomeno di questo tic:
l’esito è un pericoloso vespaio di arraffoni iperpubblicati all’ammasso o l’ennesimo
innocuo esercito di mezze calze invisibili?
Entrambe le
cose. Però guardi che la folla inviperita e le canizie crudelissime esistevano
pure negli anni ’70, non è cambianto nulla. Certo adesso c’è una ressa
spaventosa, con tutti questi presunti critici, presunti scrittori e così via.
Ognuno pressa per un centimetro di palco o di spazio sulla carrozza, il
risultato è abbastanza penoso a guardarsi. Di scrittori comunque non ce ne sono
in giro, di poeti poi vabè non discutiamone nemmeno. Brillanti promesse quante
ne vuole, ma tra dieci anni chi se le ricorda? Siamo alla stabilizzazione della
Pseudo-Cultura delegata a trattare coi giornalisti o coi tenutari di rubriche
letterarie.
Le case
editrici sfornano romanzi come panini imbottiti e chiunque oggi pubblichi
parole omologate su una sequenza cartacea di pagine è presentato
automaticamente come uno scrittore. Qual è (o dov’è) l’origine del danno, e
quale sarebbe eventualmente l’antidoto?
La pressione
c’è, è innegabile. La sovrapopolazione non perdona. L’accesso ai saperi è
diventato tanto facile quando privo di qualità e significato. Poi ci sono
troppe lauree, troppi dottorati, sovrabbondanza della democratizzazione della
cultura superiore come redenzione totale o come elevazione dovuta e
impareggiabile…Si chiama “creatività” qualcosa che diversamente non
avrebbe un nome perchè cela qualcosa di orribilmente anonimo o conformato. Il
processo mi sembra destinato a essere longevo, non si fermerà. Il problema è
che ormai il trucchetto lo hanno imparato tutti, con questa smania di smontare
il meccanismo e farlo vedere a tutti, insieme alla moda di rendere il lettore
‘collaborativo’, l’invito all’azione e alla cooperazione lettore-autore…La
cultura alta non è mai stata per tutti, ma la propaganda dell’ultimo trentennio
illude del contrario: questo ha provocato risultati molto dolorosi e pericolosi
per la stessa cultura.
La moda dei
festival del libro, annualmente sparsi per l’Italia, sembra una buona metafora
di quella “percepibile ansia di salire sul carro” di cui parlò qualche tempo fa
in un’intervista. Se la voglia di successo è più urgente della qualità, che
speranze ci sono per l’Italia di avere ancora Letteratura?
Nessuna. Non
mi viene in mente nulla che valga l’aggravio della lettura, anche perchè ognuno
è già troppo sicuro, lanciato. L’epoca è quella di gesti normali insigniti
delle nove colonne, mamme che mettono lo zucchero nel caffè o profeti che
pensano di stupire usando la parola cazzo, ma io giro pagina. Non me ne importa
niente. Non mi vien voglia di leggere. Tanti anni fa non si usavano
letterariamente gli antichi sapori o le ricette della nonna mescolandole
impunemente con le malattie del papà o l’agonia della mamma o le mutilazioni di
antiche guerre subite dalla bisnuora.
L’io,
il proprio ombelico (come ama chiamarlo lei) e il domicilio sono l’inventario
base di ogni narrativa aeroportuale venduta oggi per scrittura. I libri si
vendono tanto più se l’autore fa gli aperitivi con i lettori o espone il suo
caso privato (assecondando il celebre poker arbasiniano infanzie
difficili/tinelli/antichi sapori/corsie ospedaliere). Cosa distingue la
vera scrittura dallo sfogo-paccottiglia?
L’impressione è quella di tanti
presepi apparecchiati. La distinzione è ovvia solo a patto di praticarla
dall’interno, di esserne l’esecutore, e il fruitore intelligente questo lo sa e
decodifica perfettamente se l’operazione è limpida o sentimentalmente
ricattatoria. La scrittura è il contrario della semplificazione, e l’insistenza
sulla struttura e sull’intreccio sono un indizio dell’irrilevanza. Il calvario
della prozia come può interessarmi? O il “sapesse quanto abbiamo sofferto,
signora mia”?
A proposito
di understatement e low profile (parole che le stanno care, visto che, come
Gadda, si ritiene non esibitivo nè narcissico), in un articolo apparso su “Il
Foglio”, Alfonso Berardinelli descriveva l’io di Arbasino “un io prossimo
allo zero, che sparisce di fronte all’oggetto su cui lavora”. Si rivede in
questa definizione? Come la interpreta?
Mi ci
rivedo, mi sento a mio agio se accostato a un’immagine del genere. Ma non la
interpreto, interpretare una definizione che altri hanno dato di noi mi sembra,
appunto, un vizietto ombelicale. Sono fuori anche dal dato più tipico
dell’antropologia nazionale, l’aggressività sistematica di tutti contro tutti,
i guelfi e i ghibellini…
Volendo
suggerire agli italiani esordienti della penna un esercizio di autocritica
preliminare alla pubblicazione di un testo, che cosa dovrebbero domandarsi
secondo lei prima di correre da un editore mossi dall’ ansia di andare in
stampa?
Il grande
scrittore è prioritariamente un lettore talentuoso. Non ho nessun ‘messaggio’,
soltanto un buon consiglio, cioè leggere i classici del ‘900 italiano. Dovrebbe
essere un passatempo. Quindi è un suggerimento per un buon divertimento. E poi
suggerirei magari la sprezzatura: essere lievi nelle cose pesanti e invece
magari puntigliosi nelle stupidaggini. E forse più understatement anche nella
presa di posizione. C’è l’ ansia da carro…Consiglierei semplicemente
prudenza, magari il carro si rivela meno solido del previsto. E poi fare come
Longhi, che scriveva come uno che si veste al buio ma ha un guardaroba talmente
bello da non sbagliare mai un accostamento. E poi evitare
l’eros. L’italiano è una lingua impossibile per scrivere di erotismo e di
pornografia…Come si fa a scrivere una frase come: “E l’energumeno estrasse un
membro gigantesco?”. Come si fa a scrivere “estrasse” in pornografia? Fa parte
di quel linguaggio burocratico e fatiscente con parole come “inanellare”, “obliterare”,
“aeromobile”…
Parte della
forza di ciò che scrive e pensa è dovuta alla scelta di un registro espressivo
criptato: si ha la sensazione di trovarsi al cospetto di una trappola il cui
disinnesco è destinato a una cerchia di complici, un pò come messaggi in codice
per lettori sceltissimi, una specie di dialogo tra lei e coloro che hanno
occhi per intra-vedere ciò che non vuole rendere esplicito (e, perciò,
fatalmente consumabile). Serve più coraggio o più disciplina per
praticare le alture, lontani dal prodotto da banco?
Occorre
praticare la ‘distanza’, e sentirsi a metà tra un superstite o uno scalatore…
Per esempio, io sono un superstite che si sente privo dei suoi coetanei. Se
penso che avevano pochi anni di più, Calvino, Parise, Pasolini e Testori, e non
ci son più…Ci eravamo ripromessi di fare alla fine dei grandi litigi e li
pregustavamo. Ma non c’è stato il tempo.
Da http://www.impressionsreview.com/intervista-impossibile-ad-alberto-arbasino/
15/12/2016
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