01 gennaio 2017

UNA INTERVISTA IMMAGINARIA DI RUBINA MENDOLA AD A. ARBASINO




Intervista (impossibile) ad Alberto Arbasino
di Rubina Mendola*
  
L’ intervista impossibile ideata da Arbasino, che lui scriveva per altrettanti impossibili intervistati, oggi tocca proprio a lui. Nonostante il tutto sia solo il giocoso risultato di una potente macchinazione della mia fantasia letteraria, mi stupisce comunque la presenza immaginaria di Arbasino davanti a me, con quello sguardo tersissimo. Pensavo che non avrebbe rilasciato più nessuna intervista, e infatti mi dice che è così, che questa intervista è un’eccezione perchè davvero si è deciso a non rilasciarne più a nessuno. Non so perché abbia infranto la regola proprio con me. “Non mi pare che lei sia una vecchia solfa che fa mitologia sfacciata dell’autore vivente. Le sue domande mi sono sembrate diverse, senza quel cipiglio muscolare degli intervistatori italiani, magari cortesi, magari gentili, ma anche un pò lecchini”, dice, e detto da lui la cosa è più che complimento. Dice che era stanco di quelle domande un po’ ossequiose, un po’ frou frou, un po’narcisiste, che gli rifilano commentatori e giornalisti. Ma soprattutto, c’è una cosa che lo rende felice: “Ho capito che avevo fatto la scelta giusta quando ho visto che non mi ha chiamato “maestro” e che tra le sue domande non c’erano frasi del tipo l’ultimo scrittore italiano vivente e altre pompe magne di questo tipo”. Negare la mia commozione sarebbe disonesto, quindi  può scorrere indisturbata e alla fine mescolarsi a tutto il resto fino a non notarsi più: del resto non si emozionò lui quando si trovò al cospetto di Gadda? Ci accomodiamo nel suo studio, e c’è un silenzio magnifico. Intorno a noi solo il mondo-Arbasino, fatto di tutto quello che fa sopravvivere ancora oggi, in Italia, la luce della letteratura e i pochi superstiti culturali in un paese più falsamente colto, involgarito, narciso ed esibizionista che mai. Sto solo sognando, ma chi può dire se questo incontro immaginario sia in effetti troppo distante da come sarebbe andato in realtà?  (r.m.)

Agli intervistati d’alta sfera intellettuale come lei, il linguaggio preconfezionato del giornalismo culturale italiano riserva ammiccamento salottiero e scaltra riverenza. Le interviste che la riguardano non sfuggono a questo andazzo, sembrano tarate più sul ‘personaggio’ che sull’autore, e gira e rigira sembrano un questionario a sfondo mondano (con chi?, cosa è successo?, chi c’era?, dove e quando?) con virate perenni su vite celebri del passato. I giornalisti temono un confronto diretto con lei su questioni intellettuali o più semplicemente hanno letto poco (o male) i suoi testi? Per non parlare del luogo comune Arbasino-cronista mondano…
Non leggo mai le interviste che mi fanno, ma ho l’impressione che siano davvero tutte uguali….una delle più belle me la fece Maria Luisa Vecchi, tantissimi anni fa. Anche per questo non amo essere intervistato, preferisco che mi si interpelli attraverso l’opera, non con microfoni e taccuini. In Italia c’è questa abitudine un pò fastidiosa di riverire con un linguaggio concettoso e giravoltante chi ha raggiunto un certo stadio di riconoscibilità culturale. Non lo so chi mi teme, non mi tengo informato su questo. Non mi interesso mai di quel che leggono o non leggono i giornalisti, però certo i miei libri, se devono recensirli, immagino li sfoglino perlomeno distrattamente. Alcuni di loro sono anche molto gentili, garbati, però ci si annoia molto a sentirsi fare certe domande…”e Antonioni? E quella volta con Fellini?”. Sono sicuro di essere un autore molto citato e poco letto, costruisco oggetti complessi che scoraggiano un lettore incolto in cerca di pappe pronte o cotte e ricotte quindi nessuno stupore. Le domande mondane, certo, tradiscono l’intento di aggirare le questioni più difficili, formali, estetiche…Il giornalista medio italiano spesso cade nel gradassismo, e non credo sia molto colto. Dove lo si trova il tempo per leggere libri se si passa il tempo ad andare alle feste, agli aperitivi, o a fare ‘climbing’?
Se oggi manca una definizione chiara di intellettuale è perchè in Italia non ce ne sono più o perchè i pochi esistenti disertano aule universitarie e poltrone televisive evitando dichiarazioni su come lasciarsi identificare?
Quando qualcuno mi chiama “maestro”  ho un brivido di sgomento, quindi si figuri, sono l’ultima persona che può rispondere a questa domanda. Guardi, qui si è consumata completamente la possibilità di pensare in modo equilibrato un argomento come questo. La definizione è un problema che si pongono quelli che non hanno approfondito l’argomento…Intellettuale è un termine che più smandrappato non si può in questo paese, se poi ci si mette anche il relativo dibbbattito non resta che la smorfia dell’intento nobile originario. Sicuramente chi ha molto a cui pensare  e molto da scrivere non poltroneggia sempre nei programmi, non trae alcun giovamento dall’essere ospite celebre alla tivù…Poi per carità, magari oggi qualcuno parla di crisi dell’intellettuale e del suo ruolo, una argomento veramente stronzo e noioso. A me sembra proprio che non ci sia più quella civiltà, quella cultura da società letteraria.
Siamo nell’epoca della folla culturale “creativa”,  a ogni angolo spunta l’odioso tic lessicale del milieu dei circuiti dabbene dell’arte: creatività. I laboratori di scrittura cosiddetta “creativa” sono l’epifenomeno di questo tic: l’esito è un pericoloso vespaio di arraffoni iperpubblicati all’ammasso o l’ennesimo innocuo esercito di mezze calze invisibili?
Entrambe le cose. Però guardi che la folla inviperita e le canizie crudelissime esistevano pure negli anni ’70, non è cambianto nulla. Certo adesso c’è una ressa spaventosa, con tutti questi presunti critici, presunti scrittori e così via. Ognuno pressa per un centimetro di palco o di spazio sulla carrozza, il risultato è abbastanza penoso a guardarsi. Di scrittori comunque non ce ne sono in giro, di poeti poi vabè non discutiamone nemmeno. Brillanti promesse quante ne vuole, ma tra dieci anni chi se le ricorda? Siamo alla stabilizzazione della Pseudo-Cultura delegata a trattare coi giornalisti o coi tenutari di rubriche letterarie.
Le case editrici sfornano romanzi come panini imbottiti e chiunque oggi pubblichi parole omologate su una sequenza cartacea di pagine è presentato automaticamente come uno scrittore. Qual è (o dov’è) l’origine del danno, e quale sarebbe eventualmente l’antidoto?
La pressione c’è, è innegabile. La sovrapopolazione non perdona. L’accesso ai saperi è diventato tanto facile quando privo di qualità e significato. Poi ci sono troppe lauree, troppi dottorati, sovrabbondanza della democratizzazione della cultura superiore come redenzione totale o come elevazione dovuta e impareggiabile…Si chiama “creatività” qualcosa che diversamente  non avrebbe un nome perchè cela qualcosa di orribilmente anonimo o conformato. Il processo mi sembra destinato a essere longevo, non si fermerà. Il problema è che ormai il trucchetto lo hanno imparato tutti, con questa smania di smontare il meccanismo e farlo vedere a tutti, insieme alla moda di rendere il lettore ‘collaborativo’, l’invito all’azione e alla cooperazione lettore-autore…La cultura alta non è mai stata per tutti, ma la propaganda dell’ultimo trentennio illude del contrario: questo ha provocato risultati molto dolorosi e pericolosi per la stessa cultura.
La moda dei festival del libro, annualmente sparsi per l’Italia, sembra una buona metafora di quella “percepibile ansia di salire sul carro” di cui parlò qualche tempo fa in un’intervista. Se la voglia di successo è più urgente della qualità, che speranze ci sono per l’Italia di avere ancora Letteratura?
Nessuna. Non mi viene in mente nulla che valga l’aggravio della lettura, anche perchè ognuno è già troppo sicuro, lanciato. L’epoca è quella di gesti normali insigniti delle nove colonne, mamme che mettono lo zucchero nel caffè o profeti che pensano di stupire usando la parola cazzo, ma io giro pagina. Non me ne importa niente. Non mi vien voglia di leggere. Tanti anni fa non si usavano letterariamente gli antichi sapori o le ricette della nonna mescolandole impunemente con le malattie del papà o l’agonia della mamma o le mutilazioni di antiche guerre subite dalla bisnuora.
L’io,  il proprio ombelico (come ama chiamarlo lei) e il domicilio sono l’inventario base di ogni narrativa aeroportuale venduta oggi per scrittura. I libri si vendono tanto più se l’autore fa gli aperitivi con i lettori o espone il suo caso privato (assecondando il celebre poker arbasiniano infanzie difficili/tinelli/antichi sapori/corsie ospedaliere).  Cosa distingue la vera scrittura dallo sfogo-paccottiglia?
 L’impressione è quella di tanti presepi apparecchiati. La distinzione è ovvia solo a patto di praticarla dall’interno, di esserne l’esecutore, e il fruitore intelligente questo lo sa e decodifica perfettamente se l’operazione è limpida o sentimentalmente ricattatoria. La scrittura è il contrario della semplificazione, e l’insistenza sulla struttura e sull’intreccio sono un indizio dell’irrilevanza. Il calvario della prozia come può interessarmi? O il “sapesse quanto abbiamo sofferto, signora mia”?
A proposito di understatement e low profile (parole che le stanno care, visto che, come Gadda, si ritiene non esibitivo nè narcissico), in un articolo apparso su “Il Foglio”,  Alfonso Berardinelli descriveva l’io di Arbasino “un io prossimo allo zero, che sparisce di fronte all’oggetto su cui lavora”. Si rivede in questa definizione? Come la interpreta?
Mi ci rivedo, mi sento a mio agio se accostato a un’immagine del genere. Ma non la interpreto, interpretare una definizione che altri hanno dato di noi mi sembra, appunto, un vizietto ombelicale. Sono fuori anche dal dato più tipico dell’antropologia nazionale, l’aggressività sistematica di tutti contro tutti, i guelfi e i ghibellini…
Volendo suggerire agli italiani esordienti della penna un esercizio di autocritica preliminare alla pubblicazione di un testo, che cosa dovrebbero domandarsi secondo lei prima di correre da un editore mossi dall’ ansia di andare in stampa?
Il grande scrittore è prioritariamente un lettore talentuoso. Non ho nessun ‘messaggio’, soltanto un buon consiglio, cioè leggere i classici del ‘900 italiano. Dovrebbe essere un passatempo. Quindi è un suggerimento per un buon divertimento. E poi suggerirei magari la sprezzatura: essere lievi nelle cose pesanti e invece magari puntigliosi nelle stupidaggini. E forse più understatement anche nella presa di posizione. C’è l’ ansia da carro…Consiglierei semplicemente prudenza, magari il carro si rivela meno solido del previsto. E poi fare come Longhi, che scriveva come uno che si veste al buio ma ha un guardaroba talmente bello da non sbagliare mai un accostamento. E poi evitare l’eros. L’italiano è una lingua impossibile per scrivere di erotismo e di pornografia…Come si fa a scrivere una frase come: “E l’energumeno estrasse un membro gigantesco?”. Come si fa a scrivere “estrasse” in pornografia? Fa parte di quel linguaggio burocratico e fatiscente con parole come “inanellare”, “obliterare”, “aeromobile”…
Parte della forza di ciò che scrive e pensa è dovuta alla scelta di un registro espressivo criptato: si ha la sensazione di trovarsi al cospetto di una trappola il cui disinnesco è destinato a una cerchia di complici, un pò come messaggi in codice per lettori sceltissimi, una specie di  dialogo tra lei e coloro che hanno occhi per intra-vedere ciò che non vuole rendere esplicito (e, perciò, fatalmente  consumabile). Serve più coraggio o più disciplina per praticare le alture, lontani dal prodotto da banco?
Occorre praticare la ‘distanza’, e sentirsi a metà tra un superstite o uno scalatore… Per esempio, io sono un superstite che si sente privo dei suoi coetanei. Se penso che avevano pochi anni di più, Calvino, Parise, Pasolini e Testori, e non ci son più…Ci eravamo ripromessi di fare alla fine dei grandi litigi e li pregustavamo. Ma non c’è stato il tempo.

 Da   http://www.impressionsreview.com/intervista-impossibile-ad-alberto-arbasino/
15/12/2016
*Rubina Mendola si è laureata in Filosofia a Palermo. Il 29 Ottobre 2015 ha fondato Impressions, rivista online di critica culturale che attualmente dirige. Si dedica alla filosofia, alla critica, al pamphlets. I contesti filosofici della sua formazione sono il pensiero nietzscheano e le tangenze tra pensiero kantiano e wittgensteiniano, l’epistemologia, il pensiero analitico, la filosofia della scienza e del linguaggio. Si occupa di filosofia, critica cinematografica, new media e letteratura. In passato si è interessata alla storia dell’arte e all’estetica. Ha scritto per il Notiziario Bibliografico (Il Poligrafo-Padova), per alcune riviste online (Kill Surf City, Iovo.it, Rapporto Confidenziale) e per il quotidiano La Repubblica (Palermo). Ha pubblicato alcuni saggi e articoli per Mimesis e Franco Angeli.





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